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Carlo Lucarelli, scrittore che ha tenuto un corso di italiano nel carcere di Padova
Realizzata dal settimanale Vita, nel mese di febbraio 2003
Quello del carcere è un argomento tabù, o almeno di scarso interesse pubblico. Anche la questione dell’indulto non ha aperto varchi troppo grandi, e rimane che nessuno ne sa molto, e si limita a immaginare. Come se quando uno ci entra dentro finisse in un altro pianeta parallelo che non ha niente, ma proprio niente a che fare con la nostra realtà". Lo scrittore giallista Carlo Lucarelli in carcere ci è entrato, come insegnante di scrittura creativa nella scuola media per adulti dell’istituto penitenziario padovano Due Palazzi. E gli si sono ribaltati tutti i luoghi comuni che aveva in testa.
Perché hai deciso di accettare la proposta di tenere un corso in carcere, come ti chiedevano quelli della redazione di Ristretti Orizzonti, che si erano messi in testa di portare il conduttore di Blu Notte nella prigione padovana? Avevo un’idea vaga di quello che mi aspettava, ero molto curioso perché mi attirava l’idea dell’incontro tra persone con delle storie da raccontare e un tecnico del racconto, cioè io. In realtà entrare in carcere è stato traumatico, un’esperienza devastante. Anche solo entrarci "fisicamente", e cioè camminare da fuori a dentro le mura della prigione, è stato scioccante. Per raggiungere l’aula dovevo attraversare una serie numerosa di cancelli che si chiudevano dietro di me: il rumore che fa il ferro quando sbatte mi si è cucito addosso. E poi, dopo un po’, mi sono reso conto che per ogni volta che io uscivo fuori e le porte si chiudevano dietro con quell’eco tremenda, i miei studenti rimanevano dentro. Io me ne andavo ma loro restavano e la maggior parte è ancora lì. "Professore, noi qua stiamo!", mi dicevano. Non è che potevo dire ci vediamo domani sera in quel locale o qualcos’altro: se volevo vederli l’unico modo era che io andassi da loro.
Parlaci della classe, delle lezioni... Se uno si immagina che fare un corso con i carcerati comporti difficoltà, tensioni, stranezze fuori dal normale, sbaglia, è proprio fuori strada. La mia classe dentro le mura è stata come le altre classi cui insegno fuori. Ecco, una differenza che mi viene in mente può essere stata questa: io scrivo romanzi gialli con ladri, rapine, eccetera. Bene, magari è capitato qualche volta che qualcuno degli studenti mi avesse detto qualcosa tipo: "Bella la parte del furto di quel libro che hai scritto, complimenti per il realismo: anch’io quando rubavo usavo esattamente la stessa tecnica!"
È stato difficile insegnare loro a scrivere storie? Ho insegnato nella sezione reati comuni dove quasi tutti sono immigrati. Due di loro avevano già partecipato ad alcuni concorsi letterari con dei racconti, e questo prima che io arrivassi al Due Palazzi. Erano tutti talmente bravi a raccontare che il mio compito non solo non è stato difficile, ma addirittura più che altro mi sono limitato a rubare loro sensazioni e pezzi di storie...
È appagante insegnare a studenti che hanno potenzialmente tanto tempo per dedicarsi alla tua materia? Quando pensavo alla vita in carcere, e non ne sapevo in realtà nulla, mi ero immaginato in effetti che questa gente avesse molto tempo libero. Quindi, quando mi è stato proposto di insegnare al Due Palazzi, credevo di aver trovato la mia classe ideale: finalmente degli studenti a mia completa disposizione, che posso tenere in classe tutto il tempo che voglio e che possono lavorare molto e bene su quello che ho loro insegnato. In realtà i detenuti sono gli studenti in assoluto con meno tempo a disposizione. Le loro giornate sono scandite dall’orologio a ritmo incalzante. Le guardie li accompagnano in aula all’inizio della lezione e se li vengono a prendere precisamente allo scoccare dell’ultimo minuto stabilito. Non sono mica come i genitori che vanno a prendere i figli a scuola cui puoi chiedere di aspettare ancora dieci minuti. Le guardie col cavolo che aspettano! Perché i detenuti devono passare al prossimo evento stabilito per loro nella giornata programmata.
Ora che ne sai qualcosa di più, cosa pensi del fatto che si parla così poco di carcere? Perché è un argomento così tabù? Perché c’è un’idea sbagliata del carcere. Siamo tutti convinti che sia un posto che non ha niente a che fare con noi, che è completamente diverso. Ci immaginiamo che i suoi ritmi, i suoi problemi e le sue dinamiche siano strani, astrusi, lontani. In realtà i problemi di cui discutono i detenuti sono molto concreti e vicini ai nostri: si lamentano per esempio dei palloni da calcio che sono tutti bucati o di altri problemi pratici del genere, più o meno gravi. Sono questioni simili a quelle che sorgono in una scuola, una squadra di calcio, un ospedale o un quartiere, tant’è che un bambino disadattato e un carcerato creeranno alla società gli stessi problemi. Anzi, i centri detentivi potenzialmente hanno tutte le carte per poter essere sfruttati come centri culturali, sportivi, professionali. Ma ogni investimento viene considerato inutile perché si continua a considerare il carcere una realtà sospesa, isolata e immobile rispetto alla vita che brulica fuori dalle sue mura. Non è un ragionamento solo sbagliato, ma assurdo e poco prudente: la maggior parte di coloro che entrano in prigione prima o poi usciranno e non stiamo parlando di marziani ma pezzi della nostra società. Il carcere non è altro che un microcosmo della società dove si curano gli stessi mali. La gente "libera" ha paura di capire che le dinamiche del carcere sono le stesse che fanno funzionare la società, al massimo solo più esacerbate.
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