Piero Manni

 

"Io editore, ora pubblico l’ex boss"

 

di Luigi Vaccari, Avvenire, mercoledì 2 giugno 2004

 

Ha insegnato lettere per 20anni nel Carcere di Lecce: prima nel minorile, poi nel giudiziario, nel penale e nel femminile. Nel 2001 è andato in pensione anche perché, spiega Piero Manni, il suo impegno editoriale era cresciuto. Ma ogni occasione è buona per ritornare in galera: dalle rappresentazioni teatrali agli incontri con gli scrittori, dalle Premiazioni all’accompagnamento di parlamentari. Spesso incontra suoi ex alunni e agenti penitenziari. "Sono sufficientemente informato di come le cose vadano peggiorando: il carcere scoppia di detenuti in attesa di giudizio, di reclusi per reati connessi alla tossicodipendenza (circa un terzo) e di immigrati; per la stragrande maggioranza di costoro non c’è traccia ai processi di rieducazione, e anche le spese essenziali (addirittura per il vitto) vengono tagliate". Per un decennio Manni ha insegnato ai giovani: "Erano tutte persone espulse dalla scuola (solo di rado per responsabilità degli insegnanti) e di questa espulsione conservavano le stigmate e l’odio per le istituzioni, per il potere comunque costituito; non avendone avuti altri, i loro modelli culturali provenivano dai peggiori spettacoli televisivi".

 

Come si proponevano all’insegnante?

La sicurezza che ostentavano, la strafottenza nei confronti degli adulti e il disprezzo per il pericolo erano una scorza che a stento copriva le paure e le insicurezze. Non avevano progetti che non fossero faraonici ed irrealistici.

 

Per esempio?

Tutti sognano e progettano il colpo della loro vita, la rapina o la truffa che gli frutterà tanto,da poter sistemare tutta la famiglia e ritirarsi in pensione. Ovviamente, questo non avverrà mai. Nell’attesa, gli va bene di comportarsi in maniera tale da emergere nel gruppo e assumere il ruolo di leader con lo sprezzo del pericolo.

 

Quali erano i rapporti fra di loro?

Erano capaci di grandi generosità e solidarietà (da un altro punto di vista, omertà e mutualità criminale) e insieme di perfidie, prepotenze, persecuzioni; complessivamente, una instabilità ondulatoria priva di qualunque "centro di gravità" anche soltanto transeunte: per alcuni, ma solo per alcuni, la droga.

 

La scuola è importante per i giovani reclusi?

Lo è per tante ragioni. Rappresenta un collegamento con l’esterno e un elemento di distrazione nella rigorosa monotonia delle giornate carcerarie. Fornisce gli strumenti per districarsi meglio nella burocrazia delle onnipresenti domandine necessarie per qualunque richiesta. Infine perché le informazioni, le conoscenze, la cultura sono titoli di merito e di prestigio: in galera il prestigio di un detenuto è in rapporto con la gravità del reato (purché non infamante, come la violenza alle donne e ai bambini), con la lunghezza della pena, con l’età, con la forza fisica e con l’abilità in certi settori, dallo sport alla cucina; e lo è anche e soprattutto con la cultura di un recluso, con la sua capacità di argomentare, di saper leggere e interpretare correttamente le carte processuali, di saper impostare una domandina.

 

Sono queste le motivazioni che sollecitano la frequenza?

Sono queste, accanto a una richiesta di istruzione tradizionale, formalista: di regole grammaticali, di coniugazione dei verbi, di ortografia. C’è in oltre una domanda più complessa di strumenti, metodi e conoscenze formative.

 

Le chiedevano libri della sua casa editrice?

Soprattutto di poesia, che è molto diffusa fra i detenuti: quasi tutti scrivono versi, che rimano in cuore e amore, nei quali i figli "so piezze e core" e i modelli si ripetono e si tramandano pressoché identici da un carcere all’altro, da un anno all’altro. I due libri di poesie di Alda Merini da noi pubblicati sono quelli che hanno riscosso un maggior gradimento fra i miei studenti, probabilmente per un processo di identificazione rispetto all’emarginazione che sia lei sia loro hanno subito.

 

Hanno bisogno di gratificazioni?

Come chiunque, hanno necessità di essere apprezzati per quello di buono che fanno: basta un piccolo elogio, un gesto compiaciuto del professore di riscontro del loro lavoro, del loro impegno scolastico, e te li sei conquistati. Dal canto loro, ti conquistano con la semplicità, con la spontaneità disarmante tanto più in quanto proviene da persone che hanno commesso reati che talvolta ci appaiono imperdonabili.

 

Qual è stata la sua fatica, la tensione più acuta?

Una volta che si è stabilito un rapporto vero, non strumentale, lo sforzo maggiore consiste nel mostrare altre culture e comportamenti, nel dimostrare che le scelte che essi hanno compiute - il più delle volte pressoché obbligate, in assenza o in ignoranza di altri modelli - possono essere modificate, che è ragionevolmente possibile mettere in discussione i modelli che ci vengono proposti in ogni momento dalla comunicazione di massa e massificante".

 

Non è un discorso problematico?

Assolutamente. Va articolato nella concretezza dell’esperienza e degli avvenimenti, e i risultati sembrano, a prima vista, molto modesti. Ti accorgi poi abbastanza spesso, rincontrando a distanza di tempo e magari in situazioni diverse i tuoi ex alunni , che il tarlo della parola ha insinuato in profondità dubbi e ripensamenti.

 

Ha memoria di un episodio, di un fatto preciso?

L’immagine del tarlo la devo a un mio ex allievo, il quale dopo anni mi scriveva in una lettera all’incirca: Quel professor Manni, non sembra, ma è peggio di un tarlo che ti si insinua dentro e ti sconquassa… Un gran bel complimento per un insegnante, anche se per la verità da questa esperienza chi è uscito più sconquassato e messo in discussione sono stato probabilmente io.

 

Quando finivano la scuola, continuava ad avere rapporti coi suoi studenti?

Quando finivano la scuola, e anche quando uscivano dal carcere. A qualcuno ho tentato di dare un aiuto nel trovare un lavoro. Uno che è stato in galera è quasi sempre destinato a tornarci: qualche volta per scelta, prevalentemente perché fuori non trova nessuno che gli dia una mano a rompere il muro di pregiudizi, di sospetti, di ostilità. Oppure semplicemente mi telefonavano per salutarmi o ci incontravamo per strada.

 

Un insegnante quanto conta umanamente per i suoi allievi?

Molto. Vale una telefonata fatta alla madre o alla fidanzata: "No, professore, non devi dirle: "Ha detto Claudio che sei il suo amore e ti vuole bene da morire" ; ma: "Ha detto Claudio: Amore mio, ti voglio bene da morire". Mi raccomando, professore…". Vale un giornale o un pocket coffee di contrabbando, un francobollo per gli immigrati. Soprattutto una conversazione, una considerazione da essere umano, da persona. Qualche volta vale un consiglio. E tu senti di essere uno importante, uno che conta per alcuni altri.

 

Ha scoperto potenziali narratori?

Avevano tutti delle grandi storie da raccontare, diverse dalle mie abituali, e lo facevano con garbo e semplicità; molte le abbiamo raccolte in quadernetti che avevano una circolazione interna, comunque fuori commercio, e loro erano contenti e orgogliosi di poterli regalare ai parenti in visita.

 

Li ha incoraggiati?

A scrivere, certo, sempre; a pubblicare, mai.

 

Non ne ha pubblicato nessuno?

Uno, recentemente: il libro d’un ex boss della Sacra Corona, Antonio Perrone, intitolato Vista d’interni, che è stato abbastanza recensito e dal quale probabilmente si trarrà un film E interessante come documento umano, ma anche dal punto di vista sociologico, perché chiarisce dall’interno e con una testimonianza diretta come è nata in carcere la Sacra Corona, quali sono le dinamiche relazionali tra detenuti e tra detenuti e guardie, qual è la vita in galera. Ma ha anche significative qualità letterarie.

 

 

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