Cine-televisione

 

Un film girato nella Casa circondariale femminile

e nel Nuovo Complesso di Rebibbia

L’amore ed altre prigioni

Intervista ad Andrea Appetito, regista, insieme a Christian Carmosino, di “L’ora d’amore”

 

di Antonella Barone

 

Deborah affronta ogni settimana ore di viaggio e di attese per vedere il marito in carcere, ma confessa che questa routine a poco a poco fa inevitabilmente sbiadire il rapporto. Anche Fatima deve attendere per incontrare il suo compagno e, per percorrere le poche centinaia di metri che separano l’istituto femminile da quello maschile, deve compiere la lenta circumnavigazione del muro di cinta a bordo di un cellulare. Vive invece di sotterfugi la storia d’amore nata in carcere tra Angelo e un altro detenuto che però, una volta libero, rinnega la propria scelta omosessuale. I tre protagonisti di “Ora d’amore” raccontano così paure, desideri e crudeltà dell’amore tra persone dentro e fuori il carcere.

 Il film è stato girato nella casa circondariale femminile di Rebibbia e nel vicino Nuovo Complesso, ma gli ambienti potrebbero appartenere ad un qualunque interno carcerario. La telecamera “stringe” su primi piani e dettagli, su particolari di sale d’attesa e meccanismi di controllo, lasciando fuori campo aree verdi, ludoteca, teatro e quanto altro rende questi istituti tra i più vivibili d’Italia. Restituisce così, con efficace sobrietà, la realtà pura e dura di una condizione che riduce il diritto agli affetti - tutelato dalla legge, promosso e persino enfatizzato “quale elemento del trattamento”- ad un’ora d’amore o a qualche minuto al telefono. Realizzato in digitale con un budget di soli 2000 euro, grazie ad un progetto del Dipartimento comunicazione e spettacolo dell’Università Roma III, il film è stato presentato all’ultimo Festival Internazionale del Cinema di Roma dove è stato apprezzato dalla critica ma, soprattutto, è piaciuto ad un pubblico per la maggior parte lontano dalla realtà del carcere. E pensare che i registi Andrea Appetito e Christian Carmosino in carcere sono entrati per parlare più che dell’amore in prigione, dell’amore come prigione, ovvero di relazioni impossibili e di dinamiche universali del sentimento. Un tema già trattato da loro in un cortometraggio girato in co-regia, “Quien es Pilar”, piccolo cult presentato e premiato in decine di festival internazionali.

“Inizialmente”, racconta Andrea Appetito, “il film doveva essere una fiction, girata in parte in Brasile. Lo spunto originario si deve a Virginia Corsini, una regista di Rio conosciuta anni fa al festival di San Paolo che al tempo mi chiese di scrivere, per un suo film, la storia di due amanti detenuti nello stesso carcere, in celle distanti. Poi il progetto brasiliano è fallito e la parte italiana ha preso una strada diversa. Per un anno ho tenuto un laboratorio di scrittura come volontario a Rebibbia femminile nello spazio del giornalino di “Ora d’aria”. Il mio obiettivo era quello di raccogliere stratagemmi per far sopravvivere al carcere le relazioni d’amore. Le storie narrate sono risultate molto interessanti e adatte ad un documentario, così io e Christian abbiamo cominciato a curare insieme la regia di un film tutto girato a Rebibbia, un piccolo mondo al maschile e al femminile.

 

Come si è svolto il lavoro del laboratorio e come avete scelto i protagonisti?

Abbiamo segnalato agli operatori che eravamo in cerca di storie d’amore con alcune particolari modalità di relazione: un detenuto con una compagna fuori, due amanti detenuti nello stesso carcere ma separati, un semilibero.

Man mano che gli operatori ci indicavano alcune storie, noi cominciavamo incontri, sopralluoghi e presentavamo il nostro progetto ai detenuti. Poi tornavamo con le idee chiare a filmare e ad intervistare detenuti nelle loro vite “ordinarie”. Le riprese sono durate in tutto due anni. La scelta dei detenuti comuni è stata fatta in itinere: avevamo già intervistato due detenute politiche in Italia e due prigionieri politici del tempo della dittatura in Brasile. Abbiamo scelto però di orientarci verso le storie di detenuti comuni perché più vicine alle nostre vite ordinarie.

 

Girare in carcere comporta autorizzazioni e limiti. Questo vi ha fatto rinunciare a riprendere o a raccontare qualcosa?

Veramente l’istituzione non ci ha posto particolari limiti, tranne quello di non riprendere particolari luoghi fisici. Piuttosto abbiamo avuto a che fare con un nostro pudore, quello di cercare di restituire l’autenticità senza compiacimenti. In questo senso abbiamo preferito lavorare per sottrazione.

L’unico problema sono state le attese, ma abbiamo imparato ad avere pazienza. Il tempo di chi è detenuto è indefinito e anche noi abbiamo dovuto attendere molto.

 

Come mai avete rinunciato a raccontare la storia dei semiliberi?

Quando l’abbiamo “scoperta” ci ha particolarmente colpito la condizione di sdoppiamento o di vita a metà dei semiliberi, soprattutto la dimensione “mitica” del ritorno notturno agli “inferi”, dimensione che il semilibero è costretto a nascondere perché esistono ancora pregiudizi forti radicati verso chi esce dal carcere. Infatti non ci è stato possibile raccontare questa condizione perché per due volte al momento di filmare le compagne dei semiliberi e loro stessi hanno rinunciato per paura che si svelasse la loro condizione ai vicini di casa, ai nuovi amici, ai parenti…

 

Il carcere raccontato dai media, quello immaginato dalla gente e quello reale: quali sono le differenze che voi avete riscontrato?

Il carcere dei media è uno stereotipo, una rappresentazione che non è il carcere reale; il carcere della gente che non ne ha esperienza (come noi prima di fare il film) è una vaga idea, troppo condizionata dai luoghi comuni e dalla retorica, oggi soprattutto dalla retorica securitaria. Ma se il carcere è un luogo comune vuol dire che ci stiamo tutti, no? in un modo o nell’altro, certo… non credo che ci si possa occupare di carcere pensando di occuparci di altro…

Il carcere ha la capacità di fagocitare le vite degli altri, di quelli che sono a contatto col carcere, le mogli i figli i parenti… Deborah, ad esempio, una delle protagoniste del film, vive in un paese a sud di Roma, va a trovare il compagno con sua figlia una volta a settimana e dice che anche la sua è una vita reclusa come quella del marito. Certo, non credo che in due anni di frequentazione del carcere siamo riusciti ad avere un’idea definitiva sul carcere proprio perché è una realtà molto complessa. Durante il mio primo sopralluogo io mi sono sentito in un labirinto, sono uscito con una vertigine che si è poi rinnovata ad ogni ingresso successivo.

In ogni sopralluogo c’era un particolare che ci colpiva, ne parlavamo e scoprivamo un dettaglio del “mondo di dentro” che assomigliava al “mondo di fuori” e svelava la sua apparente “libertà”. Si può interiorizzare un carcere e un inferno. Il film ha anche l’ambizione di mostrare che non esiste una netta separazione tra dentro e fuori e che si può essere prigionieri in molti modi. Angelo alla fine dice appunto che si può essere prigionieri in molti modi, non solo in una cella. Queste nostre prigioni, le nostre crudeltà le nostre paure… finiscono per manifestarsi nelle nostre scelte. Nella realizzazione di un film, nel montaggio ad esempio, la scelta o il rifiuto di un’immagine o di un discorso può riflettere le nostre inibizioni, può manifestare le convenzioni o i pregiudizi di cui siamo prigionieri.

 

 

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