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Un incontro con Gianluca Amadori, presidente dell’Ordine dei giornalisti del Veneto Giornalisti a scuola in galera? Pensiamo a un percorso che punti a portare periodicamente i giornalisti all’interno del carcere, per parlare di giustizia, carcere, esecuzione delle pene, e per riflettere sul valore delle parole, perché quando si scrive le parole hanno la concretezza delle storie, delle persone, delle sofferenze di cui raccontano
(Incontro avvenuto nel dicembre 2008)
a cura della Redazione
Gianluca Amadori è da poco presidente dell’Ordine dei giornalisti del Veneto. Quando lo abbiamo invitato a un incontro nella nostra redazione – anche perché ci sentivamo “maturi” per stabilire un rapporto con l’Ordine, “osando” proporre un seminario di confronto e formazione sui temi del carcere e dell’esecuzione della pena proprio qui, in galera – ha subito dimostrato interesse per la nostra proposta ed è venuto a discuterne direttamente con noi.
Gianluca Amadori: Ho ricevuto il vostro invito con la proposta di organizzare nella vostra redazione un seminario sulle questioni riguardanti la giustizia, le pene, il carcere. Non è per cercare giustificazioni ai giornalisti, ma effettivamente il nostro è un lavoro che si fa spesso in fretta, che è sull’attualità, per cui trovare la precisione, l’attendibilità perfetta è impossibile. D’altronde è verissimo che nelle redazioni si insegna sempre di meno, molti giornalisti non sono preparati. Proprio per questo l’Ordine sta cercando di fare un ragionamento sulla loro preparazione, sulla formazione. Sono convinto che i giornalisti devono confrontarsi, devono essere con e tra la gente, perché i primi che ci giudicano e hanno il diritto di criticarci sono quelli che ci leggono. La vostra redazione mi ha proposto un percorso, per creare dei momenti di incontro e di discussione. Credo sia una proposta importante perché i colleghi, e io sono il primo, conoscono poco la realtà del carcere, probabilmente per la gran parte non ci sono neppure mai stati. Ritengo che tutte le notizie, quando c’è un interesse pubblico, debbano essere date, ma bisogna porsi il problema di come vengono date, avere la consapevolezza che dall’altra parte ci sono persone, dunque rispettando la dignità delle persone. Pertanto trovare dei momenti di incontro è il primo passo. Magari poi sarebbe bello creare un percorso, e portare periodicamente i giornalisti all’interno del carcere, per far capire che le cose che si scrivono sono delle cose concrete, dove ci sono persone, storie, con dietro dei drammi personali. Credo che potremmo essere aiutati a capire un po’ di più chi è dall’altra parte, a usare le parole in maniera meno superficiale, più attenta, e più rispettosa soprattutto delle persone. Da parte dell’Ordine ci sono perciò una apertura e un interesse molto grande verso questi temi.
Elton Kalica: Intanto grazie, perché così abbiamo l’opportunità di aprire questo confronto con voi, perché anche noi ci troviamo a far parte dei lettori, anzi forse noi leggiamo in un modo più accanito i giornali, che sono una delle poche finestre che abbiamo per guardare alla società civile, e a quello che accade fuori. Oggi ci troviamo ad avere a che fare con un modo di dare le notizie, che spesso crea un cortocircuito tra informazione, politica e opinione pubblica, che poi finisce per tradursi in un peggioramento delle normative che riguardano noi che stiamo in galera, ma anche in generale si ripercuote su tutto quello che riguarda la giustizia, le pene, il sistema carcere. Quello che vorremmo fare allora con i giornalisti è confrontarci con loro, ragionare, se possibile, su due caratteristiche dell’informazione che ci interessano, la sobrietà e la correttezza, ma anche sul modo in cui vengono trattati i dati e vengono interpretate le leggi. Negli articoli di cronaca giudiziaria noi vediamo che i giornalisti prendono in mano le sentenze e fanno dei conti sommari. Faccio un esempio, si dice: uno prende una condanna a 30 anni, ma se togli un terzo per l’incensuratezza, se togli un terzo per il rito abbreviato, se togli 5 anni di liberazione condizionale, se togli 3 anni di liberazione anticipata… alla fine fai 3 anni di carcere… mentre noi qui ci guardiamo in faccia, ed essendo persone che abbiamo preso delle condanne molto alte, notiamo che la galera ce la stiamo facendo tutta, e con pochi sconti.
Marino Occhipinti: Sempre su questi temi, noi ci siamo incontrati qui anche con i magistrati di Sorveglianza, ed è emerso che c’è questa necessità di aggiornamento, perché soprattutto sull’esecuzione penale c’è poca conoscenza in generale, non solo per quanto riguarda i giornalisti. Io ricordo che quando ho finito tutti i processi, e sono diventato definitivo, l’avvocato che mi aveva seguito fino ad allora, un bravissimo avvocato di 65 anni, quindi non uno sprovveduto, mi disse: guarda da oggi ti arrangi, perché io sull’esecuzione della pena non so nulla. Quindi se questo lo diceva un avvocato che aveva 40 anni di esperienza, capiamo quanto possa essere difficile per un giornalista, e soprattutto per dei giornalisti praticanti. Io ieri sera leggevo le Regole minime emesse dall’Europa sui penitenziari, splendide, peccato poi che quelle regole sono applicate in alcune carceri all’uno per cento, in altre al 20, in altre ancora al 30, allora credo che, oltre a leggere l’Ordinamento penitenziario, bisogna scontrarsi poi con quello che in realtà succede. Perché per esempio scrivere che il Magistrato di Sorveglianza i permessi premio non te li può negare se ti comporti bene, mi sembra che sia una assoluta falsità, perché per ottenere i benefici ci vuole ben altro, che non il solo buon comportamento. Perciò mi fa piacere trovare una porta aperta stamattina, nel senso che ancora prima di cominciare la discussione c’è un riconoscimento da parte sua della necessità di affrontare certi temi, e quindi credo che oggi si potrebbe invece fare un passettino in avanti e provare a fissare dei punti sui quali fare questi seminari, e come farli. Gianluca Amadori: Capita che io venga attaccato dai colleghi, perché cerco di dare all’Ordine un’immagine che non sia quella di una casta. Difendo i giornalisti se vanno difesi, se non vanno difesi vediamo quali sono le critiche. Secondo me l’informazione in questo momento in Italia ha dei grossi problemi. Eccesso di spettacolarizzazione, per esempio: tutto sembra un reality. Per recuperare dignità professionale dobbiamo confrontarci su questo. La nostra forza è la qualità dell’informazione, l’attendibilità, la credibilità, e a questo si arriva attraverso una formazione sempre migliore. Perché nascono alcuni di questi problemi? Perché gli editori, invece di investire su professionisti, prepararli e pagarli adeguatamente, spesso fanno scelte diverse. Nei giornali sempre di più chi scrive, chi fa cronaca, sono ragazzi appena entrati che vengono pagati pochissimo. Che qualità di informazione vogliamo avere, se al primo che passa per la strada diamo un microfono in mano e lo mandiamo in giro? Dobbiamo cercare di vedere quali sono i punti critici e di far crescere tra i colleghi una sensibilità, perché solo così si riesce ad arrivare ad un’informazione migliore. Secondo me Elton Kalica ha detto una cosa assolutamente giusta, il problema è di correttezza e di sobrietà delle informazioni. Abbiamo un codice deontologico che ci impone di scrivere tutto quello che noi sappiamo o di cui veniamo a conoscenza, per dare un’informazione più completa possibile, il problema poi è come lo scrivi. È giusto scrivere “catturato il mostro”? Secondo me no, tu stai parlando comunque dell’arresto di una persona, e devi cercare di dare un’informazione più completa possibile, ma con sobrietà e senza usare tante parole che non servono, questa è la cronaca. Oggi su questi temi c’è una forte strumentalizzazione politica, per cui è la politica che cerca di trascinare l’opinione pubblica da una parte o dall’altra, adesso c’è l’emergenza criminalità, sembra che siamo un paese dove non si può più girare per strada. E su questo i giornali hanno spesso la responsabilità di forzare troppo i titoli, in alcuni casi anche di portare avanti certe tematiche per motivi che sono soprattutto politici. Credo comunque che riunire e portare qui i giornalisti di giudiziaria e di nera sia un passaggio importante per aprire un confronto su questi temi.
Ornella Favero: La nostra proposta è esattamente questa, e siamo anche consapevoli e molto realisti, sul fatto che non possiamo chiedere che un giornalista non scriva certe cose, o scriva come piace a noi, però vorremmo approfondire dei temi. È proprio per approfondire le questioni del carcere e delle pene che noi facciamo questo progetto faticosissimo con le scuole, dove prima andiamo noi con alcuni detenuti in permesso, e poi vengono loro qui a gruppi di due classi alla volta: con gli studenti misuriamo tutti gli effetti di certi luoghi comuni sul fatto che nessuno in Italia “si fa la galera”, li invitiamo a guardare il caso della Franzoni, adesso lei è in carcere, ma fuori non si sono neanche accorti che lei dopo la condanna è stata riportata dentro. Io sono arrivata al punto che penso che qualche giornalista bisognerebbe denunciarlo per “istigazione a delinquere”, qualcuno di quelli che continuano a sostenere che le pene in Italia sono bassissime e in carcere non ci finisce nessuno. Gianluca Amadori: A me piacerebbe portare qui anche i direttori, perché i giovani colleghi, una volta che gli spieghi come stanno le cose, hanno una certa sensibilità, però i direttori vogliono vendere i giornali, allora del caso gli interessa relativamente, ed è anche su quello che bisogna lavorare, quindi se riusciamo a portarli qui sarebbe una bella cosa.
Marino Occhipinti: Io credo si debba discutere tutto sommato di cose semplici, forse banali: se si parla di indulto, per esempio, prima dell’indulto eravamo 62.000 detenuti, adesso siamo in 59.000, e allora si dice che l’indulto non è servito a niente, che sono rientrati tutti in carcere. No, non è così, e forse andrebbe spiegato che è rientrato il 30 per cento, che non sono tutti, forse andrebbe spiegato che l’aumento dei detenuti è dovuto a norme più restrittive, a pene più severe su alcuni reati. Io ho un articolo qui dove si dice che solo 4 detenuti su mille in misura alternativa tornano a commettere reati, però questo lo trovi sul Sole 24 Ore o su Ristretti, e pochissimi altri giornali ne parlano, allora io credo che quel dato lì a volte i giornalisti dovrebbero sforzarsi di infilarlo magari quando si discute di casi eccezionali come quello di Izzo, o dì Minghella, o di Piancone che sono sempre i soliti che fanno discutere, sui quali poi propongono dì abolire la legge Gozzini, ecco alcuni dati secondo noi andrebbero davvero sviscerati, tirati fuori, e discussi di più.
Daniele Barosco: Poi ci sono dati che raramente riusciamo a trovare pubblicati: ho qui dei dati del Ministero delle Finanze, che dicono che sono stati liquidati in 4 anni 212 milioni di euro per ingiusta detenzione. Quindi ci sono 3.000 persone che sono state liquidate, ma che hanno cause pendenti ce ne saranno molte di più, e invece succede che tanti giornalisti danno già per colpevole la persona ancora prima che sia stata arrestata e portata in carcere. Ma io non ho mai sentito che un ministro dica: guardate che abbiamo liquidato milioni di euro per ingiusta detenzione, e che migliaia di persone hanno fatto anni di carcere innocenti. Certo nessuno è un santo qui, se no non saremmo in carcere, ma perché poi voi quando ci sono delle assoluzioni su casi di cui avete scritto come se fossero già colpevoli, non mettete delle smentite significative? Gianluca Amadori: Quello che tu dici ha dei fondamenti di verità, così come è indubitabile che ci sono anche dei giornalisti che fanno bene il loro mestiere e che fanno delle cronache corrette. Che non si diano le notizie delle assoluzioni, questo non è vero sempre, è vero anche che una notizia, data dieci anni dopo, non può avere lo stesso spazio in pagina. Cioè la notizia fa effetto quando è immediata, quando è di attualità, dieci anni dopo interessa di meno e ha un trattamento diverso, questo purtroppo è un meccanismo al quale non è facilissimo porre rimedio, dopo di che, il fatto che tu ti arrabbi io lo prendo assolutamente come una cosa legittima, e sono convinto che sia giusto dare un’informazione più equilibrata, non soltanto ad effetto e non soltanto puntata sulla cosa emotiva. Cosa io posso fare all’Ordine quando ricevo delle segnalazioni? Io vi posso dire che abbiamo aperto all’Ordine del Veneto in un anno 100 procedimenti disciplinari nei confronti di colleghi, perché facevano pubblicità, per conflitto di interessi, per notizie date in maniera poco corretta. Io credo che sia un cammino difficile, ma doveroso da fare quello di riuscire a trovare un equilibrio tra l’esigenza di giornali e Tv di stare sul mercato e quella di dare le notizie con equilibrio. Voi mi chiedete perché certi dati non escono. Perché c’è tanta superficialità, c’è tanto pressappochismo, e su questo bisogna lavorare, ci sono i colleghi che si studiano le normative, e quando scrivono di cronaca giudiziaria o penitenziaria sono precisi, e ce ne sono altri che si sono buttati a fare il lavoro senza preparazione, o che non hanno voglia di approfondire, che sono meno precisi. Secondo me è necessario partire dall’alto, cioè ragionare con i direttori, quelli che danno la linea editoriale, sul fatto che la notizia va data e in maniera approfondita. Purtroppo la tendenza è di cercare di spararla più grossa possibile, perché così la gente compra il giornale. Che secondo me è una cosa che non tiene neanche dal punto di vista economico, perché la gente lo compra una volta, lo compra due e dopo si stanca.
Elvin Pupi: Io vorrei fare un’altra domanda: perché, quando una notizia è negativa, viene tirata fuori di nuovo anche dopo 10 o 15 anni? Gianluca Amadori: Prendi il caso di Maso, nel momento in cui Maso esce dal carcere. è una storia che ha tenuto i titoli sui giornali per mesi, per non dire per anni, come fai a non scriverne? Questo fa parte del meccanismo dell’informazione, dopo di che c’è questa tendenza da parte del giornalista di correre dietro a quelli che sono i lati emotivi, per cui poi si trovano tutti questi titoli con “è già fuori”.
Ornella Favero: Credo però che il discorso del “diritto all’oblio” abbia degli aspetti anche diversi, perché è giusto ritirar fuori il caso Maso, è una notizia quella della sua semilibertà, ma il problema secondo me è un altro, è quello di una persona che ha commesso un reato, ha scontato la sua pena, passano anni, c’è un’informazione che la riguarda di tutt’altro tipo, e però viene di nuovo messo in piazza il suo reato, processi, carcere. Io penso soprattutto alle famiglie, perché le famiglie delle persone detenute sono comunque delle vittime. Quindi ci sono situazioni nelle quali probabilmente è impossibile tutelare le persone, però ce ne sono per cui non è così inevitabile che uno si debba portare dietro questo destino per tutta la vita. Temi da trattare quindi ne abbiamo parecchi, teniamo conto anche che la nostra redazione si è conquistata degli spazi in un carcere, che è diventato davvero più aperto e “trasparente” di tanti altri, quindi se adesso noi proponiamo un seminario qui dentro, non troviamo grandi ostacoli, stiamo ragionando su cose fattibili e concrete. Gianluca Amadori: Oltre al seminario, che potrebbe essere un punto di partenza per costruire un percorso, credo sarebbe importante anche creare un punto di contatto, in modo che dal carcere escano tutta una serie di notizie, di dati, per i quali posso mettere a disposizione il giornale dell’Ordine, che va ai giornalisti, e il nostro sito, con dei link in cui le tematiche sul carcere vengano affrontate da dentro, con dei pareri, con dei dati, quindi creare anche un interfaccia giornalistico. Perché a volte il giornalista, anche quello bravo, i dati non li ha, ma il pezzo deve uscire in quel momento, non è che può uscire domani. Allora, il fatto di dargli degli strumenti e il sapere dove andare a cercare le notizie, le persone a cui chiedere, avendo così dei punti di riferimento, può essere importante, per cui possiamo costruire una rete del genere con dei referenti, che possono anche essere i volontari che lavorano in carcere.
Sivia Giralucci (giornalista e volontaria in redazione): Partendo da esempi concreti, oggi abbiamo individuato una serie di argomenti che spesso non vengono trattati in maniera corretta. Si potrebbe redigere e mettere online una piccola guida, con tutte le questioni che un giornalista di giudiziaria dovrebbe sapere, anche riguardo all’esecuzione della pena, e questa guida potrebbe essere inviata via e-mail a tutti i giornalisti iscritti all’Ordine, e consegnata ai professionisti o ai pubblicisti quando entrano a farne parte. Sarebbe anche importante indicare una serie di fonti che possono essere disponibili per un giornalista che deve scrivere di carcere. Nell’incontro con i Magistrati di Sorveglianza ci hanno spiegato che loro non possono commentare le sentenze, però hanno un Coordinamento nazionale, di cui è responsabile proprio il presidente del Tribunale di Sorveglianza di Venezia, che può farlo. Ristretti Orizzonti poi è già di fatto una agenzia di stampa, oltre che una rivista, perché ogni giorno manda a una mailing list di più di settemila persone una newsletter con una rassegna stampa sul carcere, che a detta di tutti quelli che la ricevono è fatta benissimo. Potrebbe diventare sempre di più anche una agenzia di informazione per i giornalisti. Ornella Favero: Noi abbiamo già elaborato una specie di miniguida proprio sulla terminologia, e sulle questioni meno chiare, relative alla giustizia, al carcere, all’esecuzione della pena. Mentre sulle modalità del seminario e sulla questione dei direttori, credo anch’io che sia interessante se si riesce a coinvolgerli di più, però per questo abbiamo bisogno che l’Ordine dia degli stimoli. Sulla questione del seminario invece a me piacerebbe che diventasse un’iniziativa stabile, nel senso che anche i praticanti possano avere questa possibilità. Se è difficile riunirli, si può fare un primo incontro, e poi pensare a momenti diversi di formazione. Ma anche i contenuti vanno un po’ studiati, perché noi abbiamo tirato fuori la questione della lettura dei dati, ed è importante, ma ci interessa anche il linguaggio. Tu hai parlato di usare le parole in maniera meno superficiale, noi la questione della scelta delle parole la riteniamo centrale. Spesso quando incontriamo gli studenti, cerchiamo di ragionare con loro anche sui reati, e per esempio sugli omicidi che avvengono nel corso di risse tra ragazzi, o per guida in stato di ebbrezza. Allora qui abbiamo discusso tantissimo su questa orrenda forma dell’italiano che è “… e poi ci è scappato il morto”, e abbiamo deciso che non si può dire che ci è scappato il morto, perché se guidi la macchina ubriaco e uccidi qualcuno, non c’è scappato il morto, qualcuno ha ucciso una persona. Quindi mi piacerebbe che affrontassimo le questioni tecniche, le questioni di linguaggio, e il modo di raccontare le storie. Mi viene in mente di nuovo il modo in cui, della storia giudiziaria di una persona in attesa di giudizio agli arresti domiciliari o in libertà, si scriva che è già fuori, ma si taccia il resto: che cioè può succedere, come è capitato qui dentro a Marco, che ha raccontato la sua storia per il Mattino di Padova, che si entri in carcere per scontare una pena 16 anni dopo la commissione di un reato. Quindi questa è una cosa su cui mi piacerebbe stimolare i giornalisti, fargli venir voglia di raccontare delle storie di persone, e dopo quanto tempo si ritrovano a scontare la pena. Perché poi quando nelle scuole raccontiamo queste storie, cascano tutti dalle nuvole, qualche giorno fa abbiamo visto che un ragazzo era molto preoccupato, e poi alla fine è venuto a dirci che ha una denuncia per un furto, e pensava di non aver molto da preoccuparsi, che tanto in Italia in carcere non ci va nessuno… Marino Occhipinti: Prima abbiamo anche parlato di giornalisti bravi, che studiano l’Ordinamento penitenziario, il Codice penale e magari la teoria l’hanno imparata benissimo, ma nella pratica poi non funziona così. Io mi ricordo un senatore della Lega, che fece un’interrogazione parlamentare dove diceva che in carcere c’erano celle con l’acqua calda, possibilità di studiare, il barbiere, la scuola, le attività, il lavoro, e quindi chiedeva come sia possibile che in carcere ci siano tutte queste cose, che non sono garantite neanche ai cittadini liberi. Sicuramente lui aveva letto l’Ordinamento penitenziario, dove certe cose sono previste, ma spesso restano sulla carta, quindi se un giornalista legge l’Ordinamento, rischia di fare anche sui benefici lo stesso errore. Per esempio, legge che ci sono 45 giorni di sconto per buona condotta, su ogni semestre di pena scontata. Poi se adesso uscendo da qui qualcuno fuma una sigaretta in corridoio, i 45 giorni li ha persi, cioè mentre tu rischi una multa se fumi dove è vietato, noi rischiamo di perdere lo sconto di 45 giorni di galera. Forse in questi incontri ci sarà proprio il bisogno, per spiegare come funzionano materialmente le cose, di fare questi esempi, che sono piccoli ma poi sono quelli che regolano la nostra vita, i nostri percorsi. Gianluca Amadori: Io sinceramente lo vedrei proprio come un momento di confronto, nel senso di come voi oggi a me avete posto tutta una serie di problemi, facciamo una scaletta di temi, e poi poniamo all’ordine del giorno di quella giornata un tema o anche più di un tema e focalizziamo l’attenzione su quello. Che può essere da un lato una serie di critiche, e dall’altro una serie di proposte di collaborazione, di dati messi a disposizione, ed eventualmente anche di storie che qualcuno vuole raccontare, perché mettere il dato freddo vuol dire tutto e non vuol dire niente.
Marco Libietti: Sì, a volte non è soltanto un dato, 16 anni in attesa della sentenza definitiva come è capitato a me: c’è tutto un mondo dietro, quello che è passato in quei 16 anni, l’idea che domani ti vengono a prendere, che domani possa accadere quello che stai aspettando. Mia moglie ha vissuto con il sistema nervoso sempre alterato, arrivava il postino nell’ora sbagliata, io non ero a casa, lei mi telefonava agitata, e magari era solo una lettera dell’avvocato. E poi sono entrato in carcere a 50 anni, beh preferivo sinceramente entrarci a poco più di trenta e oggi avrei finito e forse dimenticato questo periodo. Poi magari uno può dire che potevo non farlo, il reato. Io l’ho fatto e me ne sono assunto le mie responsabilità, e allora dovevano farmelo pagare prima, e mi evitavano quegli inutili 16 anni. Quando sono venuti a prendermi, e sono venuti mesi dopo che ero passato definitivo e che c’era l’ordine di carcerazione, io ho raggiunto quasi uno stato di pace. È logico raggiungere uno stato di tranquillità nel momento in cui tu entri in carcere? Sì, alla fine questo è stato, paradossalmente. Franco Garaffoni: Se si pensa che entrano 100.000 persone all’anno in carcere, e ne escono 97.000 o 98.000, perché non si possono tenere tutti in galera in attesa di giudizio, le persone destinate ad andare ai processi avranno presumibilmente dei tempi per diventare definitivi di 15, 16, 17 anni. Io i miei primi reati li ho fatti negli anni 70 e 80. Ma quella falsa impunità, e quella falsa possibilità di continuare a vivere libero che lo Stato ti dava arrestandoti e rilasciandoti, arrestandoti e rilasciandoti, significa poi che lo Stato perde l’occasione di intervenire sul detenuto, di lavorare sul detenuto. Così finisce che lo Stato stesso favorisce un evolversi delinquenziale nelle persone, perché è chiaro che io forse avrei capito qualche cosa, se mi avessero fermato allora, ma se ti arrestano e ti lasciano andare e ti processano dopo 14 o 15 anni… Io poi ho proseguito nella mia carriera criminale, però c’è anche chi, e sono i più, si è fatto un’altra vita, ma quando diventa definitivo lo arrestano lo stesso, quindi se oggi noi abbiamo dei delinquenti, ne abbiamo anche perché lo Stato non è mai intervenuto con chiarezza. Ornella Favero: Questo secondo me è un tema cruciale, perché quando si parla di certezza della pena, il problema va spostato, quello che manca è la tempestività della pena, e qui possiamo veramente intrecciare l’informazione con le storie delle persone. E poi credo che sia fondamentale che diamo ai giovani, e anche agli stranieri, delle informazioni più chiare sul nostro sistema penale. Maher Gdoura: Sì, è importante anche per gli stranieri, che capiscono poco di come funziona il vostro sistema, perché io sono stato denunciato e sono rimasto fuori, non mi hanno mai arrestato e forse mi sono illuso di averla fatta franca, intanto sono andato in Francia mi sono regolarizzato avevo una vita nuova, una moglie una famiglia e tutto. Poi sono tornato in Italia e mi hanno fermato, e mi sono trovato con una condanna in contumacia a 18 anni, per vari episodi di spaccio, otto anni dopo che avevo commesso i reati. Praticamente è come dire a una persona come me, che ha cercato di fare i conti con se stessa e di cambiare, che deve ritornare alla vecchia strada. Lucia Faggion: Qualche volta penso che sarebbe importante ricordare ai giornalisti che il Codice penale è un codice che risale all’epoca fascista, e fare un ragionamento sulle nostre pene in confronto con le normative di altri Paesi, perché si suppone sempre che le pene previste dal Codice in Italia siano tutte basse, in realtà le nostre pene sono le più elevate d’Europa. E sarebbe giusto, secondo me, che il messaggio passasse anche attraverso la testimonianza di chi sta qui dentro, che è una testimonianza reale di cosa significa la privazione della libertà e quanto può essere devastante l’esperienza di un lungo numero di anni di carcere, devastante innanzitutto per la società alla quale poi quella persona ritorna, e questo la gente fa fatica a coglierlo perché è male informata e ha questo desiderio di soddisfazione attraverso il carcere, il carcere diventa la risposta a tutto. Gianluca Amadori: Io credo che la politica giudiziaria sia stata gestita in questi anni in maniera allucinante, senza neppure mai arrivare alla riforma del Codice penale. E ogni volta le riforme vengono fatte solo sull’onda emotiva. Basta guardare l’ultimo caso di un ragazzo che ha ucciso una coppia in un incidente stradale, e gli hanno contestato l’omicidio volontario, e non so neppure dal punto di vista giuridico come stia in piedi una sentenza del genere, su questi temi qui io credo che noi dovremmo scrivere un po’ di più e più approfonditamente. D’altro lato c’è una politica, che purtroppo o fa finta di non sapere, o usa queste notizie strumentalmente per altri fini, e credo che sia ancora più grave.
Sandro Calderoni: Credo però che siano proprio i giornali e le tv che cavalcano queste situazioni: parliamo dei casi degli incidenti stradali, si creano sempre le emergenze, mentre i problemi andrebbero affrontati razionalmente, con maggiore attenzione alla prevenzione. E invece non si fa altro che inasprire il clima, e poi vediamo condanne per omicidio volontario, forse giuridicamente insostenibili, ma intanto a quel ragazzo gli hanno dato dieci anni di carcere, e questo magari sull’onda emotiva perché forse anche i giudici ne sono stati coinvolti. Gianluca Amadori: Certo, il giornalismo dovrebbe fare un po’ meno spettacolo, e un po’ più di riflessione. Io la prima cosa che ho fatto quando sono stato nominato presidente dell’Ordine dei giornalisti del Veneto è stata di convocare gli stati generali sull’informazione del Veneto, dove ho cercato di portare tutti i colleghi a discutere su questi temi, dicendo che dobbiamo abbassare i toni e fare meno informazione-spettacolo. Credo comunque che l’approccio che avete avuto voi oggi sia ineccepibile, nel senso che siete partiti analizzando delle notizie decisamente trattate in modo superficiale, i dati che non vengono forniti o vengono distorti, ecco queste cose secondo me non sono assolutamente contestabili.
Elton Kalica: Un altro dato che noi siamo andati ad analizzare è quello della permanenza media in carcere, queste oltretutto sono statistiche che hanno fatto al ministero, ma che davvero poi, per come sono state riportate sui giornali, hanno creato molta confusione. In pratica loro hanno preso tutte le persone detenute, in custodia cautelare o condannate per specifici reati, hanno sommato i tempi di permanenza in carcere e poi hanno diviso per il numero dei detenuti, creando così un dato sulla permanenza media in carcere, che risulta bassissimo, per esempio per i reati di rapina il tempo medio è di meno di 20 mesi, per il sequestro di persona, che è il reato che prevede delle pene altissime dai 25 ai 30 anni, la permanenza media è di 7 anni, cioè un dato che a noi sembra fuori da ogni realtà. Ecco questo dato è stato ripreso da tutti i canali televisivi, ma anche adesso di tanto in tanto lo ripropongono, magari per parlare di un singolo e specifico reato. Quindi se parlano di violenza carnale, fanno riferimento a questa statistica e dicono che chi violenta rimane in carcere per un massimo di due anni, è una statistica che continua ad essere usata e nessuno è andato a studiarsela un po’ più da vicino. Ornella Favero: Io da lì ho imparato che i dati bisogna comunque andarseli a leggere attentamente, quindi solo se hai una certa formazione e se sei una persona abbastanza informata hai anche la capacità di metterli in dubbio e verificarli. Ecco forse alla base della proposta del seminario c’è proprio questo, siccome l’arte del dubbio se uno non è preparato non la può esercitare, allora noi abbiamo cercato di ragionare su come contribuire alla formazione di chi si occupa di queste questioni. Prince Obayangbon: Qui abbiamo accennato ad alcuni problemi dell’informazione, io comunque alla fine ho visto che tante di queste notizie incomplete o non verificate sono riportate non inconsapevolmente, perché i giornalisti se volevano andare più a fondo potevano farlo, però spesso è comodo per loro non farlo. Io ho visto che i giornalisti in realtà oggi in Italia sono quelli che “fanno la politica” principalmente, perché sono lo strumento più efficace di una forza politica, e se si guarda qualche telegiornale si vede che quasi tutti dicono una stessa cosa, non c’è quello che possiamo chiamare giornalismo investigativo. Ho paura che alla fine, se ci sono questi interessi, sia difficile cambiare qualcosa. Spesso i giornalisti non vedono che io ho figli, non vedono che io sono una persona, vedono solo il potere, mentre io credo che il giornalismo oggi dovrebbe essere una professione che guida, che aiuta la formazione concreta di un paese. E invece è proprio un gioco, parlavamo prima di emergenze, quando in un giorno succedono tre incidenti siamo in piena emergenza come se ne fossero successi mille. Ma se voi prendete un problema e questo viene trasformato in una emergenza, cosa pensate che facciano i legislatori? faranno vedere alla popolazione che loro sono lì per combattere questi fenomeni. Questa questione io la vedo come il gatto che si mangia la coda. Perciò dobbiamo capire dove possiamo risolvere questo problema, che forse non è sempre un problema di ignoranza, non è il problema che non ci sono fonti per l’informazione, ma che spesso è comodo così, e allora sarà molto più faticoso cambiare. Franco Garaffoni: Io ho la sensazione che oggi stampa e tv vogliano praticamente dire alle persone quello che loro vogliono sentirsi dire, allora forse non è più informazione e non è più neanche una cronaca, forse si cade nella narrazione, si diventa più scrittori che non giornalisti. Io racconto quello che viene ravvisato dalla società come fonte del suo malessere sociale, se il malessere sociale è orientato sugli incidenti, allora io lavoro su quello, però non faccio il giornalista, non faccio cronaca, faccio il narratore di quelle storie che so che incontrano l’interesse della gente: non è un po’ così il meccanismo? Elton Kalica: Vorrei aggiungere una cosa brevemente su questo tema, perché ho sentito pochi giorni fa in televisione un giornalista che intervistando Carlo Lucarelli gli chiedeva: “Ma scusi, come mai lei da scrittore, si è messo a fare il giornalista?”. E lui ha risposto: “Finché i giornalisti continueranno a scrivere romanzi, allora ci toccherà a noi scrittori fare i giornalisti”. Adnen El Barrak: Credo che ci sia anche un altro problema: forse i lettori italiani sono ormai abituati a questo tipo di giornalismo, e se si cambiasse radicalmente, e si cominciasse a dare informazioni vere, non si venderebbero più i giornali. Forse davvero giornalisti e politici sono diventati “imprenditori della paura”, e quindi più la si dà crudele la notizia e più si vende e la gente compra. Allora per avere un cambiamento reale credo che ci sia bisogno di cambiare completamente mentalità al lettore, e davvero fare più giornalismo, e meno scrittura creativa. Gabriella Brugliera (volontaria): Mi sto chiedendo qual è lo scopo della paura che un certo giornalismo cerca di coltivare nella gente, questo me lo sto chiedendo da un po’ di tempo a questa parte, qual è la finalità, oltre a quella politica. Ad esempio quando si comincia a parlare di un fatto di emergenza - mi viene in mente il discorso dei sassi che venivano buttati dai cavalcavia, adesso degli incidenti stradali - io non credo che queste cose siano venute fuori tutte nello stesso momento, però da quello che si legge sui giornali o si vede in televisione, da come ci presentano la notizia, sembra che improvvisamente un fenomeno si verifichi quotidianamente, ecco io vorrei capire perché, o meglio che cosa c’è sotto. Gianluca Amadori: Io non credo che ci sia una regia politica. Invece sulla creazione della notizia c’è un meccanismo perverso, che secondo me sfugge anche al controllo del singolo, nel senso che ormai il meccanismo dell’informazione è di una velocità tale, che da un lato c’è internet, dall’altro ci sono le televisioni, tutti si rincorrono. Se andate bene a vedere le notizie che escono sui telegiornali, sono sempre le stesse dieci, che sono le stesse che vedrete il giorno dopo sui giornali, cioè agisce il meccanismo per cui tu non ti puoi permettere di bucare una notizia, quindi devi avere le stesse notizie degli altri. E questo è un meccanismo che porta a un’uniformità da un lato, e dall’altro quelle notizie sono poi le stesse che anche tu pompi, sulle quali punti per diventare più appetibile e per vendere. Credo che sia un meccanismo di autoalimentazione dell’informazione, che però non ha una regia di qualche tipo: la cronaca nera è sempre stata ed è il punto di forza di un giornale o di una televisione, e probabilmente sarà sempre così, perché fa più notizia una persona che muore, con tutto il dolore, gli amici, i famigliari. Il problema vero è che sono saltati gli equilibri, quindi probabilmente c’era lo spazio della cronaca nera, c’era lo spazio del caso positivo, c’erano gli approfondimenti, oggi gli approfondimenti non si fanno più, perché non c’è tempo, non vogliono investire soldi, e le redazioni sono sempre più strette. L’informazione sta diventando una merce sempre più veloce, la notizia si brucia nell’istante stesso in cui tu l’hai data, dopo di che non interessa più, allora non hai il tempo di approfondire, di tornarci sopra, di sentire le varie sfaccettature, questo è un grande problema. Però, il problema è anche rendersene conto. Noi giornalisti dovremmo riappropriarci della nostra professionalità: bisogna parlarne e bisogna trovare delle soluzioni.
Marino Occhipinti: Ci sono rimasti pochi minuti e vorremmo strappare una promessa, per vedere di portare avanti questo seminario. Gianluca Amadori: Vediamo di riuscire ad organizzarlo in primavera, dobbiamo coinvolgere i colleghi, e costruire un progetto, secondo me va bene anche un momento di analisi critica, perché non si può prescinderne, purché poi si passi ad un piano costruttivo. Allora io cercherò di coinvolgere i direttori, sopratutto per far venire i colleghi che si occupano di nera e giudiziaria. Ovviamente io non ho la possibilità di obbligare i colleghi a venire, faremo una operazione di “moral suasion”. Sono davvero convinto che questa sia un’esperienza più bella che non andare ad un convegno a parlarci addosso.
Elaborazione del Centro Studi di Ristretti Orizzonti su dati del Ministero della Giustizia (Dipartimento della Amministrazione Penitenziaria) e della Corte dei Conti
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