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Ritrovare i figli dopo anni di carcere Madri che hanno conosciuto la galera Il momento più difficile è quello del ritorno a piccoli passi in libertà, il rientro in famiglia, il lento e faticoso lavoro per ricucire il rapporto con i figli
Il carcere devasta la vita di intere famiglie. Perché certo piacerebbe a tutti pensare che in galera ci stanno delle bestie feroci, ma la realtà è sempre più complicata: in carcere ci finiscono non alieni, ma esseri umani, che prima del reato avevano una vita, una famiglia, dei figli. Le testimonianze che seguono sono di due donne, anzi di due madri detenute, e tutte e due riguardano quello che è, paradossalmente, il momento più difficile: il ritorno a piccoli passi in libertà, il rientro in famiglia, il lento e faticoso lavoro per ricucire il rapporto con i figli. Una “ricucitura” che è un po’ meno difficile se il passaggio dal carcere alla vita libera è un percorso graduale, come è stato per Paola, che ci è arrivata attraverso i permessi e l’affidamento ai servizi sociali, molto più shockante per Natasha, che è stata espulsa al suo Paese, il Montenegro, dopo anni di carcere interrotti solo da qualche permesso premio. Hanno pagato più i miei figli di me
di Natasha
Anche se cerco di dimenticare il passato non posso! Mia figlia aveva tre anni e mezzo ed era con me, quando sono venuti i carabinieri a portarci in questura. Io non credevo che tutto questo stava capitando a me. Ero stata per alcuni anni in Italia la compagna di un mio connazionale, ricco e invischiato in traffici illegali, però lo avevo lasciato, ero scappata in Francia, ma quando sono tornata in Italia mi sono trovata addosso una pesante condanna in contumacia. Mi sembrava un brutto sogno, e invece era realtà. Una realtà che è durata troppo a lungo, perché essere lontano dai figli è sempre troppo lungo, anche se si tratta di pochi giorni. Immaginiamoci se si tratta di cinque anni! E anche oggi, dopo anni, sento la voce di mia figlia che piangendo mi supplica di non lasciarla. Era troppo piccola per capire cosa stava succedendo e sicuramente nella sua testa ero io che la stavo abbandonando. Penso che quello che mi è successo l’abbiano pagato più i miei figli di me, soprattutto la mia bambina, che era piccolissima. I miei genitori l’hanno cresciuta con amore, però tutti gli altri bambini hanno avuto mamma e papà, lei solo i nonni. Quando sono tornata dal carcere Heleni mi ha detto: “Mi sembra di non averti più visto da molto più di cinque anni”. Heleni ha 8 anni e mezzo. Cosa significa la sua frase? Che è come se non mi avesse mai conosciuta?, che è come se mi avesse dimenticata? Che, velatamente, voleva comunicarmi che io NON C’ERO per niente, non esistevo nella sua vita? Il mio rientro a casa l’ho sognato per cinque anni. Posso dire che è stato bello, anche se ne ero terrorizzata. Per primo ho visto mio figlio che, essendo all’università, non vive con i nonni e la sorellina. Siamo stati a pranzo insieme e io gli ho detto: “Tu chiedimi tutto quello che vuoi sapere e io ti dirò la verità”. Abbiamo parlato e mi sono sentita molto rasserenata. Lui è una persona adulta e ho dovuto imparare a considerarlo come tale. Con la piccola è stato più semplice perché lei voleva a tutti i costi la sua mamma, anche se in attesa del mio ritorno era dimagrita e molto nervosa. Credo che anche lei non ne potesse più della mia lontananza. Penso che se una persona sbaglia sia giusto che paghi. Quello che non trovo giusto è che altri, innocenti, paghino altrettanto o forse più del reo. Si dovrebbe trovare il modo di evitargli per quanto possibile delle sofferenze inutili. Io vedo che a mia figlia manca sicurezza e penso che l’unico motivo è che è cresciuta senza di me, e che forse, se mi avessero dato la possibilità di vederla di più, l’avrebbero aiutata a crescere un po’ più serenamente. Pesa più la condanna di mia figlia che quella del giudice
di Paola Marchetti
Aveva 15 anni Giulia quando mi hanno arrestata. Nel pieno dell’adolescenza. Mi ha visto due volte nei primi due anni e mezzo – ero nelle galere tedesche – e, quando ha potuto venire regolarmente a trovarmi alla Giudecca, di anni ne aveva ormai quasi 18. Ricordo che in carcere non tanto mi pesava la condanna del giudice, la cui punizione avevo accettato con tranquillità rassegnata – sono una persona che si prende le proprie responsabilità, penso che chi commette reati debba pagare – quanto il giudizio di mia figlia, perché era con lei che avrei dovuto fare i conti tutta la vita, era lei che, pagato il mio debito con la società, sarebbe stata in credito con me per il resto dei suoi giorni, era lei che avevo fatto soffrire di più “strappandole”, con il mio comportamento illegale, l’unico genitore che le era rimasto dopo la morte precoce del padre. Quando mi è stato concesso l’affidamento ai servizi sociali, dopo sei anni e mezzo in carcere, sono stata per qualche mese a casa dei miei genitori, dove vive anche mia figlia. Sapevo perfettamente che sarebbe stato difficilissimo per tutti, soprattutto per lei: un elemento esterno che arriva a minare tutti gli equilibri familiari. E che elemento! Una madre che ha “abbandonato” la figlia, una persona “impregnata di carcere” che dopo anni si trova a gestire cose che non è più sicura di saper gestire, se mai l’ha saputo fare. E infatti quei mesi credo siano stati un incubo per mia figlia. Per me sono stati confusione totale perché avevo troppe cose che non sapevo più gestire. Poi è iniziato un lento percorso di riavvicinamento il cui punto di partenza è stato il mio uscire di casa. Sembra assurdo ma è così. Il mio andarmene ha riequilibrato la famiglia, ha fatto vedere a mia figlia che sua madre “sa farcela”, le ha ridato fiducia nella mia capacità di essere in grado di stare in piedi con le mie gambe, le ha fatto capire che, anche se non sono la migliore delle madri, sono una persona che sa mettersi in discussione, che sa “rinunciare” a lei se questo la fa stare meglio. Infatti, da quel momento Giulia ha iniziato a cercarmi, a chiedermi di venire a cena con le sue amiche, quasi a voler condividere con loro il tentativo di conoscermi, quasi a voler sentire anche il parere delle amiche su di me, quasi a voler dire alle amiche “ecco, anch’io ho una mamma, che ve ne pare?”. Io, come mi aveva detto la psicologa del carcere con la quale parlavo soprattutto di me in rapporto alla mia capacità di essere madre, sono rientrata nella sua vita “in punta di piedi”, ma questo è stato possibile solo dopo che ero andata via da casa dei miei genitori, perché “in punta di piedi” significa appunto non invadere, essere presenza invisibile, essere presente solo quando il figlio te lo chiede. Ora io ci sono quando lei vuole che ci sia. A 22 anni ha un lavoro, un sacco di amici, è chiaro che preferisca trascorrere il tempo con loro che non con me! Ogni tanto mi chiama e mi chiede di pranzare insieme. Ogni tanto mi chiama per chiedermi di passare nell’ufficio dove lavoro, ogni tanto mi chiama per chiedermi se posso aiutarla in qualche cosa in cui sa che sono più abile di lei. Tutte scuse! So che quelli sono i momenti in cui ha voglia di stare con me e tutto quello che posso e che devo fare è di esserci, di esserci con tutta me stessa, con tutto il mio amore, ma soprattutto di non aver alcuna egoistica pretesa nei suoi confronti, come spesso madri che sono state molto più presenti e migliori di me hanno verso i figli. Parte del nostro riavvicinamento è dovuto anche all’attività che faccio nelle scuole. L’andare a parlare agli studenti di carcere e della mia esperienza mi ha aiutato a capire che cosa pensano gli adolescenti, quali sono i loro dubbi i loro pregiudizi, sui reati, le pene, il mondo carcerario, i detenuti, la giustizia, mi ha aiutato a comprendere, almeno in parte, cosa può essere passato per la testa di mia figlia durante gli anni della mia carcerazione. Io ho perso tutta la sua adolescenza, e lei ha trascorso questo periodo importante della crescita senza la madre vicino. Mi chiedo: è giusto che mi perdoni? Che poi questo parlare nelle scuole stia avendo la conseguenza, non prevista e insperata, di un riavvicinamento tra me e lei è stata una fortuna che mi rende una persona davvero felice.
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