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Ma esiste una sottocultura carceraria? Parliamo di etica carceraria, codici comportamentali, gesti e rituali, dinamiche relazionali, regole non scritte, gerarchie
Tutto è cominciato con una tesi di laurea, per la quale siamo stati consultati da una studentessa, Ileana Barchi: "Sto scrivendo una tesi sulla 'Sottocultura carceraria'. 'Che roba è?', tutti mi chiedono. In sintesi sto cercando di stilare una sorta di mappa sull’etica carceraria, sul codice comportamentale, sul significato di gesti e rituali, sulle dinamiche relazionali, sui processi di esclusione, sulle gerarchie e sulle regole 'non scritte' che si instaurano tra detenuti. Noto però pareri molto contrastanti anche tra di loro: alcuni ad esempio parlano di solidarietà e di mutuo soccorso, altri di estremo individualismo. Mi piacerebbe che i 'diretti interessati', ma ovviamente non solo loro, mi aiutassero a far luce su questi temi". E così di regole ed etica carceraria abbiamo deciso di discutere in redazione.
Ornella Favero: Se vogliamo parlare delle regole non scritte e delle gerarchie che si istaurano tra detenuti, io direi di partire subito con una questione che può sembrare provocatoria: qualche tempo fa ho letto la notizia che mentre un detenuto veniva trasferito, l’elicottero su cui viaggiava con la scorta di sette carabinieri è caduto e sono morti tutti. Io vi chiedo: qual è la vostra reazione di fronte ad un fatto del genere? Anche il rapporto con le forze dell’ordine secondo me fa parte della "cultura" carceraria. Nicola Sansonna: Non è però solo una questione di cultura carceraria: se tu, per esempio, frequentassi i centri sociali, assisteresti ad una reazione qualche volta peggiore della nostra. Possono essere reazioni dettate un po’ dal mondo in cui uno vive, da quanto si sente in contrapposizione con lo Stato, e con chi lo Stato lo rappresenta. Io sono stato già catturato, con i carabinieri in questo momento non sto combattendo, adesso ho a che fare con persone della società civile, ci siete voi volontarie, ci sono le educatrici, ci sono anche gli agenti: non sento questo bisogno di contrapposizione per forza. Per quanto mi riguarda, mi dispiace che siano morte delle persone, come mi è dispiaciuto per quelli che sono morti a Nassiriya. Tutto il resto è solo cinismo e speculazione, nel senso di voler speculare sulla notizia. Magari però chi sta ancora vivendo una situazione di scontro può darsi che la veda in un modo diverso dal mio. Chi ha intenzione di farci apparire negativamente dirà che noi abbiamo gioito quando abbiamo appreso la notizia dei carabinieri che sono morti a Nassiriya, o comunque di fronte a fatti di questo tipo. Sicuramente ci sarà anche qualcuno che gioisce, nello stesso modo in cui ci sarà sicuramente qualcuno che si comporta così quando muore un detenuto, e magari dirà "meglio, uno in meno". Graziano Scialpi: Bisognerebbe anche andare a vedere le reazioni nelle caserme dei carabinieri quando dei "delinquenti" si ammazzano o in qualche modo muoiono. Ornella Favero: Sì, ma noi non dobbiamo giustificare dei comportamenti solo perché loro fanno la stessa cosa. Più che di sottocultura bisognerebbe parlare di "cultura della sopravvivenza al carcere"
Marino Occhipinti: Nel termine sottocultura carceraria io invece vedo soprattutto, e mi danno fastidio, certi comportamenti imposti secondo regole non scritte. Per esempio, una volta in carcere ti volevano insegnare come si doveva mangiare, come dormire, come ci si doveva vestire per andare ai passeggi. E c’era comunque chi si adeguava, e si faceva trattare come un bambino per essere ben accettato. Paolo Moresco: Secondo me bisogna capire prima il termine sottocultura, che a mio parere ha di per sé un significato abbastanza duplice, perché ogni gruppo ha una sua sottocultura, parla un gergo. È l’ambiente chiuso che ti porta a questo, è un fatto fisiologico normale, bisogna saperlo distinguere dalla sottocultura come degenerazione, esasperazione di certi comportamenti. Ornella Favero: Infatti le due definizioni del vocabolario sono chiare. La prima definizione è: "Cultura scadente o degradata", la seconda invece: "Varietà di cultura minoritaria o locale", che sono due concetti molto diversi. Uno è pesantemente negativo, uno è invece legato ad un ambiente o ad una minoranza che ha una propria specifica cultura. Paolo Moresco: E quando si parla di sottocultura carceraria si tende, per la brutta qualità del termine "carcerario", a considerare solo il senso dispregiativo della parola. Secondo me questa distinzione va fatta perché in parte è autodifensivo crearsi una sottocultura, in parte è bisogno di identità. Graziano Scialpi: E poi in carcere non c’è nemmeno una sola sottocultura, i detenuti che scendono in redazione, che frequentano i corsi, o seguono le varie attività, hanno un tipo di sottocultura; che è diversa da quella di chi passa i giorni chiuso in cella magari ad ubriacarsi. Nicola Sansonna: Io ho 47 anni e "frequento" dall’età di 18 anni il carcere, e da allora ho passato fuori dal carcere poco più di tre anni: il resto è tutta immersione in questo marasma umano che è diventata la galera, capace di stritolare uomini e coscienze, ed è solo con la forza di volontà, l’autostima, la voglia di riappropriarsi della propria esistenza che si riesce a sopravviverci. Ragionandoci un po’ e anche confrontandomi con alcuni miei compagni, sono giunto alla conclusione che alcuni miei concetti di sottocultura o di etica carceraria si possono ritenere un po’ datati, e che certi comportamenti bisogna definirli piuttosto "modi di vivere il carcere", o "cultura della sopravvivenza al carcere". Teniamo presente anche che adesso qui dentro ci sono il 30/40 per cento di ragazzi stranieri. In ogni caso credo di aver individuato 4 punti che, in linea di massima, possono essere condivisi da tutti i gruppi che si trovano dentro:
Ecco, chi rispetta questi punti qui dentro viene considerato già un "bravo ragazzo" e quindi accettato dalla comunità, e gli viene data la possibilità di mettersi a confronto con gli altri. Io non accetterò mai un dialogo aperto o un confronto con un pedofilo, come non accetterò mai di mettermi in discussione con uno che ha fatto arrestare venti o trenta persone. Questa per me e per la maggior parte delle persone detenute è l’etica carceraria. Quella regola che dice che non si deve mai denunciare nessuno
Ornella Favero: Una domanda immediata che vorrei farvi riguarda la prima regola, "non aver fatto mai arrestare nessuno": se sapete che uno ha commesso una violenza sessuale, che è considerato qui fra i peggiori reati, cosa fate, non lo denunciate perché la prima regola è questa? Paolo Moresco: Io ti dico che se sapessi che in giro c’è un serial killer libero, io lo denuncerei. Quindi tutto dipende dalla qualità del reato. Nicola Sansonna: Paolo, tu qui sei un "turista", e io non posso dire niente ad un "turista" come te, sei in carcere da poco e devi stare qui poco, non possiamo vedere certe cose dallo stesso punto di vista. Ornella Favero: Turista o no, una regola del genere è una degenerazione comunque. Mi preoccuperei se anche Paolo la pensasse come te. Graziano Scialpi: Non è una degenerazione, è la trasposizione in carcere di un codice di una malavita che aveva però dei limiti: cioè che le donne non si violentano, i bambini né si toccano né si violentano, in chiesa non si ruba. Era una malavita che si autolimitava, ed in carcere ha trasposto questi limiti; se vuoi, la degenerazione c’è di più nella malavita che non ha questi limiti. Ernesto Doni: Una volta in carcere venivano punite anche le malefatte compiute all’esterno da elementi della malavita, cioè se io mi comportavo male fuori nell’ambito delle nostre attività criminose, quando entravo in galera prendevo botte. Così certe persone si comportavano meglio e diventavano più educate proprio quando entravano in carcere. Ornella Favero: Sulla questione del denunciare o meno vorrei tornare indietro, a un romanzo russo dell’ottocento, "I demoni" di Dostoevskij, dove c’è un terrorista che vuole cambiar vita, abbandonando il gruppo di terroristi di cui fa parte, e sa che questo gruppo ha progettato una serie di omicidi: allora quello deve uscire ma stare zitto, o uscire e denunciare ed evitare che vengano uccisi degli innocenti? E non ditemi che questa è un’altra cosa, perché è sempre nelle situazioni estreme che si capisce come certi principi non reggano. Stefano Bentivogli: Secondo me c’è un po’ di confusione quando si parla di quello che può essere l’atteggiamento personale di fronte a un caso, una persona, e quando poi invece si va a parlare di regole, di codici previsti da una convivenza comune. Allora se io vengo a sapere che quello potrebbe fare questo o quell’altro, secondo me il problema grosso che si pone è: io in carcere oggi, non vent’anni fa, quanto sono libero di agire secondo coscienza, o quanto sono obbligato ancora da queste regole? Certo le cose sono cambiate, su alcune questioni ha ripreso spazio la possibilità di decidere di comportarsi secondo coscienza, o a volte convenienza. Faccio un altro esempio a caso: fino a poco tempo fa quelli condannati per sfruttamento della prostituzione prendevano i calci nel sedere se stavano in sezione, questo non succede più. Allora cos’è successo, sono improvvisamente diventati carcerariamente corretti questi reati? Oppure è cambiato qualche cosa? La mia impressione è che dal momento che alcune realtà criminali hanno preso più potere, con più presenze all’interno del carcere, certi comportamenti sono diventati corretti. Allora quanto c’è di morale e di etico in tutto ciò? Nicola Sansonna: Adesso c’è senz’altro una grande confusione dove tutti pensano per sé. Non esistono più le grandi aggregazioni di centinaia di persone che facevano parte della stessa batteria (banda), una volta chi comandava in carcere comandava anche fuori. Adesso questo non esiste più. Oggi in carcere c’è anche chi se ne sbatte di tutto e di tutti
Stefano Bentivogli: Mi trovo anch’io ad affrontare la realtà del carcere da "mezzo turista", visto che non ho esperienza di carcere prima degli anni 90. La situazione che ho trovato io è proprio il convivere del vecchio codice con quelli nuovi, diversi; c’è poi chi non ha neppure un codice fuori, e quindi figuriamoci se ce l’ha in carcere, dove vive senza regole e se ne sbatte di tutti e di tutto. In passato erano ben definiti i ruoli, non c’erano tremila sfumature e questo aveva anche un suo senso, proprio perché il gruppo criminale nella sua composizione era omogeneo. Erano ladri, comunque persone che per sfizio o per bisogno andavano a procurarsi del denaro. Poi hanno incominciato a cambiare le leggi, a partire da quella sui collaboratori di giustizia che scardina proprio il muro che ci deve essere tra la guardia e il ladro. Si è creata addirittura una zona d’ombra, che è quella che a mio parere semina un sacco di casini, dovuti al fatto che nelle leggi sono previsti dei benefici legati alla buona condotta, ma chi va a stabilire se la mia è buona condotta per ottenere la liberazione anticipata, o se a contare di più è il mio essere passato dalla parte delle guardie? Nicola Sansonna: In ogni caso se parliamo di regole generali, sono quelle che ho ricordato io. Che poi Paolo dica "io denuncerei un serial killer", lui lo può dire liberamente, proprio perché c’è stata una maturazione anche da parte delle teste di cazzo come me, che un po’ di anni fa probabilmente gli avrebbero dato delle coltellate se solo avesse parlato così. Sono cambiate le cose, non tutti devono pensarla come me, è giusto che lui la pensi così, la società tramite le persone che lavorano dentro il carcere dovrà portare me a ragionare come lui, non lui come me. Ornella Favero: Comunque al centro del discorso sulla sottocultura e sulla sua degenerazione, resta il rapporto tra legalità e illegalità, tra i "valori" e i comportamenti interni e i comportamenti di chi sta fuori. Riguardo alla regola che Nicola metteva come prima, io dico una cosa: un conto è quello che fa il nome dei complici per ottenere dei benefici, un conto invece è il concetto del denunciare, se c’è, una violazione pesante della legge. Paolo Moresco: Metti caso che vedete uno che investe un bambino e fugge, lo denunciate o no? Elton Kalica: Se uno per principio non vuole denunciare nessuno, penso che il minimo che dovrebbe fare è di prendere il numero di targa, e consegnarlo ai famigliari del bambino. Da quello che ho visto, per come funzionano le cose qui in Italia c’è sempre una divisione tra uno che vive in un certo ambiente "regolare" e vede come punto di riferimento le forze dell’ordine, e invece chi vive in un ambiente legato alla malavita e non si rivolgerà per nessun motivo alle forze dell’ordine, neanche per denunciare reati gravi tipo pedofilia o stupro, perché questo è in contraddizione con l’ambiente in cui sta. Piuttosto informerà del fatto i malavitosi che hanno il controllo della zona, perché questo è il suo punto di riferimento. Ornella Favero: Comunque il nucleo del problema è il rapporto della persona con chi si deve occupare di fare giustizia: il cittadino "normale" non ha certo questa idea della giustizia "fai da te" che molti qui hanno. Ogni "vecchio" detenuto ha soprattutto una cultura della gestione del tempo
Stefano Bentivogli: Più che un codice, in carcere è necessario comunque assumere una cultura diversa, solo per il fatto del rapporto con il tempo. Quando sono entrato, dopo un po’ ho iniziato a capire il problema del tempo chiuso, e ho guardato cosa succedeva attorno a me. Mi sono reso conto che il vecchio detenuto sa in che modo farsi la galera, ha una cultura della gestione del tempo a tutti gli effetti. Se uno guarda la nuova generazione, tipo quelli del circondariale, è tutta un’altra storia, nel senso che lì non si sono ancora consolidate delle strategie per soddisfare i bisogni. E, anche se alcuni punti della vecchia cultura del carcere non piacciono neanche a me, sono comunque dei punti di partenza consolidati con i quali non si può fare a meno di confrontarsi. Anche perché spesso sono le uniche cose che ti restano in mano quando entri. Questo lo dico per esperienza personale, perché io quando sono entrato mi sarei sparato, invece nella prima cella decente dove sono stato, dopo l’isolamento, che era una vecchia cella di vecchi detenuti comuni, ho avuto questo passaggio di incoraggiamento, di attenzioni che trovi solo in questi ambiti. Nicola Sansonna: Io appena entrato ero incazzato e cattivissimo, perché avevo un reato per cui sui giornali chiedevano l’ergastolo: in carcere mi hanno preso per mano e mi hanno fatto scuola nel vero senso della parola, mi hanno fatto vedere cosa c’era di buono, mi hanno insegnato come comportarmi dentro, e come comportarmi con le persone che avevo all’esterno e molte altre cose. Non c’erano educatori allora, c’erano soltanto il prete e gli agenti, e nessun altro. Questa non era cultura, era una politica di sopravvivenza, e vista la mia esperienza è una cosa che io in seguito ho fatto con altri. Se arriva uno nuovo in sezione, cerco prima di vedere che tipo è, poi nella maggior parte dei casi mi metto a disposizione e cerco di aiutarlo per quello che posso. Graziano Scialpi: Io invece ho notato, nei cambiamenti di carcere, che le prime persone che incontri sono le più espansive. In realtà c’è anche qualcuno che sta solo saggiando se hai i soldi, se hai le sigarette, se puoi comprargli il vino. Per cui il primo mese non do confidenza a nessuno, le persone con cui vale la pena di avere a che fare poi emergono da sole. Ornella Favero: Allora, già dal tuo intervento viene fuori che ci sono dei comportamenti di sopraffazione, per esempio di quello che deve comperare per forza delle cose per altri. Ma allora esiste questo tipo di comportamento o sono fantasie? Nicola Sansonna: Sono situazioni che possono crearsi, ma dalla maggior parte di noi non sono accettate, e quindi se qualcuno viene a conoscenza di una situazione di questo tipo, farà il possibile per risolvere in qualche modo il problema. Comunque si tratta sempre di casi isolati. Stefano Bentivogli: È una situazione che è classica nelle sezioni, forse però una volta con la vecchia cultura c’era più solidarietà, adesso che certe regole sono meno sentite c’è il marasma. Adesso nessuno, o quasi, va a rischiare i giorni di liberazione anticipata per risolvere certe questioni. Nicola Sansonna: Sicuramente io non lo farei, però non starei zitto davanti a casi di abusi, anche se non cercherò più di risolvere il problema in modo violento, come avrei fatto una volta. Sandro Calderoni: Una volta si agiva, proprio perché o era bianco o nero, adesso ci sono tante zone d’ombra, c’è confusione, non ci sono più regole fisse, quindi ti muovi in base alla tua coscienza.
Noi diciamo a chi sta fuori che bisogna distinguere tra il reato e la persona che lo commette, ma poi qui dentro cosa facciamo? Nicola Sansonna: Sandro si riferisce a quelli che noi chiamavamo gli "azionisti", erano un gruppo di persone che quando succedeva qualcosa in sezione, quando qualcuno trasgrediva le regole, agivano, cioè si occupavano di risolvere il problema e menavano. Il fatto è che una volta se tu eri in una sezione dove avevano messo un infame o un pedofilo, venivi apostrofato così: "Se ve lo tenete lì vuol dire che siete come lui o incapaci di mandarlo via". Da quando è arrivata la legge Gozzini però automaticamente è andata in cantina la vecchia regola della giustizia "fai da te". Personalmente io preferisco andare finalmente a casa, quindi adesso se ci mettono in sezione uno che disprezziamo, un violentatore o un pedofilo, cerchiamo di farlo andare via in modo diverso, magari facendo capire all’agente che se non cambiano sezione a quella persona non si sa come va a finire... In questo modo nessuno si prende altri anni di galera, lui non si prende le mazzate e gli agenti imparano a non mettere certe persone tra i detenuti comuni. Cerchiamo comunque di tornare al discorso delle regole, ad esempio la regola che in sezione non devono esserci pedofili o responsabili di reati di questo tipo. Possiamo dire che questa regola è condivisa non solo dai detenuti, ma anche dagli agenti e dalla maggior parte delle persone all’esterno. Sarà una regola discutibile ma io la ritengo giusta, perché chi commette atti di un certo tipo nei confronti di persone deboli come donne e bambini non dovrebbe neanche esistere, non sarò mai disposto ad accettarlo come mio pari. Paolo Moresco: Io trovo che ci sia un fondo di ipocrisia in carcere su questa questione, perché noi come giornale, come persone che vogliono dialogare con la società esterna, che discorso facciamo? Diciamo che bisogna distinguere tra il reato e la persona che c’è dietro, che non dobbiamo giudicare la persona per quello che ha fatto, ma dobbiamo vedere com’è la persona e la storia che c’è dietro. Non essere però disposti a farlo per quelle persone che hanno certi tipi di reato mi sembra contraddittorio e ipocrita. Diciamo anche che non solo la condanna a morte non va bene, ma neanche l’ergastolo, perché comunque una persona deve avere una possibilità. Ma se poi dal punto di vista della sottocultura carceraria una possibilità per persone che hanno commesso certi reati non esiste, allora vuol dire che, se potessimo, le uccideremmo. Perché in realtà questa è la risposta: "Non dovrebbero neanche esistere". Io la trovo una cosa di un’assurdità assoluta, e dico: ragioniamoci sopra. Nicola Sansonna: Effettivamente discutere di queste questioni mi ha fatto riflettere su certe contraddizioni pesanti: per esempio, il fatto che qui si considera il violentatore una persona indegna, che non può essere accettata da noi, mentre viene accettato quello che ha ucciso una donna senza violentarla. Ornella Favero: Mi sembra sia proprio questo il punto, bisogna ragionarci su, perché anche fuori io sento delle semplificazioni sulla violenza sessuale e sulla pedofilia, e francamente non mi pare sia quella la strada, il che non vuol dire giustificare il reato. Il ragazzo semiritardato che fa violenza a un altro, oppure quello che ha subito continuamente violenze nella sua vita, e a sua volta diventa un violentatore: queste sono storie abbastanza diffuse; lì tu non vai a giustificare la violenza, vai a parlare delle persone e fai le dovute differenze, e secondo me anche rispetto all’opinione pubblica ragionare così è importante.
In carcere i principi che c’erano fuori valgono molto poco, perché bisogna iniziare una lotta per non soccombere
Elton Kalica: Questa regola di non accettare violentatori tra i detenuti comuni in altre parti del mondo non esiste. Ho letto qualche libro che parla delle carceri negli Stati Uniti, ho visto che lì ci sono parecchi detenuti che stanno scontando condanne per violenze carnali, e che non solo sono tra i detenuti comuni, ma se ne vantano anche, mentre nelle carceri italiane è sempre un reato di cui vergognarsi. Questo forse perché qui la malavita ha cercato di porre dei limiti riguardo alle donne e ai bambini. Poi c’è un altro aspetto delle regole in carcere: se si vuole sapere se il detenuto appena arrivato in sezione ha infamato i suoi compagni durante il processo, non si fa perché si è dispiaciuti per i suoi compagni condannati per colpa sua, ma perché ci si deve difendere: se questa persona l’ha fatto una volta, potrebbe farlo ancora e in qualche modo potrebbe danneggiare gli altri detenuti, insomma si fa per un interesse personale. Secondo me quando si entra in carcere i principi che c’erano fuori valgono molto poco, perché bisogna iniziare una lotta per non soccombere, cioè bisogna difendersi da tutti i comportamenti che possono nuocere, e questo porta a porsi queste regole. Marino Occhipinti: Elton diceva: c’è gente che fuori aveva molti principi e dentro non ne ha più, ma io ne ho conosciuto anche tanti che fuori di principi non ne avevano nemmeno uno e dentro ne hanno un sacco. Improvvisamente riscoprono tutti i buoni principi: questo non si fa, quell’altro non si fa, i bambini non si toccano. Magari fuori ha ucciso venti persone, però il bambino non si tocca. Nicola Sansonna: Per me è una politica di sopravvivenza al carcere, non è che uno prima non avesse dei principi, è che probabilmente qui dentro non sono più validi allo stesso modo. Qui vigono delle regole e prima le capisci meglio vivi. Nel senso che, quando io dico ad una persona di tenere lontano l’infame, lo dico perché so cosa vuol dire la galera, so che è sofferenza, e l’infame si è comportato così per alleviare la sua galera. Magari dopo avere rubato con me ed aver rubato anche la mia parte, non vuole farsi neanche un terzo della galera che devo farmi io. Permettimi di odiarlo. Ornella Favero: Tu hai detto una cosa intelligente, che dimostra che queste cose vanno discusse. Ma un conto è fingere che questi siano dei principi, un conto è dire che sono le leggi per sopravvivere, è radicalmente diverso. Gianfranco Gimona: Abbiamo detto che come regola interna i pedofili e gli infami vengono allontanati da quella che è la società carceraria. In fin dei conti è la stessa cosa che succede fuori, anche fuori il pedofilo va tenuto lontano, non posso accettare un amico o una persona vicina che sia un pedofilo. Ornella Favero: Certo che anche fuori è cosi, però secondo me bisogna distinguere fra le regole per sopravvivere, e quella che uno ritiene sia una regola morale. Portando alle estreme conseguenze il tuo ragionamento, fuori non è che isolerebbero solo il pedofilo o il pentito, isolerebbero l’omicida, il rapinatore, il ladro, questo perché ogni gruppo sociale ha delle sue regole che sono di volta in volta più o meno restrittive. Generalmente la società esterna mette al bando tutte le categorie che si possono trovare all’interno del carcere, quindi tutti voi sareste esclusi. Con questo non sto dicendo che uno non deve avere un giudizio pesantemente negativo sui pedofili, né che voi da domani dovete essere bravi e andare in sezione ad abbracciare i pedofili, non è questo il problema. Quello che però noi cerchiamo di fare, dentro e anche fuori, è mettere in discussione la rigidità della regola, il fatto di scambiare la regola di sopravvivenza per un principio morale.
In passato, quando uno entrava in carcere sapeva ben presto cosa doveva fare e cosa gli era vietato Oggi le cose sono cambiate, sono cambiati soprattutto i detenuti, la gran parte di loro non ha niente a che fare con la criminalità così come era tradizionalmente intesa
di Stefano Bentivogli Sono un detenuto la cui conoscenza del carcere inizia alla fine degli anni 90 ed ho un’esperienza penitenziaria principalmente trascorsa al nord Italia. Quando sento parlare di cultura o sottocultura carceraria, ho sempre in mente due cose molto differenti: la prima è quella che conosco direttamente, l’altra è quella di cui ho solo sentito parlare o della quale al massimo ho percepito la presenza. Il carcere in Italia è in generale rimasto molto simile a quello che è sempre stato, quello che è cambiato, soprattutto al nord, è la tipologia del detenuto. Se si vuole affrontare la questione della cultura carceraria è meglio tenere sempre presente la realtà attuale, fare dei distinguo tra nord e sud del Paese e soprattutto evitare i luoghi comuni e gli stereotipi che sopravvivono solo in chi di carcere non sa nulla. Quello di cui parlo è comunque molto filtrato dalla parziale esperienza che ho del carcere e, soprattutto quando mi riferisco alla cultura carceraria, così come è tradizionalmente intesa, lo faccio spesso per sentito dire, con tutti i limiti che questo comporta. In carcere c’è gente che ci ha trascorso o ci trascorre quasi tutta la vitaPer comodità limiterò la definizione di cultura – non sottocultura – a quel patrimonio di conoscenze, usanze, codici non scritti, strategie che nascono dietro le sbarre e parzialmente lì restano. Non mi piace il termine sottocultura perché in questo caso l’ambiente a cui è riferito è talmente chiuso e diverso dagli altri, da farne un mondo a sé: non bisogna dimenticare che in carcere c’è gente che ci ha trascorso o ci trascorre quasi tutta la vita, quello diventa il loro mondo ed al suo interno, col tempo, i bisogni creano una sovrastruttura che si può definire cultura a pieno titolo. Con questa poi non si confrontano solo i detenuti, ma anche tutti gli altri soggetti che col carcere, per ragioni diverse, condividono una parte della loro vita: la polizia penitenziaria, gli operatori, i sanitari, e secondo me anche i volontari che negli ultimi anni hanno aumentato notevolmente la loro presenza. Questi sono influenzati dal carcere, ma sicuramente sono uno dei maggiori elementi che, con la loro cultura, stanno influenzando quella del carcere. Cominciamo dalla parte che conosco meno direttamente, che sono tutte le regole e le usanze nate come sistema di protezione ed identificazione del detenuto all’interno del sistema della cosiddetta "mala". Molte sono state addirittura codificate, anche se non scritte, sono veramente antiche a quanto mi hanno raccontato, e sono state il pilastro sul quale all’interno del carcere si sono gestiti i conflitti, stabiliti gli equilibri, definite le gerarchie e gli obblighi che ne derivano tra detenuto e detenuto: erano talmente forti e consolidate da essere parzialmente riconosciute anche dagli agenti di custodia. Quando uno entrava in carcere sapeva ben presto cosa doveva fare e cosa gli era vietato, con chi poteva parlare e con chi no, quale era la sua posizione nella gerarchia e a chi doveva fare riferimento. Era il sistema di sopravvivenza della mala ed era fatto di gesti, linguaggi verbali, ma anche segni e simboli come gli arcinoti tatuaggi con cui certi detenuti si tappezzavano il corpo. Se per alcuni di essi era possibile conoscerne il significato, per altri, a meno che non si fosse a pieno titolo dell’ambiente, questo era negato. Il carcere era definito da regole chiare, potevi essere da una parte o dall’altra, tra i detenuti o isolato da questi per come ti eri comportato o per il reato che avevi commesso. Le cose sono cambiate, sono cambiati i detenuti, soprattutto al nord la gran parte di essi non ha niente a che fare con la criminalità così come era tradizionalmente intesa, ma sono cambiate anche le leggi, l’Ordinamento penitenziario, sono cambiati anche gli agenti. Se difatti nel sud la cultura del carcere tradizionale resiste ancora, al nord l’aver riempito le carceri di extracomunitari e tossicodipendenti ha cambiato molte cose. Sono persone spesso di provenienza talmente diversa, che l’aver commesso reati non basta più a farle sentire parte di una stessa categoria. Spesso poi le loro caratteristiche e le loro peculiarità le pongono addirittura in contrapposizione: la religione, la lingua, gli usi, se sono troppo diversi, impediscono ai sistemi di identificazione tradizionali di funzionare. I tossicodipendenti, che sono ormai il 30 per cento della popolazione detenuta, e le persone con disagio psichico, che arrivano al 12 per cento, pongono problemi veramente nuovi, introducono nelle dinamiche già difficili tutta la disperazione che li caratterizzano: spesso la solidarietà tra i detenuti è la prima vittima, la paura, la diffidenza la fanno da padrone. Il sovraffollamento poi rende difficile la convivenza, e quanto prima era gestibile secondo la regola, nel bene e nel male, ora viene esasperato rendendo veramente drammatica l’esperienza carcere. È cambiata anche la legge, quella codificata, l’introduzione dei benefici per chi collabora con la giustizia ha spesso scardinato il muro di protezione che il detenuto aveva a disposizione, ma anche i benefici per buona condotta hanno provocato degli sconquassi. Non scontrarsi mai con gli operatori penitenziari, aderire positivamente ai programmi trattamentali di rieducazione dove viene richiesto un atteggiamento, almeno formale, contrario alla mentalità criminale, hanno dato spazio ad una grande ambiguità. A guardie e ladri si sono aggiunte le varie tonalità di quelli che aspirano ad anticipare la scarcerazione il prima possibile, al di là di un reale cambiamento di mentalità. Anche questo crea confusione e i paradigmi della cultura tradizionale non sono sempre in grado di affrontare la situazione. Il carcere di oggi ha comunque il compito di rieducare, ed anche gli agenti, da poco integrati nel trattamento, almeno alcuni, non hanno più lo stesso atteggiamento nei confronti dei detenuti, anche perché hanno a che fare con soggetti talmente diversi da non poter più avere sistemi di riferimento chiari e semplici. Il mondo del carcere vive in un isolamento tale da essersi creato una cultura a parteÈ cambiato un po’ tutto, almeno al nord, ma ci sono elementi della cultura del carcere che invece restano immutati. Io difatti penso che nella cultura del carcere siano importantissime le strategie di sopravvivenza in generale, non quelle legate all’identificazione del detenuto con il suo ruolo nell’ambito criminale. La privazione della libertà, attuata in ambienti molto ristretti, con limitazioni di ogni genere, sensate e non, ha prodotto tra chi vi era sottoposto usi, linguaggi, regole e strategie finalizzati alla sopravvivenza. Il linguaggio, in particolare, identifica chi il carcere lo conosce dagli altri, i vocaboli utilizzati sono esclusivi di questa realtà, ma non hanno solo riferimenti all’ambiente criminale ed a questioni losche, come sarebbe più naturale immaginare. "Liberante, permessante, lavorante od oziante, cellante" sono alcuni dei participi presenti classici con cui viene definito un detenuto secondo la sua posizione in carcere. Sono vocaboli presi dalla burocrazia e sono comprensibili nel loro significato solo se, a qualsiasi titolo, si è stati in carcere. In carcere poi il livello di istruzione, al di là di quello certificato, è veramente basso, ed anche qui la sopravvivenza ha portato ad assimilare nel linguaggio scritto tanta sintassi, non in maniera sempre corretta, della burocrazia penitenziaria e giudiziaria. Fare un inventario dei termini appartenenti al linguaggio del carcere è una bella impresa e ci si accorge facilmente di come questo mondo viva in un isolamento tale da essersi creato una cultura a parte. Al linguaggio poi si possono aggiungere le tecniche di cucina, l’abbigliamento, il modo di farsi il letto, le letture più diffuse, fino al modo di camminare. Se poniamo invece l’etica all’interno dell’ambito culturale, oggi non è più possibile parlare di questa come completamente slegata da quella della società dei liberi. Anche perché le nuove leggi hanno creato un varco con l’esterno che prima non esisteva. Mi riferisco ai benefici, alle possibilità di accelerare la scarcerazione contro le quali tanta opinione pubblica si scaglia invocando una maggior "certezza della pena". Queste possibilità sono state vincolate, nella gran parte dei casi, proprio all’adesione del detenuto alle "offerte trattamentali", alle attività rieducative per le quali, almeno formalmente, si deve adottare un’etica diversa da quella tradizionalmente criminale. Questo ha determinato un cambiamento notevole perché in molti hanno colto al volo l’utilità delle regole del mondo libero, almeno per quel che serve ad uscire prima dal carcere. Si può dire che, allo stato attuale, due etiche sono formalmente riconosciute, una per tradizione e l’altra per utilità, magari tra questi due confini c’è anche un po’ più di spazio per agire secondo coscienza, con maggior libertà. Oggi quindi ci sono le guardie, i ladri ed i ladri muniti di coscienza e ci si può trovare a parlare e discutere di tutto senza grossi drammi. La questione della cultura del carcere è abbastanza complessa, nelle nostre discussioni, com’è giusto che sia, emergono sempre posizioni diverse. Il senso di appartenenza a questo mondo è sempre molto forte, soprattutto quando si parla di omertà, reati da disprezzare, rapporto con le istituzioni, ma il fatto che si riesca a parlarne sempre più liberamente e senza tanti pregiudizi è il segno che la situazione è viva e neanche il carcere, per quanto chiuso ed isolato possa essere, riesce a congelare la capacità critica.
Proteste e silenziOccorre prima di tutto costruire unità e comunicazione tra i detenuti, e tra questi e la società
di Sergio Segio Di silenzio nel carcere si può morire. E in silenzio, al solito, si muore. Sette decessi in ottobre, di cui cinque suicidi, secondo il consueto dossier puntigliosamente e meritoriamente curato da "Ristretti", anch’esso consegnato all’attenzione dei soli e pochi attivisti e volenterosi. Un’attenzione che si supporrebbe invece dovuta da parte delle istituzioni, di chi ha il potere e il dovere di intervenire, di decidere, di cambiare, di prevenire. Così non è, e non da oggi, e non solo da noi. Parecchi anni fa il quotidiano francese "Le Monde" di fronte allo stillicidio di suicidi dietro le sbarre (la Francia è tra i pochi Paesi che battono l’Italia in questo triste record) decise di tenere il conto, registrando caso per caso sul giornale. Dopo un po’ smise: l’emorragia di vite continuava ininterrotta e a nessuno sembrava interessare. Non c’è la notizia: questa è la stampa, bellezza! Un’ennesima riprova di quanto sia robusta la cappa del silenzio e tenace l’indifferenza della politica è venuta in queste ultime settimane attorno alla protesta nelle carceri indetta dall’associazione "Papillon" a partire dal 18 ottobre scorso. Protesta che si è sviluppata a singhiozzo e a macchie di leopardo, con modalità, intensità e durata diverse e difficili da monitorare. E dunque non è semplice ora trarne un bilancio, riflettere su punti di forza e limiti dell’iniziativa, capire cosa di più o di diverso si potrà fare in futuro. Un futuro che appare sempre più fosco, anche per questo tenace silenzio mediatico e politico. Una constatazione che, pur se sconfortante, va fatta è che nessuno ha mostrato di prendere in qualche considerazione le richieste alla base dell’iniziativa, per come erano state avanzate dagli organizzatori: 1) il deposito di proposte di legge per un reale provvedimento di indulto e amnistia; 2) provvedimenti per ridurre la discrezionalità del giudice di sorveglianza nell’applicazione dei benefici previsti dalla Legge Gozzini; 3) misure per limitare l’abuso della custodia preventiva in carcere. Un particolare appello veniva poi rivolto alle Commissioni Giustizia di Camera e Senato in ordine ai tempi e agende dei lavori. Non si trattava di richieste particolarmente nuove o eccessive, come ha sottolineato la stessa "Papillon" nei propri comunicati: «Non stiamo chiedendo la luna». Eppure, sono state scarsissime le prese di posizione solidali nei confronti dei detenuti che hanno aderito alla protesta, tra cui va segnalata quella dell’associazione Nazionale Giuristi Democratici. L’unico, o quasi, segno di attenzione parlamentare è consistito in un’interpellanza urgente, la n. 2-01346 presentata il 26 ottobre 2004, con la quale i deputati Laura Cima e Marco Boato, richiamata «la mobilitazione pacifica dei detenuti di molte carceri italiane che protestano contro il sovraffollamento che non accenna a diminuire, contro i continui tagli all’assistenza sanitaria e alle risorse per l’Area educativa, contro la mancata applicazione della Legge Gozzini, della Legge Simeone e della Legge Smuraglia, contro l’eccessivo ricorso alla custodia cautelare», chiedevano al ministro della Giustizia «come il Governo intenda prendere in seria considerazione la critica situazione delle carceri italiane e far sì che vengano applicate correttamente le leggi vigenti che dovrebbero essere il punto di partenza per garantire condizioni umane di detenzione e rispetto della dignità di ogni persona». Settimane dopo, a protesta ormai quasi esaurita e a situazione carceraria di gravità inalterata e anzi crescente, il ministro ancora doveva rispondere all’interrogazione «urgente». E forse, tutto sommato, è meglio così, perché al danno costituito dalle condizioni di vita cui sono costretti i detenuti da un sistema penitenziario ingessato e al collasso, si sarebbe aggiunta la beffa di parole vuote o incentrate sulla costruzione di nuove carceri come toccasana. I detenuti non dispongono, purtroppo, di un’organizzazione "sindacale"Il silenzio uccide, ma può essere assai eloquente, oltre ogni ipocrisia o pacca sulle spalle. Quello emerso anche in tale occasione suggerisce delle riflessioni precise. Il problema e le difficoltà non sono relative alle "piattaforme" delle proteste, ma stanno decisamente a monte: anzitutto, nel grado decisamente scarso di consapevolezza e disponibilità alla mobilitazione da parte degli stessi detenuti e nel loro isolamento sociale. I quali detenuti non dispongono, purtroppo, di un’organizzazione "sindacale" (nonostante gli sforzi di volenterosi ma piccoli gruppi) e di una cultura "rivendicativa" capace di diventare motore di riforma e di innescare cambiamento. Del resto, rivendicare non basta. Non sono le "liste della spesa", degli obiettivi più o meno praticabili che possono supplire alla forza politica. Occorrono semmai un lavoro capillare di rete tra tutti i gruppi, associazioni e realtà impegnate, all’interno e all’esterno, sui temi carcerari, una strategia di alleanze e una capacità di comunicazione in grado di superare, assieme alle frammentazioni interne e a quelle etniche, la cappa del silenzio e, ancor prima, quella della riprovazione sociale. Non va sottovalutato, infatti, il passaggio dallo stato sociale a quello penale realizzatosi negli ultimi quindici anni, che determina una centralità delle politiche securitarie e di controllo sociale, e un consenso di massa alle stesse. È il motivo per cui, ad esempio, somme ingenti possono essere destinate al business edilizio nel mentre si sottraggono continuamente risorse alla tutela della salute in carcere, vale a dire a una questione di vita e di morte. Oppure alle intercettazioni telefoniche, per le quali gli stanziamenti hanno raggiunto cifre record impressionanti: 350 milioni di euro nel 2003. A proposito di soldi: nella Finanziaria 2005 un emendamento al bilancio ha stanziato ulteriori cinque milioni a favore dell’amministrazione penitenziaria «nell’ambito delle unità previsionali di base "Mantenimento, assistenza, rieducazione e trasporto detenuti"». E verrebbe da scommettere che sarà quest’ultima voce a beneficiare delle aggiuntive risorse: per l’amministrazione, in fondo, anche trasferire i reclusi è una misura di sfoltimento (ci sono giornalmente centinaia di detenuti in un "carcere viaggiante" che sfugge alle statistiche). E di contenimento minaccioso delle proteste. Esattamente come avveniva prima della riforma. Poi, grazie alle lotte dei detenuti, la riforma comunque è venuta. Oggi bisogna riflettere su come farla ripartire. Capendo però che prima di definire piattaforme rivendicative occorre costruire unità e comunicazione tra i detenuti, e tra questi e la società.
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