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Vita da prof tra i detenuti, parla Edoardo Albinati
Avvenire, martedì 25 maggio 2004
Edoardo Albinati insegna dal 1994 lettere a Rebibbia. A 18enni e 70enni. "La scuola è una pausa in una giornata di 20 ore di caos in cella". "Sono sensibili ai giudizi e hanno rispetto per me, come scrittore e come docente". "C’è chi sconta per periodi lunghi, anche l’ergastolo, e sono gli studenti migliori: quelli che frequentano più a lungo, si applicano con più pazienza". Oggi, dice, è un po’ spompato: "Sono uscito dalla galera alle 14.30 e ho la lingua di fuori. Se si trattasse soltanto di fare scuola… ma coi detenuti le parole hanno sempre un altro peso, e un’altra funzione". Adesso ha il part-time: 11 ore settimanali, divise in tre giorni. "Essendo un istituto tecnico industriale, ho una classe prima e una quinta". Oltre lo stipendio, gli danno 300 euro all’anno in più come "indennità di rischio".
Fare
scuola in carcere è stata una scelta o una necessità? "Una scelta, l’ho chiesto io. Ma anche una necessità, perché ero stanco di insegnare in una scuola normale. Ero burned out: cotto". Chi
sono i suoi alunni? Che età hanno? "Sono detenuti di ogni estrazione e nazionalità, che hanno già la licenza media. L’età va dai 18 anni in su, ho anche avuto studenti di 65-70 anni".
Come
è stato accolto? "All’inizio? Bene, mi sembra. Poi, sa, ogni anno ho persone diverse: tranne pochi, che continuano, il ricambio è notevole; è come se ogni settembre si ricominciasse daccapo".
Non
ha una memoria forte del primo impatto? "Fino al giorno prima ero in una qualsiasi scuola della periferia romana; il giorno dopo sono stato catapultato dentro le mura di Rebibbia. Avevo una classe numerosa: una trentina di studenti, in una cella molto piccola. Il ricordo più forte è lo stesso per tutti coloro che mettono piede la prima volta in carcere: sarà banale, ma è il suono metallico del grande portone d’accesso, i cancelli blindati che ti si chiudono alle spalle…".
Sapevano
che lei è uno scrittore? "Oh, no. Non ci tengo a presentarmi come uno scrittore. Poi, certo, dopo aver pubblicato Maggio selvaggio, il diario di un anno d’insegnamento a Rebibbia, che alcuni hanno letto…".
La
scoperta ha destato curiosità, interesse? "Nei confronti di figure come quella dello scrittore, alcuni reclusi hanno un atteggiamento vagamente reverenziale. Ma anche verso il professore in quanto tale. Una differenza con la scuola normale è anche questa: in galera ancora lo si considera una figura rispettabile, "Cavolo, ha una laurea!" quantomeno, è degno di attenzione".
Con
quali difficoltà, insufficienze, problematiche, strutturali e umane, si deve
misurare? "Con tutta la gamma immaginabile: povertà assoluta di mezzi, libri di testo mancanti o spaiati… Burocrazia che rende difficile l’accesso a scuola dei detenuti... Studenti malati che non riescono a curarsi… Questioni di ordine psicologico: dalla fortissima pressione dell’ambiente all’avere a che fare con persone che comunicano una dose di aggressività o di dolore o di rassegnazione; e poi l’insanità generale del luogo, perché la galera è un posto veramente fetente, va detto senza mezzi termini. Il che rende, almeno in parte, la scuola come un momento necessario, diverso o comunque di sospensione e di liberazione".
Le
accade di dover affrontare anche la diffidenza, la provocazione, lo scherno? "Scherno, no. Diffidenza, senz’altro, è una legge del carcere: io stesso ho imparato a essere diffidente da quando ci insegno".
Lo
è all’interno e all’esterno? "Assolutamente. È un’esperienza interessante per me, che sono un figlio di papà, per molti versi, cresciuto nella bambagia. Lì, insomma, tra quello che uno dice e quello che uno è davvero… Prima di dare il proprio cuore o le proprie confidenze a qualcuno ci si pensa su due volte.
Provocazione?
Beh, essendo un mondo esclusivamente virile, è come stare in caserma o in uno spogliatoio o nella curva di uno stadio. È chiaro che si sentono forti attriti, che tuttavia s’impara a dominare. Un certo self-control me l’hanno insegnato i detenuti stessi".
Come
supera i disagi? Dove rintraccia le motivazioni? "Le motivazioni profonde restano sepolte dentro l’anima, dentro la mente", sorride Albinati. "Diciamo che mi è utile mettermi alla prova: è una specie di palestra interiore, che costa fatica ma può dare anche un insolito piacere. Le pressioni è impossibile non viverle profondamente, soprattutto in certi periodi dell’anno. Per esempio verso Natale il pathos negativo di drammi, di tristezze è quasi insostenibile… Ma, siccome ci tengo a insegnare, cerco di tenere a bada l’emotività, perché, se diventa troppo invadente, ti impedisce di lavorare. Proprio ieri si è sfogata con me una insegnante, poveraccia, era psicologicamente distrutta da confessioni e richieste di aiuto che le erano state rivolte da alcuni studenti".
Lo studio che cosa rappresenta per i detenuti? Una parentesi? Un progetto? Un riscatto? Una speranza? Quasi tutti sono in cella con altri, in condizioni degradanti, e studiare, mentre c’è chi guarda la tv, chi si cuoce la pasta, chi litiga, eccetera, è molto difficile. Trascorrere un po’ di tempo a scuola può essere una sospensione dal caos ininterrotto delle 20 ore di cella quotidiane. Per qualche detenuto si tratta veramente di un progetto chiaro di riscatto o di riabilitazione sociale: il corso termina con l’esame di stato per cui si diventa periti industriali con indirizzo informatico, e ad alcuni serve a rientrare nel mondo del lavoro, intendiamoci, il lavoro pulito. Per altri venire a scuola è semplicemente un modo meno disumano di passare il tempo".
Sono
sensibili ai suoi giudizi? "Eh, accidenti, come ragazzini: c’è il secchione, il saputello, quello che se prende quattro non dico che si mette a piangere, ma quasi… Non mancano momenti simpatici: per esempio il giorno del colloquio con le famiglie. Lì, generalmente, sono i figli che ci chiedono: "Papà, come va in matematica? E in italiano?". E il papà arrossisce".
Accade
che contestino i suoi voti? "Sì, sì. Come nella scuola normale, anche in carcere non mancano allievi caratteriali… e non sono caratteri da poco! C’è chi sconta pene lunghe: anche l’ergastolo. E sono gli studenti migliori: frequentano più a lungo, si applicano con più pazienza, talvolta saltano i pasti per studiare e alla fine si diplomano".
Affrontano
gli esami con gli stessi patemi di u n alunno qualsiasi? "Certamente: notti bianche, sudarelle. Malgrado alcuni siano delinquentoni notevoli, quando fanno gli esami hanno le mani che gli tremano. La scuola, in galera, conferma esattamente quello che è, con le gelosie, le invidie, le speranze, le sindromi più classiche da timidezze. In un certo senso è un perfetto laboratorio per l’insegnamento".
Gli
studenti le fanno delle richieste? "Di ogni tipo. Ma la richiesta fondamentale è di sostegno psicologico".
Si
confidano? Che cosa le confidano, in particolare? Aspettative? Pentimenti? Rimorsi? Umiliazioni? "La confidenza vera è rara. Ed è giusto che sia così. Il carcere è anche un luogo di infinita menzogna, perché tutto quello che uno dice potrebbe essere usato strumentalmente. Non si è mai sicuri di aver ottenuto una piena sincerità. Anche con il professore. E una verità ultimissima non va nemmeno chiesta. Preferisco il pudore".
Ha
fatto anche l’esperienza della sconfitta? "Mi sento sconfitto quasi tutti i giorni: se penso che il 70 per cento dei detenuti torna a delinquere… che alcuni dei nostri migliori studenti si sono fatti ammazzare appena usciti dalla galera, e avergli insegnato la grammatica e Petrarca non li ha salvati... Intendiamoci, non mi sento responsabile, ma di fronte a un caso di estrema violenza accaduto pochi giorni fa mi viene da riflettere: "Sto lì a sfiatarmi, gli insegno che io ho si scrive con l’acca, e poi...". Del resto, la condizione di qualsiasi insegnante, fuori ancora di più che in carcere, include la possibilità dello scacco".
Ha
la tentazione di fuggire o gli scacchi sono un pungolo ulteriore ad andare
avanti? "Entrambe le cose. Penso ogni giorno di smettere. Anche stamattina mi sono detto: "Basta!". L’insegnamento in galera è sempre più boicottato. E l’atmosfera si è molto deteriorata negli ultimi due - tre anni perché i detenuti hanno perduto quasi ogni speranza di riforma (e di riscatto) che si erano illusi di conquistare. L’attesa sfibrante crea una rassegnazione che si riverbera negativamente su qualsiasi attività".
Chi
ha lasciato un segno? "Sono un po’ invecchiato dentro Rebibbia, e tanti dei miei cambiamenti li devo alle persone che vi ho conosciuto. Quando i miei studenti hanno delle crisi e vorrebbero lasciare, dico: "Guarda, se tu molli la scuola la fregatura la dai a te stesso ma anche a me! Su di te ho investito, ho speso più energie e tempo con te che a educare i miei figli!!".
Cosa
si augura di trasmettere? "Mah, soprattutto un entusiasmo per la bellezza e la verità: talvolta vedo che questo fiammifero si accende di colpo. E poi un dubbio metodico sulle proprie certezze. Molti detenuti sono prigionieri prima di tutto di una mentalità. Allora la missione principale di chi insegna è rompere questa coazione a ripetere. Mostrare come certe cose sono più complicate di come sembrano, che certi valori, per esempio il denaro, per cui molti ragazzetti finiscono in galera, sono vuoti, fasulli, si possono smontare pezzo a pezzo".
Qual
è la lezione che ha imparato? "Ho toccato con mano la capacità che hanno le persone di resistere nelle più difficili condizioni. Ma temo di non averlo imparato sul serio, io forse non resisterei".
Tornerà
a insegnare in una scuola normale? "Mai. La risposta suona antipatica. Ma è impossibile tornare indietro. Il mio problema semmai sarà: "E adesso, cosa c’è più in là della galera? Insegnare ai marziani?"".
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