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"La letteratura? Può aprire i cancelli"
di Luigi Vaccari, Avvenire, domenica 6 giugno 2004
"Il detenuto in genere apprezza l’uomo di cultura, se non è spocchioso e non recita la parte dell’intellettuale. Conservo una profonda gratitudine verso le persone che ho incontrato. Mi è anche capitato di scrivere storie di galera. Tenendomi lontano da modelli come "Io speriamo che me la cavo". Ha insegnato italiano e geografia a San Vittore per vari anni. Nel 1992 ha lasciato: "Anzitutto perché avevo deciso di smettere di insegnare", spiega Davide Pinardi. "Poi perché pensavo che l’apprendimento, da parte dei carcerati, dovesse avere orizzonti più ampi e aprirsi all’esterno. In quel momento, ma credo che le cose siano cambiate, prevaleva l’idea che l’insegnamento dovesse indurre il detenuto a riflettere sulla sua condizione. I miei alunni non ne avevano alcuna voglia: spesso alcuni rifiutavano di venire a fare scuola perché, mi dicevano, vivevano in galera tutto il tempo e non vedevano il motivo di parlare di galera anche nelle ore di studio". Ma, aggiunge lo scrittore milanese, continua ad avere rapporti, "anche se saltuari", con i reclusi: per esempio con quelli della rivista Ristretti del carcere di Padova, "che sono davvero bravi". È stato anche in tutti i penitenziari milanesi; alla Giudecca (a Venezia); in Germania… "Recentemente ho fatto una lezione a Bollate".
Perché un giorno ha scelto una cattedra in carcere? Insegnavo da qualche tempo per le 150 ore, che erano corsi statali per adulti. Mi ero stancato di una certa ripetitività e provavo una sensazione di inutilità. La galera mi sembrava un’esperienza interessante e devo riconoscere che a San Vittore ho per molti aspetti recuperato il senso dell’insegnamento.
Chi erano e che età avevano i suoi alunni fra i detenuti comuni e i detenuti "protetti"? L’età andava dai 18 ai 60 anni, con punte di 65. Si trovavano in carcere per le cause più varie: alcuni erano imputati di reati molto gravi, fino all’omicidio. I "protetti" sono una categoria a sé e bisognerebbe parlarne separatamente.
Qual è il ricordo forte dei primi giorni? Il numero dei cancelli che dovevo superare: 13. San Vittore è un carcere molto vecchio, per arrivare alle aule si percorrevano due raggi, in uno dei quali c’erano le persone appena arrestate: facevo ogni giorno una sorta di carrellata sulle celle e ne sentivo quasi fisicamente lo sconvolgimento. Altri penitenziari, Bollate o Opera o Padova, sono più sterilizzati: da visitatore si vedono poco le celle.
I reclusi sapevano che lei era uno scrittore? No, no. Lo hanno appreso successivamente. Devo dire che il detenuto apprezza l’uomo di cultura, se non è spocchioso e non recita parti da intellettuale o da onnisciente. Ho invitato giornalisti e scrittori: i miei alunni, ne avevo fino a 60-70, capivano al volo chi avevano di fronte. I reclusi hanno una capacità superiore alla media di interpretare gli interlocutori; forse per la condizione in cui si trovano sono comunque abituati a rapportarsi agli altri con particolare intensità e leggono con facilità modi di fare e retroterra psicologici.
Con quali difficoltà, insufficienze e problematiche, strutturali e umane, si è dovuto misurare? È particolarmente deleteria la mancanza di lavoro. E invece il lavoro dovrebbe essere fondamentale in un percorso di recupero. Non capire, nelle nostre istituzioni, che un carcerato già dopo una settimana dovrebbe cominciare a lavorare, ad avere un impegno, credo che dipenda da un impasto di incapacità, ipocrisia e confusione mentale. Le donne riescono a organizzarsi perché sanno autostrutturarsi: le celle femminili, non a caso, sono sempre ordinate. Gli uomini non ce la fanno a ricostruirsi rapidamente: avrebbero bisogno di un’attività, invece li si lascia lì…
Che cosa le era insopportabile? La bruttezza del posto, i pochi spazi, una certa impreparazione del personale. Adesso forse le cose sono cambiate. Ma in Italia il personale resta troppo numeroso e poco qualificato.
Gli alunni erano sensibili ai suoi giudizi? Moltissimo. Ne ricordo uno che faceva finta di non avere un titolo di studio. Dopo tre mesi ho saputo che era uno studente universitario di lettere e aveva superato 11 esami su 22. Era dentro per traffico di droga. Si mostra va straordinariamente attento alle mie valutazioni.
Qualcuno le chiedeva i suoi libri? Me li hanno chiesti. La lettura di un libro è un esercizio molto complesso. Una cosa (fra le altre) che allora faceva veramente pena, a San Vittore, era la biblioteca. Adesso mi sembra che, anche altrove, ci siano stati notevoli miglioramenti.
Cercavano un abbandono, oltre le lezioni, un consiglio? Si confidavano? Che cosa le confidavano? Ero molto disponibile umanamente, ma non mi sentivo il loro confidente. Dialogavamo molto a fondo, emozionalmente. Ricordo due reclusi che avevano rinunciato a venire in classe perché mal sopportavano alcuni professori che volevano sempre parlare di carcere. Uno lo andai a recuperare in lavanderia. Un altro parlava sempre dei bambini che non poteva e, soprattutto, non voleva vedere per non influenzarli negativamente. Situazioni forti sotto l’aspetto emotivo. Una grandissima confidenza si creava con i temi: in quel caso i livelli di abbandono erano altissimi. Ma doveva esserci la mediazione dello scritto.
Ha incontrato persone intelligenti? Tante. I detenuti hanno una intelligenza media molto alta. Il problema è che l’hanno canalizzata in percorsi di forte trasgressività a causa di complesse dinamiche psicologiche, di storie familiari, di vicende particolari… anche di semplici casualità… Rispetto agli adulti che avevo avuto fuori, mi sembravano decisamente più in gamba anche se poco ordinati strutturalmente. Avevano una capacità di comprensione molto spiccata. Ho conosciuto peruviani, argentini, slavi, persone che parlavano cinque-sei lingue e che rivelavano una conoscenza del mondo assolutamente sorprendente.
Ha fatto anche l’esperienza della sconfitta? Non avevo grandi aspettative. Ho cercato di mettermi su un piano di umanità immediata, di proporre orizzonti culturali possibili, di sollecitare curiosità concrete. Non mi sono mai posto grandi obiettivi e quindi non ricordo di aver provato grandi delusioni. Ho cercato di non confondermi con certi apprendisti stregoni che, con faciloneria, credevano di poter cambiare la realtà brutalizzandola e non rispettandola. Erano soprattutto educatori o insegnanti…
Chi ha lasciato un segno? Vari carcerati. Non ho mai preso in considerazione l’aspetto penale, il loro rapporto con l’istituzione giudiziaria. A queste cose pensano l’avvocato, l’assistente sociale. L’insegnante deve tenersi fuori: rappresenta qualcosa di altro, di diverso, di più elevato. Se c’è un litigio tra un detenuto e un agente può cercare di calmare le acque, ma a livello immediato, personale. Non ho mai sollecitato rapporti coi detenuti, compiacendoli: questo genere di pietismo non mi appartiene. Mi sono fermato all’aspetto umano.
È questa la lezione? Sì. Ed è il motivo per cui coi carcerati bisogna essere chiari e fermi: ci sono regole sociali e chi le ha violate deve pagare il suo debito. Ma si dovrebbe anche avere la lucidità di prevenire certi reati, e tanta gente eviterebbe di entrare in galera. Alcune tolleranze sono eccessive: penso, per esempio, agli ultras negli stadi, che andrebbero fermati prima.
Insegnare in carcere l’ha arricchita? Come persona, moltissimo: ho un profondo senso di gratitudine. Come narratore, anche: ho scritto storie sulla galera e una raccolta di racconti che, tranne uno, non sono ispirati direttamente alla gente che ho conosciuto, per un senso di pudore, ma a quel mondo e a quelle situazioni umane. Sono contrario a libri come "Io speriamo che me la cavo".
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