Rocco Carbone

 

"Alle recluse leggo Tolstoj"

 

 

  di Luigi Vaccaro, Avvenire, 28 maggio 2004

 

La prima cosa che viene in mente a Rocco Carbone sul suo lavoro è questa: "Penso di fare un mestiere da istitutore di vecchio stampo, in una situazione particolare", dice; "soprattutto mi viene in mente il percorso che compio ogni giorno da questa casa, in un quartiere ordinato e tranquillo, per raggiungere un luogo decisamente diverso". Dal 1988 al 1997, ricorda, ha avuto la cattedra di lettere in un istituto tecnico di Frascati, attività interrotta per cinque anni per completare un dottorato a Parigi, grazie a una borsa di studio. Nel 1998 Edoardo Albinati, "un amico", anche lui professore, anche lui scrittore, lo ha informato che nella sezione femminile di Rebibbia si sarebbe aperta, per la prima volta, una scuola superiore. E ha deciso di insegnare in carcere, scegliendo il tempo pieno: 18 ore settimanali pomeridiane, tre classi (prima, seconda, quarta). Stipendio: 1.300 euro mensili. Indennità di rischio: circa 500 euro annue. La composizione etnica delle sue allieve, età dai 18 ai 60 anni, è molto varia, perché un buon 70 per cento della detenute proviene da Africa, Sud America, Nord America, Cina, Europa dell’Est.

L’accoglienza è stata molto buona e priva di morbosità. Chi lavora in galera come insegnante, aggiunge, non ha problemi di "condotta", di "disciplina": "È uno dei paradossi. Quanto è difficile avere a che fare con una classe di 20 o 30 adolescenti in un istituto normale, tanto è facile avere a che fare con una classe di persone che hanno commesso dei reati e li stanno scontando. Il rapporto è capovolto".

 

Sapevano che lei è uno scrittore?

Ho cercato di tenerlo nascosto il più a lungo possibile. Poi, qualcuna se n’è accorta. Ma, per quanto mi riguarda, evito di parlarne.

 

La sollecitano a leggere in classe i romanzi che ha scritto?

Sì. Rispondo che ci sono libri più importanti dei miei. Non è una grande scoperta, lo so.

 

Li consiglia? Li legge?

Leggere ad alta voce è una delle attività principali che svolgo durante le lezioni. E un test assolutamente spietato: se si annoiano, si alzano e se ne vanno, qualunque sia l’autore che propongo. Oppure me lo fanno capire in modo evidente.

 

Ricorda un caso particolare?

Un pomeriggio stavo leggendo le ultime pagine de La sonata a Kreutzer di Tolstoj, nelle quali il protagonista uccide la moglie accoltellandola, e una studentessa sui 30 anni, italiana, abbandona l’aula. Finisco la lettura, esco nel corridoio, lei mi si avvicina e mi dice: "Mi volevo scusare. Non sono una maleducata. Ma ho ucciso mio marito con una coltellata e non riuscivo ad ascoltare…

 

Le accade di dover affrontare la diffidenza, la provocazione, il sospetto, lo scherno?

No. I codici sono abbastanza chiari. Non è faticoso far capire che sono lì per lavorare. Poi, c’è la condivisione di una condizione: se una reclusa vede una persona che va in carcere ogni giorno, si chiede perché. Me lo hanno domandato esplicitamente. Ho risposto: "È un occupazione che mi interessa.

 

Che cosa le interessa?

Il rapporto fra adulto e adulto, non avendo predisposizioni pedagogiche verso una popolazione adolescenziale e giovanile. In galera si percepisce una maggiore necessità dell’insegnamento, che permette ad alcune detenute di uscire dalle loro celle e di venire in un luogo che somiglia a una scuola.

 

Lo studio che cosa rappresenta per le carcerate?

Una pratica quotidiana che permette loro di uscire dalle celle e di non pensare alla propria condizione di recluse, a Quando ci sarà il processo, al dubbio che il giudice accetti l’istanza per gli arresti domiciliari, ai figli, ai mariti... E una sospensione, qualcosa di abbastanza morbido in un ambiente altrimenti duro.

 

Cercano altro?

Di coinvolgerti nelle vicende personali: non perdono occasione di raccontarti la loro situazione processuale, con una quasi generale dichiarazione di innocenza che è tipica del carcere.

Mi è anche accaduto di assistere a un cambiamento di prospettiva rispetto al reato compiuto, fino alla sua ammissione. Secondo i tradizionali parametri etici, penso che questo abbia qualcosa a che fare con l’espiazione".

 

Si lasciano andare a confidenze private?

Le detenute che conosco da più tempo tendono a farlo. A una mia studentessa, una rapinatrice coinvolta in un omicidio e condannata a 20 anni, che, dopo averne scontati otto, stava aspettando il primo permesso, ho detto: "Mi raccomando...". Mi ha risposto: "Mai più. Mi devono proprio mettere davanti un miliardo per farlo di nuovo...

 

Ha incontrato recluse intelligenti, veramente intenzionate ad apprendere?

Soprattutto fra quelle che devono scontare pene lunghe o stanno nella sezione di massima sicurezza. Si applicano anche di più. La "libertà", all’interno della galera, è inversamente proporzionale all’impegno nello studio. Più una detenuta è "libera", meno vuole studiare. Più è in costrizione, più vuole studiare, affrontando anche sacrifici: perché le celle sono piccole, perché molte si svegliano assai presto, lavorano fino alle due di pomeriggio, mangiano qualcosa in fretta, poi vengono a scuola.

 

Ha fatto l’esperienza della sconfitta?

Per gli ostacoli burocratici. Negli ultimi tempi accade abbastanza spesso di non poter fare lezione perché non c’è l’agente di sorveglianza. Le recluse sono pronte in cella, e, siccome sono donne che vivono in un contesto degradato, magari si sono truccate e vestite bene: aspettano una, due ore, e non vengono chiamate. Noi professori aspettiamo, a nostra volta, una, due ore, nel cortile.

L’agente non arriva e torniamo Indietro a casa.

 

Chi ha lasciato un segno?

Ricordo una studentessa dell’Est, nata e cresciuta sotto il regime sovietico, di cui ha vissuto anche il crollo. Aveva un’istruzione di livello universitario, voleva studiare ed era molto esigente: discuteva, teneva il punto. Una volta, dopo una polemica animata, mi ha detto: "Non hai capito che sono stata educata in un mondo in cui ci dicevano che tutto era in comune e niente nostro. Quando quel mondo è crollato hanno cominciato a dirci che dovevamo cercare di prendere quello che è possibile, senza badare agli altri. Per questo sono in carcere". Era stata implicata in un traffico di droga. E voleva sapere da me perché.

 

Insegnare a Rebibbia quanto ha arricchito lo scrittore?

Non avevo mai scritto su questa esperienza, che dura da sei anni. Adesso ho dovuto farne i conti: si scrive di quello che si conosce. Avevo il timore del luogo comune dello scrittore che va in un luogo, a suo modo estremo, a fare, come si dice, "esperienza". Ma, anche se questo luogo comune esiste, direi che lo sto pagando di persona ogni giorno, e forse posso permettermi di sfidarlo.

Sicuramente il romanzo che ho appena finito è il compimento, come scrittore, di questa esperienza.

 

Potrebbe tornare a insegnare in una scuola normale?

"No", lapidario.

 

Dice un poeta, mi pare indiano: "Quando incontri un uomo / qualcosa in te nasce qualcosa in te muore". Che cosa è nato e che cosa è morto in questi sei anni?

Mi vengono in mente due versi di Franco Fortini (la poesia si chiama La teoria dei generi) che cito a memoria: "Mi scrive un amico che vive / nella campagna del senese, dove illudersi è più facile". In carcere illudersi è difficilissimo, e questo forse toglie qualcosa. Ma non toglie nulla allo scrittore, perché chi racconta una storia deve essere disilluso. Deve fare esercizio di disillusione. Vedere delle persone che soffrono più di me, mi dà un senso direi costante delle proporzioni, anche se il rischio è sempre lo stesso: occuparsi degli altri per non occuparsi di se. A volte è più facile.

 

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