Incontro Desi Bruno

 

Un Garante anche per chi è rinchiuso nei C.P.T. e nelle camere di sicurezza delle questure

Chi entra in carcere non si trasforma in un suddito

Secondo Desi Bruno, Garante dei diritti delle persone private della libertà

personale del Comune di Bologna, “rivendicare il rispetto della dignità e

dei diritti fondamentali anche per le persone private della libertà

personale è il grande impegno culturale che abbiamo di fronte a noi”

 

(Incontro avvenuto nel mese di dicembre 2007)

 

a cura della Redazione

 

Desi Bruno è avvocato, conosce il carcere e i codici, ma soprattutto ha passione a sufficienza per buttarsi con forza in un’impresa difficile come quella di fare il Garante dei detenuti, in un momento in cui il carcere non è esattamente al centro dell’attenzione della società, e nello stesso tempo ha la lucidità per farlo aprendo un confronto chiaro con la Magistratura di Sorveglianza, che fra i suoi compiti ha anche la tutela dei diritti delle persone detenute. L’abbiamo incontrata nella nostra redazione.

 

Ornella Favero: Con Desi Bruno ci piacerebbe tracciare un percorso “ideale”, di come si può arrivare all’istituzione della figura del Garante dei diritti delle persone private della libertà personale, e come poi concretamente il Garante può operare, con quali limiti, quali difficoltà.

Vorremmo trattare vari temi legati a questa figura per allargare il dibattito, anche perché vi è una proposta di legge per l’istituzione di questa figura a livello nazionale che è attualmente bloccata in Parlamento, mentre sono parecchie le realtà territoriali che l’hanno istituita, anche in città con carceri abbastanza piccole, come Lodi, Brescia, Ferrara, ma c’è tanta strada da fare, perché sono molte le città con carceri importanti, in cui non è ancora presente, Padova è fra queste, e noi pensiamo che bisogna continuare ad esercitare sollecitazioni e pressioni sul Comune perché decida di fare questa scelta.

Desi Bruno: Intanto grazie, sono molto onorata che abbiate pensato a me. Svolgo questa attività da poco più di due anni, a Bologna la nascita di questa figura è avvenuta in questo modo: è iniziato un dibattito cittadino portato avanti da varie associazioni che lavorano sulle problematiche del carcere e dei diritti, percorso molto interessante, parallelo al lavoro che il Comune di Bologna stava facendo, attraverso le commissioni competenti, di audizione nei confronti di tutte le realtà associative che lavoravano sul carcere.

L’ufficio è stato poi istituito con decisione del Consiglio comunale della giunta precedente all’unanimità, e questo è un fatto ovviamente importante. La mia nomina è avvenuta poi in seguito con la giunta attuale, sempre da parte del Consiglio comunale, diversamente da quanto avvenuto in altre realtà in cui la nomina è stata fatta dal sindaco. Il procedimento di nomina prevede di solito un bando con una preselezione e poi una selezione finale fatta dal Consiglio comunale, sulla base di requisiti specifici di competenza giuridica e di ordine morale.

Io ho chiesto ed ottenuto che il mio ufficio non fosse inserito in nessun assessorato, ma rimanesse operante presso la presidenza del Consiglio comunale, ritenendo fondamentale per l’esercizio delle mie funzioni il requisito dell’indipendenza e dell’autonomia, in modo da poter essere libera di attivare, se necessario, anche percorsi che fossero in contrasto con l’amministrazione.

L’ufficio di Bologna, come tutti gli altri a livello locale, è nato in via sperimentale, in attesa della istituzione di una figura di Garante nazionale, si è dunque partiti dal locale per arrivare al nazionale con processo opposto rispetto agli altri paese europei.

La figura del Garante nazionale tarda a concretizzarsi per le vicende politiche di questo periodo, è quindi importante continuare a fare pressione sugli enti locali per la sua istituzione, anche perché la proposta di legge prevede in ogni caso che la figura del Garante nazionale sia in collegamento e coordinamento con le figure di Garanti locali.

Dal momento che il Garante non è previsto dall’Ordinamento penitenziario, il primo problema da affrontare è stato quindi capire con che autorizzazioni, poteri, facoltà, e limiti entrare in carcere.

Insieme ad altri Garanti abbiamo promosso un dibattito con il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria e presentato un progetto di modifica all’art. 67 O.P. perché fra le persone che possono entrare in carcere senza autorizzazioni possano esserci anche i Garanti locali. Tale progetto è stato presentato al Presidente della Commissione Giustizia del Senato, senatore Salvi.

La prima fase della mia attività è stata complessa, vi erano come prevedibile delle perplessità, e resistenze da parte dell’Amministrazione Penitenziaria rispetto ad una figura che non si sapeva come si sarebbe mossa. Mi sono conquistata pezzettino per pezzettino la capacità d’essere accettata e progressivamente è andata per me aumentando la possibilità di entrare in carcere.

È importante chiarire che il Garante è chiamato a garantire i diritti delle persone private della libertà personale in ogni situazione di privazione, può quindi operare non solo in carcere, ma anche nei C.P.T, negli istituti minorili, nelle comunità terapeutiche, nei reparti psichiatrici in cui vengono fatti i trattamenti sanitari obbligatori, nelle camere di sicurezza della questura in cui sono portate le persone appena arrestate.

Io ho cercato di interpretare il mio ruolo con grande imparzialità, che significa non utilizzare mai nessuna situazione per nessun fine, in altre parole mi sona data un obbligo di verità rispetto alle situazioni che andavo ad incontrare, anche quando questo significava assumersi l’onere di intervenire in condizioni di grande difficoltà.

Porto un esempio: in un periodo di tempo limitato, abbiamo avuto presso la Casa circondariale di Bologna cinque morti. Ho ritenuto mio dovere segnalare questa situazione, collegata al grave affollamento e alla carenza di personale, al D.A.P. Ho fatto una scelta di trasparenza che inizialmente non è stata compresa per nulla, io credo però che la scelta di dire la verità per affrontare le situazioni per quello che sono sia l’unico strumento reale perché il Garante possa acquistare credibilità non solo rispetto alle persone cui deve garantire i diritti, ma anche rispetto alle istituzioni. Ho cercato di costruire rapporti di grande chiarezza, con tutte le persone presenti in carcere, compresi gli agenti di polizia penitenziaria, ho chiesto a ciascuno di interloquire rispetto a quello che percepiscono del mio ruolo, perché credo che, essendo la mia una figura sperimentale, una parte del mio lavoro debba essere rivolta a cercare di spiegare che, quando si parla di assicurare i diritti alle persone che sono private della libertà personale, si rende un servizio non solo alle persone ristrette, ma all’intera collettività. Un servizio che deve diventare un valore aggiunto per tutti, e in questo ho sempre cercato di farmi accettare come una risorsa, una risorsa a volte in situazione di contrasto forte sulle scelte che si venivano a determinare.

Devo dire che nella realtà bolognese ho trovato un aggancio, un supporto importante, cosa che non avviene in altre realtà, con la Magistratura di Sorveglianza, in particolare con la Magistrata che era delegata ad avere relazioni con l’esterno, che ha sempre rivendicato il proprio ruolo di difensore dei diritti delle persone detenute, riconoscendo però anche che la figura del Garante è una figura importante e complementare, e non una figura di contrasto che va ad interferire col ruolo della Magistratura di Sorveglianza. Credo che in questo l’esperienza bolognese possa essere un’esperienza pilota, nel senso che una delle obiezioni che i Magistrati di Sorveglianza fanno è “A che cosa serve la figura del Garante dal momento che siamo noi che garantiamo?”, in realtà sono due ruoli che possono pacificamente convivere e anzi reciprocamente darsi forza, nel senso che se ormai dalla fine degli anni settanta i Magistrati di Sorveglianza hanno scelto più un ruolo giurisdizionale nella affermazione dei diritti, c’è tutto un campo che riguarda la pressione che può essere fatta sia sull’Amministrazione penitenziaria, sia nei confronti degli enti locali, da parte di una figura di garanzia che non ha poteri, ma che deve conquistarsi un grande potere, che è quello di riuscire a far parlare di ciò di cui non si parla praticamente mai. Quindi rivendico la giustezza di poter configurare un ruolo di garanzia affianco ai Magistrati di Sorveglianza

Io ad esempio ho incominciato la mia attività denunciando il pessimo livello di condizioni igieniche e sanitarie all’interno del carcere, dopo aver raccolto le denunce collettive dei detenuti. Sono state quindi fatte ispezioni da parte delle autorità sanitarie locali dell’ULSS, che hanno riscontrato che quanto detto dai detenuti era corrispondente al vero, e dopo un anno e mezzo il Sindaco, come massima autorità sanitaria locale, ha finalmente firmato un’ordinanza d’urgenza con cui si sono assegnati al Ministero dei termini entro i quali devono essere fatti dei lavori ritenuti indispensabili.

Dopo quella di Solliciano, è questa la seconda ordinanza nella storia d’Italia che mette il Ministero di fronte al fatto che così, con le carceri in queste condizioni, non si può andare avanti. Quindi la pressione è stata fatta nelle forme dovute, raccogliendo le indicazioni che venivano dai detenuti, ma io non ho mai detto che le indicazioni che vengono dai detenuti, o da altri soggetti, devono essere prese come oro colato, io chiedo che vengano fatte delle verifiche, se le verifiche però portano a riscontri positivi l’Amministrazione competente deve intervenire, e questo credo che sia il valore positivo di una pressione da parte di un ufficio come il mio, che appunto non ha potere di intervento, non posso firmarla io l’ordinanza, però posso sollecitare chi ha questi poteri perché li eserciti, per cui devo dire che questa ordinanza per me dà un po’ il senso di quello che può fare una figura di garanzia.

 

Elton Kalica: Un cittadino nel suo rapporto con l’Amministrazione pubblica pretende di essere trattato con correttezza e umanità, ma questo è logico perché si ha a che fare con persone rispettose della legge che chiedono a loro volta di essere rispettate. Nel caso di noi detenuti la cosa cambia un attimo, nel senso che noi siamo qui dentro per aver violato delle leggi e spesso succede che anche all’interno del carcere non si ha un comportamento rispettoso nei nostri confronti. Allora l’Amministrazione pubblica, in questo caso l’Amministrazione penitenziaria, che rapporto deve avere con il cittadino, che in questo caso è il detenuto? Autoritario, rigido per il luogo in sé, il carcere, in cui si esercita questo rapporto, oppure ci sono delle ragioni per le quali io posso ancora pretendere un trattamento umano e cortese e rispettoso dei miei diritti da parte della Pubblica Amministrazione?

Ornella Favero: Aggiungo una osservazione: quando incontriamo gli studenti, e qui dentro vengono molti studenti, una reazione tipica è pensare che l’aver commesso un reato, la “perdita dell’innocenza”, significhi perdere tutto. Per esempio, se un detenuto parla della sanità penitenziaria e dice che non sempre la salute è tutelata, la reazione tipica dei ragazzi è di ribattere: tu sei entrato in carcere perché hai violato la legge, quindi cosa vuoi adesso: studiare, lavorare, essere curato come noi, che non abbiamo commesso nessun reato? Il fatto che la perdita della libertà non vuole dire perdere anche tutti i diritti dovrebbe essere spiegato più spesso ai cittadini, io credo.

Desi Bruno: Le persone che sono in carcere dovrebbero essere private esclusivamente della libertà di movimento, mantenendo quindi tutti gli altri diritti, dal diritto alla salute, che è uno di quelli più compromessi dal carcere, al diritto allo studio, al lavoro, a mantenere una propria affettività nelle relazioni familiari, all’integrità fisica. Il fatto che molte persone all’esterno non condividano questa affermazione è indubbiamente un dato preoccupante, bisogna rivendicare esattamente il contrario, e cioè che chi entra in carcere non si trasforma in un suddito, in un soggetto a cui riservare un trattamento che è soltanto un trattamento caritatevole, come se gli si facesse al massimo un favore, ma rimane persona titolare di tutti i diritti fondamentali. Il Garante nasce proprio per rivendicare l’esistenza di questi diritti e la necessità di occuparsene anche facendo dei ragionamenti molto impopolari, come nel caso del diritto al lavoro, per il quale occorre aiutare le persone fuori a superare i luoghi comuni (“Non ce l’abbiamo noi il lavoro, figurati se dobbiamo occuparci del lavoro per i detenuti!”) e a comprendere che mantenere un’autonomia, grazie alla propria capacità lavorativa, è un valore fondamentale per tutti. Rivendicare il rispetto della dignità e dei diritti fondamentali anche per le persone private della libertà personale è il grande impegno culturale che abbiamo di fronte a noi, anche se questo apre una serie di problematiche che riguardano il rapporto con l’Amministrazione penitenziaria, con gli agenti, con la collettività che chiede sicurezza, e anche il rapporto tra persone detenute.

 

Lorena Orazi (Responsabile dell’Area pedagogica della Casa di Reclusione): Noi siamo stati fra i primi nel ‘97 proprio qui a Padova a fare un convegno sulla figura dell’Ombudsman insieme all’Università di Padova, l’associazione “Diritti umani – Sviluppo umano” e l’associazione Antigone, e quello che si chiedeva a questa figura di garanzia era di tutelare in qualche modo, o di “andarsi a impicciare” dei luoghi dove più deboli sono le condizioni di garanzia, come i C.P.T., mentre per assurdo il carcere in qualche modo una figura di garanzia ce l’ha, è il Magistrato di sorveglianza, anche se con questo non voglio dire che sia inutile una nuova figura, anzi sicuramente è complementare. Io allora vorrei sapere quali sono stati i suoi interventi con il C.P.T., le questure e la stazione dei carabinieri. Glielo chiedo perché so, per esempio, che quando va a fare le visite nei diversi Paesi il “Comitato europeo per la prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti inumani o degradanti” va anche a visitare i luoghi dove le persone vengono trattenute per pochi giorni o qualche ora, va a chiedere come sono le condizioni di tutela della persona in quei luoghi. Perché ho sentito raccontare, per esempio, da poliziotti che conosco che se uno passa una notte in cella non è previsto che gli passino la cena, quindi una persona che rimane chiusa in questura e non viene portata in carcere rimane anche 24 ore senza mangiare.

Desi Bruno: Per quanto riguarda il Centro di Permanenza Temporanea, so che adesso sono state emesse alcune circolari per consentire un maggior ingresso di volontari. Io devo dire che, dopo un’iniziale chiusura, sono riuscita a raggiungere una buona intesa anche con la Prefettura, alla quale ho proposto alcune iniziative da fare all’interno del Centro, quali ad esempio uno sportello informativo per gli immigrati e un altro per le donne vittime della tratta. Attraverso questo sistema ho ottenuto l’autorizzazione permanente all’ingresso al C.P.T., dove posso andare senza preavviso, e grazie a questo sono riuscita ad intervenire a favore di persone, che prima non sapevano neppure se avevano la possibilità di rimanere sul territorio, e a risolvere qualche situazione significativa in collaborazione con la Prefettura.

Per quel che riguarda le camere di sicurezza della questura, in relazione ad una situazione specifica di particolare disagio vissuta da alcune donne rom che, arrestate, erano state portate lì con i bambini, ho chiesto di poterne verificare le condizioni igienico-sanitarie, e sono in attesa di autorizzazione da parte del Ministero. Questa richiesta ha tuttavia smosso un po’ le acque e ha fatto sì che nel frattempo in caso di identificazione vengano usati i locali di una nuova caserma, che sono in condizioni conformi alla norma. Il comandante dei vigili ha fatto poi una proposta assolutamente condivisibile, ossia che la persona arrestata in flagranza di reato, anziché passare attraverso le camere di sicurezza, possa essere portata direttamente in carcere, che rimane comunque un luogo più strutturato, in cui possono più agevolmente essere soddisfatti i bisogni fondamentali della persona. Rimane poi la possibilità di intervenire, su segnalazione, nelle comunità terapeutiche, in cui vi sono persone agli arresti domiciliari o in misura alternativa, e già in passato la vicenda di S. Patrignano ha dimostrato come sarebbe stata necessaria la presenza del Garante.

 

Elton Kalica: Vorrei capire se può essere pensabile la presenza del Garante anche nell’udienza di fronte al consiglio disciplinare, dal momento che in quella sede il detenuto non ha alcun tipo di tutela immediata, nel senso che non è accompagnato da alcuna figura. Penso anche alla situazione delicata dei detenuti stranieri che spesso subiscono rapporti disciplinari per incapacità di comunicare in modo chiaro le proprie necessità, e che potrebbero aver bisogno di un supporto da parte di un Garante, nel caso in cui intendano impugnare il provvedimento preso nei loro confronti.

Desi Bruno: A me è stato chiesto da un detenuto di Bologna, il quale doveva affrontare un’equipe trattamentale e non si sentiva sufficientemente tranquillo di doversi trovare di fronte ad una serie di figure, dal direttore agli educatori, in pratica aveva il timore di non riuscire ad interloquire in modo corretto e mi chiedeva: perché lei non può accompagnarmi? È una domanda a cui non sono stata perfettamente in grado di rispondere, nel senso che la risposta è che questo non è previsto, ma è vero anche che non è neppure vietato. E da lì mi sono posta una serie di domande: in tutti i provvedimenti disciplinari che riguardano i cittadini liberi, la possibilità di essere accompagnati dal proprio difensore esiste, cioè il procedimento disciplinare, per esempio in ambito lavorativo, ha delle ricadute cosi importanti che puoi farti accompagnare da un avvocato, da un sindacalista, insomma è possibile essere assistiti. Ora invece per i detenuti prevale, per come ovviamente è costruito il provvedimento disciplinare, l’idea che si tratta di un rapporto di soggezione perché si tratta di una persona che ha comunque subito una condanna o è sottoposta a procedimento penale, e quindi è scontato che ci sia un rapporto di soggezione rispetto all’Amministrazione penitenziaria. Le sanzioni disciplinari hanno però una ricaduta importante dal punto di vista trattamentale, dal punto di vista della costruzione del percorso del detenuto all’interno del carcere e anche poi per le misure alternative, quindi il fatto che una persona possa essere rappresentata, che ci possa essere il difensore o una figura come il Garante che la accompagni, io non lo vedo come un fatto impossibile, anche se certo bisognerebbe passare attraverso una modifica normativa.

Penso per esempio anche ai rapporti disciplinari collettivi, quando ci sono delle situazioni dove si colpiscono tutti per colpire chi si pensa sia l’autore, questo non accade sempre ma delle volte accade, e diventa uno strumento per l’Amministrazione, come dire?, di contenimento, però certamente un rapporto collettivo è qualcosa di diverso da un principio di responsabilità personale, e quindi io credo che sia corretto affrontare anche questo tema, perché è un tema importante su cui probabilmente varrebbe la pena fare una modifica normativa sulla procedura dell’applicazione delle sanzioni disciplinari

 

Ornella Favero: Io volevo invece affrontare un altro tema, la Magistratura di Sorveglianza nel suo rapporto con i detenuti. Qui ogni tanto i Magistrati di Sorveglianza vengono in redazione e si confrontano con noi, recentemente è stato proprio uno dei due Magistrati a dire ai detenuti: voi avete dei diritti, riconosciuti dalla legge, fateli valere. In realtà, i Magistrati di Sorveglianza rivendicano giustamente di essere loro quelli che tutelano i detenuti nel rapporto con l’Amministrazione, ma chi tutela invece i detenuti nel rapporto con gli stessi Magistrati? Ci sono Magistrati di Sorveglianza, per esempio, che non entrano in carcere per fare colloqui con i detenuti, è possibile che il Garante abbia un ruolo in questo delicato rapporto?

Desi Bruno: Uno dei motivi per cui si è pensato alla figura del Garante è stato proprio quello di colmare questo vuoto nei rapporti personali fra Magistrato e detenuti. Io peraltro considero assolutamente negativo il mancato rapporto diretto con i detenuti e non condivido la tesi che ciò avvenga a salvaguardia del ruolo terzo del Magistrato, l’idea che si perda il senso della giurisdizione se ci si sporca un po’ le mani a contatto con le persone, non la trovo assolutamente una giustificazione sufficiente e convincente. Si può essere giudici terzi e quindi applicare le regole mantenendo la propria imparzialità e indipendenza, conoscendo però meglio le situazioni su cui poi si deve decidere. Nella mia esperienza posso dire di aver visto che meno si conoscono le persone, più si sbaglia. La conoscenza non è certo la panacea di tutti i mali, in molti casi tuttavia consente di evitare errori clamorosi. Detto questo è importante sottolineare la necessità che il ruolo della Magistratura di Sorveglianza vada potenziato e che vada poi chiesto al Magistrato di essere più presente nell’esercizio dei compiti che gli sono assegnati dall’Ordinamento a tutela dei diritti delle persone detenute. Ad integrare la funzione del Magistrato resta poi il Garante che è sprovvisto di potere ordinatorio e che ha il compito però di sollecitare un intervento da parte di tutte le istituzioni, ogni volta che sia necessario indurre comportamenti rispettosi di leggi e regolamenti, a tutela di una persona privata della libertà personale. È evidente che il Garante non può costringere il Magistrato ad andare in carcere, però può far presente che questa esigenza andrebbe soddisfatta creando nel frattempo con il Magistrato un canale di comunicazione, ovviamente nel rispetto dei reciproci ruoli.

 

Ottavio Casarano (Vicedirettore della Casa di Reclusione): Ricordo anch’io il convegno internazionale del 1997 sull’ombudsman delle carceri, in quell’occasione come molla propositiva dell’istituzione di queste figure si individuò la possibile funzione di facilitatore del Garante in ordine a quelle difficoltà di comunicazione interistituzionale che ci sono fra il carcere e le istituzioni esterne, dove i cittadini, italiani o stranieri, detenuti non arrivano ad avere la stessa tutela degli altri cittadini, per questa limitazione della libertà di circolazione che è l’unico diritto che in definitiva dovrebbe essere sacrificato. Mi piacerebbe allora sapere quanto nei suoi interventi in questi suoi due anni di attività è stato dedicato a facilitare la comunicazione tra il carcere e le istituzioni esterne.

Desi Bruno: Direi che è l’attività prevalente, il compito del Garante è quello di pressione sugli assessorati, pensiamo ad esempio alle risorse da destinare a progetti per il carcere. Nel carcere di Bologna c’era una tipografia che stava per chiudere perché non aveva commesse, pur lavorando molto bene, io ho informato i sindaci della provincia, che sono una settantina, alcuni si sono convinti della bontà dell’operazione e oggi la tipografia ha assunto un’altra persona e lavora con un buon standard di produttività. Per quel che riguarda poi le situazioni singole, rispetto alle persone che sono vicine al fine pena, cerco di sensibilizzare gli sportelli perché si faccia un lavoro di verifica delle condizioni abitative, di opportunità di attività lavorative, di contatto con i famigliari. Io sollecito dunque questo tipo di interventi e verifico che rispetto a questi non ci siano inadempienze, neppure da parte del Comune, la mia è dunque un’operazione di monitoraggio perché vi sia attenzione al momento dell’uscita dal carcere e, laddove vi sono delle risorse per farlo, sia favorito il reinserimento lavorativo. In definitiva, compito del Garante è quello di cercare di creare coinvolgimento rispetto alla realtà del carcere, e questo significa anche moltiplicare le occasioni di avvenimenti aperti alla società all’interno del carcere, organizzando spettacoli, promuovendo convegni e dibattiti. Ho ad esempio promosso a Bologna una conferenza su “Carcere e formazione”, per la quale abbiamo preventivamente attivato tutte le commissioni di Provincia e Comune e organizzato audizioni con gli imprenditori, i sindacati e le cooperative sociali, raccogliendo tutta una serie di informazioni. L’idea era quella di mettere insieme tutti i soggetti interessati a discutere su quel tema, facendo poi delle proposte concrete, e l’esito è stato positivo, si sono già presentati due imprenditori per fare una sartoria e le cooperative si sono già messe in contatto.

 

Ornella Favero: A un detenuto capita spesso di venire trasferito, o comunque di “cambiare” Magistrato di Sorveglianza, e quindi alla persona che sta facendo un percorso può capitare di dover “tornare alla casella di partenza” vedendosi magari ridurre i permessi o inasprire le modalità con cui può trascorrerli. Mi chiedo allora che garanzia abbia un detenuto rispetto alla cosiddetta “progressione trattamentale”, al fatto che il suo percorso deve prevedere delle tappe precise verso un graduale reinserimento.

Desi Bruno: Premesso che in base al principio di responsabilità personale del Magistrato, nulla gli vieta di dare una diversa interpretazione ai risultati trattamentali e di essere più rigido e rallentare così il percorso, con modifiche restrittive per il detenuto, più che sul singolo caso farei un ragionamento sul clima complessivo all’interno del quale i Magistrati di Sorveglianza prendono le loro decisioni. Essi si muovono infatti in un contesto in cui le misure alternative, contro i dati assolutamente convincenti dell’esperienza delle stesse, vengono tutti i giorni presentate come se fossero il male da cui dobbiamo assolutamente difenderci. Se non cambia questo clima in cui i nostri mezzi di informazione si occupano soltanto di omicidi e cronaca nera e c’è un’opinione pubblica, formata solo sui grossi avvenimenti negativi, a cui non viene raccontata la quotidianità delle esperienze positive che sono la stragrande maggioranza, può accadere che i Magistrati, eccessivamente allertati, non riescano a difendere quello che gli appartiene naturalmente e adottino un atteggiamento di estrema prudenza rispetto alla concessione delle misure alternative.

 

Marino Occhipinti: Ho letto una sua relazione nella quale spiega la difficoltà, in un carcere come quello di Bologna, con più di mille detenuti, di rapportarsi con loro, in qualità di Garante. Sarebbe più agevole confrontarsi con una rappresentanza di detenuti, ma questo non è previsto dall’Ordinamento penitenziario, ad eccezione delle commissioni culturale e sportiva, e della commissione cucina, dove la rappresentanza di detenuti c’è, ma con un ruolo ben delimitato.

Desi Bruno: I detenuti sono tanti e per questo io entro in carcere tutte le settimane, fa anche questo parte della mia strategia, nel senso che so che ad aspettarmi sono non solo i detenuti, ma anche gli operatori e a volte gli stessi agenti di polizia penitenziaria che mi segnalano le situazioni, secondo loro meritevoli di un mio intervento. Per me l’idea di avere delle rappresentanze di detenuti che mi portino le istanze della sezione è un’idea praticabile, già si è creata la consuetudine da parte dei detenuti di mandarmi istanze collettive, ad esempio per il vitto e il sopravitto abbiamo avuto esposti firmati da cento, duecento persone. Secondo me è un fatto positivo che i detenuti si muovano collettivamente, perché questo presuppone che imparino a ragionare insieme e insieme a confrontarsi sulle questioni che li riguardano. La direzione del carcere di fronte alla richiesta posta dai detenuti di formalizzare le rappresentanze per il rapporto con il Garante, ha risposto negativamente, non solo perché l’Ordinamento non lo prevede, ma anche perché ritiene che se le rappresentanze sono formate dalle persone più strutturate, può esserci una sorta di supremazia dei più forti sui più deboli. Io ho proposto di individuare delle rappresentanze che mutino, in modo che tutte le persone abbiano la possibilità di interloquire con me. Ragioniamo comunque su questa questione delle rappresentanza, anche se ovviamente è ben lontana da me l’idea che qualcuno possa utilizzare un proprio ruolo di supremazia nel confronto degli altri, questo sarebbe proprio contrario al mio stesso ruolo, però secondo me è importante che le persone si abituino a rappresentare le esigenze di tutti e non solo le proprie. Questa ad ogni modo è una delle questioni che ho sottoposto al Sottosegretario al Ministero della Giustizia.

 

Elton Kalica: Io credo ci sia una necessità di intervento anche nel rapporto fra detenuti e enti, cooperative e associazioni che organizzano attività o portano lavoro in carcere. Il Garante, per esempio, ha il potere di controllo su come vengono spese le risorse? E dove c’è un intervento delle cooperative che portano all’interno delle lavorazioni, si potrebbe occupare di controllare le condizioni di lavoro, i diritti dei lavoratori, la sicurezza sul posto di lavoro?

Desi Bruno: È innanzitutto importante precisare che i rapporti di lavoro in carcere non si basano quasi mai su contratti come accade per le persone libere, vero è che la maggior parte dell’attività lavorativa si svolge alle dipendenze dell’Amministrazione penitenziaria, con turni di rotazione di durata non superiore a uno, due mesi. Vi sono poi le borse lavoro e gli inserimenti nelle cooperative a tempo determinato o indeterminato. Va senz’altro denunciato, tra l’altro, che per il lavoro in carcere è stato fatto spesso un uso inappropriato dei fondi sociali europei, sono stati spesi centinaia di migliaia di euro su progetti che partono dal presupposto che le persone detenute sono persone che si accontentano di briciole. In altre parole non è stato fatto un ragionamento decoroso su che cosa vuol dire costruire dei percorsi lavorativi dignitosi per le persone, e spesso ci si è limitati ad affrontare il problema con borse lavoro di quattrocento, cinquecento euro per progetti che non fanno crescere la persona detenuta né in professionalità né in autonomia. Compito del Garante è quello di evidenziare un ragionamento diverso sull’utilizzo delle risorse per il lavoro in carcere, così come sui percorsi formativi: la formazione è necessaria, perché altrimenti fuori le persone non trovano lavoro, però allora facciamo della formazione mirata che guardi alle esigenze del mercato, e non quelle attività formative che sono solo un modo di fare andare avanti, scusate il termine, alcuni carrozzoni che non aiutano certo le persone a reinserirsi. E quando poi si dice “abbiamo formato cento persone”, bisogna essere consapevoli che non è vero, non sono state affatto formate cento persone, che poi fuori possano avere un reinserimento effettivo. Questo è uno dei temi su cui tutti ci dobbiamo interrogare, e certamente il Garante questo lo deve fare con particolare impegno.

 

 

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