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Carcere e volontariato oggi. Cosa ne pensa Livio Ferrari Presidente della Conferenza Nazionale Volontariato e Giustizia
(Realizzata nel mese di marzo 1999)
A cura di Michele Esposito e Claudio Bordin
Quando abbiamo conosciuto Livio Ferrari, Presidente della Conferenza Nazionale Volontariato e Giustizia e Coordinatore Nazionale del SEAC, abbiamo subito approfittato della sua disponibilità a rispondere alle nostre domande, per sottoporlo, come lui stesso ha voluto definirlo, a un vero e proprio interrogatorio scritto.
Ci potresti fare una breve storia del volontariato in carcere? Il SEAC nasce da alcune esperienze di singole persone che andavano in carcere a visitare i detenuti fino dall’immediato dopoguerra e che, attraverso visite, incontri e manifestazioni, si sono convinte della necessità di un intervento più continuo a sostegno delle persone detenute. Il SEAC (Segretariato Enti Assistenza Carcerati) viene quindi costituito nel 1967 presso la Sesta Opera San Fedele a Milano. Nel 1993 cambia la denominazione iniziale con l’attuale: "Coordinamento Enti e Associazioni di Volontariato Penitenziario - SEAC", e cambia pure lo statuto, che viene adattato ai mutamenti avvenuti nella nostra società a livello di volontariato nel settore giustizia. Il SEAC è da sempre un organismo di collegamento e coordinamento del volontariato penitenziario, ma per avere un’idea dei cambiamenti che vi sono stati al suo interno è necessario ricordare brevemente la storia della presenza della comunità esterna negli istituti di prevenzione e pena. Prima della riforma dell’Ordinamento penitenziario del ‘75 i volontari che entravano in carcere erano pochi e, recita la legge di allora, dovevano essere di "specchiata moralità" e quasi sempre erano legati al cappellano e ai tribunali. Successivamente, con la legge 354/1975, inizia il volontariato singolo, di cui si parla per la prima volta in una legge dello Stato; più tardi i cambiamenti sopravvenuti nella società esterna ed altre novità legislative (vedi la legge quadro sul volontariato 266/1991) hanno mutato l’atteggiamento molto personale e il tipo di presenza di questi volontari, la maggior parte dei quali attualmente gravita in qualche gruppo organizzato o associazione. Questo tipo di scelta consente loro mezzi, sostegno, formazione. confronto, progettualità, in breve: capacità di incidere maggiormente nella realtà carceraria e di spostare l’epicentro dell’azione volontaria sul territorio per alimentare quelle politiche e quegli interventi che possono produrre meno carcere e maggior reinserimento. Anch’ io, come voi, non ho timore di affermare che ancora ci sono negli istituti e sul territorio assistenti volontari che operano in modo troppo individuale e disorganico. accavallando gli interventi e sprecando energie oltre, in alcuni casi, a squalificare un po’ la qualità della presenza. Bisogna poi dire che solo da pochi anni è in atto un impegno volto ad alimentare corsi e momenti di formazione in tutta Italia, che però vengono frequentati soprattutto da chi si avvicina al servizio e non da coloro che lo svolgono da tempo. La necessità di avere maggiori chiavi di lettura del servizio stesso e conoscenze più profonde dei problemi ad esso legati nasce soprattutto in coloro che hanno compreso il senso e il ruolo del volontariato, che non deve sostituirsi a nessuno ma deve richiamare ognuno alle proprie responsabilità.
Il volontariato "classico" che fornisce piccoli aiuti materiali (vestiario, etc.) e il sostegno morale può andare bene finche il detenuto non ha la possibilità di uscire, però in seguito i suoi bisogni cambiano: serve un lavoro, una casa, etc. Quale ruolo ha (o dovrebbe avere) il volontariato in questo momento cruciale? Il volontariato penitenziario in effetti, finche opera all’interno dell’istituto penitenziario, ha la funzione di sostegno e di dialogo, mentre è sul territorio che può esprimere le sue potenzialità progettuali e di stimolo alla comunità esterna. Dovrebbe dialogare con gli enti locali e con i soggetti organizzati privati per dare realmente la possibilità alle persone detenute di uscire dalla spirale della devianza. Chiaramente, per realizzare tutto questo è necessario un volontariato organizzato (associazioni), e "professionalità" che deriva prima di tutto dalla formazione e dal lavoro in equipe.
Tra i progetti avviati a Padova c’è quello di una Casa di Accoglienza per detenuti semiliberi ed ex detenuti. Sappiamo che una esperienza simile era stata avviata a Rovigo nel ‘92, ma nel ‘95 è terminata. Inoltre è in progetto la formazione di una cooperativa che possa dare lavoro all’esterno e ci sono molte perplessità, relative al fatto se debba essere composta esclusivamente da detenuti o integrata anche da esterni. Quali sono i tuoi suggerimenti su queste iniziative? La Casa di Accoglienza "Frate Lupo" è stata un’esperienza durata 3 anni e si è conclusa per l’impossibilità di avere i finanziamenti necessari per farla funzionare nel modo migliore. Infatti, erano solo due gli operatori pagati ed il resto delle persone coinvolte dal punto di vista gestionale erano volontari (5-6) e tre obiettori. Il mancato coinvolgimento degli obiettori presenti, e la risoluzione della convenzione con il Ministero della Difesa, hanno determinato la necessit-à di avere un numero maggiore di operatori assunti, cosa a cui non si poteva far fronte in quanto l’ammontare complessivo del finanziamento annuale era esiguo ed il Comune non poteva che ritoccarlo leggermente. E’ stata comunque una esperienza positiva per diversi ospiti che hanno ritrovato un senso alla loro esistenza, un lavoro e un alloggio. In merito alle vostre perplessità sulla costituzione e partecipazione ad una cooperativa non ho la possibilità di darvi delle indicazioni precise perché ogni esperienza di cooperazione fa storia a se, anche se sono convinto che sia maggiormente "ghettizzante" creare amalgami settoriali, e comunque alla base della presenza di ogni socio deve esserci la condivisione del progetto e l’impegno nel coinvolgimento.
A tuo parere, la pena potrebbe consistere in un diversa forma di "risarcimento alla società" rispetto alla detenzione in carcere? Sta sviluppando il SEAC progetti o riflessioni su questo argomento che vorresti far conoscere ai nostri lettori? Sono diversi anni che il volontariato si è fatto promotore di proposte che vanno verso un superamento della concezione reato=carcere. Infatti riteniamo che il carcere deve essere l’estrema ratio, mentre il periodo detentivo deve ridursi il più possibile per dare spazio a forme di risarcimento del danno con finalità "terapeutiche" per gli autori dei reati. Fra le diverse istanze e progettualità avanzate dal SEAC in questi ultimi anni, ritengo di dover sottolineare quella su cui più alimentiamo le nostre speranze: la mediazione penale, cioè l’incontro tra l’autore e la vittima del reato. La necessità della riconciliazione è un elemento importante per determinare la riuscita di una società più disponibile, un territorio più attento alle difficoltà dei propri componenti e la possibilità per entrambi i soggetti (vittima e autore del reato) di ritrovare strade di serenità (per la prima) e un dignitoso reinserimento (per il secondo), di cui beneficerà tutta la collettività.
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