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I "non morti" del carcereSono quelli che stanno male, che tentano il suicidio, che si tagliano, e che vengono classificati come "eventi critici" nella vita carceraria. Spesso la "soluzione" è metterli nelle celle "lisce" o somministrare generosamente psicofarmaci: forse così non si suicideranno, ma è difficile dire che siano vivi
di Sandro Calderoni La definizione "cella a rischio" nel linguaggio corrente carcerario riguarda quelle stanze che sono adibite appositamente ad ospitare, all’interno di un istituto di pena, persone detenute che mostrano di non essere idonee al vivere collettivo del carcere, che stanno male o che si ritiene potrebbero tentare, o ritentare, il suicidio. La particolarità di queste celle è che sono completamente svuotate da tutto ciò che non è ben saldato al suolo o al muro, in pratica c’è solo la branda fissata a terra, e questo perché si dovrebbe evitare che il soggetto rinchiuso faccia gesti che potrebbero danneggiare la sua persona o altre con cui viene in contatto. Ciò comporta di conseguenza anche il divieto di tenere con sé molti oggetti di uso quotidiano, che siamo tutti abituati ad avere sempre a portata di mano, e che quindi, quando vengono a mancarci, ci creano sicuramente molti problemi in più. L’impossibilità di avere un armadietto per poter mettere i propri effetti personali, la mancanza di tavolo e sgabelli per scrivere e mangiare, dell’occorrente per radersi, il divieto di detenere accendini e sigarette, fornelli e bombolette di gas che li alimentano, per prepararsi un caffè o cucinarsi qualcosa, se da una parte sono tutti elementi che danno una apparente sicurezza, dall’altra rendono chi in queste celle deve vivere dipendente in tutto e per tutto dalla persona che è addetta alla sorveglianza. E da parte loro gli addetti alla sorveglianza, che in teoria dovrebbero cercare di dare una risposta, nei limiti del possibile, alle esigenze che si presentano a chi sta chiuso in queste celle, in pratica si limitano ad osservare che il soggetto controllato non dia in escandescenze e a soddisfare al minimo le sue richieste. Queste celle a rischio, dette anche "celle lisce", lisce perché prive di tutto, muri nudi e basta, causano sicuramente, a chi ha la sfortuna di finirci dentro, un fortissimo disagio, innanzitutto perché a entrare lì sono persone che già stanno male, e poi perché l’ambiente è notevolmente frustrante e degradante e anche perché, di solito, il metro usato per stabilire chi mandarci è "discutibile". Di solito, per chi finisce in carcere, il momento più critico è quello di "primo ingresso", quando si effettuano i colloqui con gli psicologi ed educatori, che dovrebbero cercare di alleviare il trauma della carcerazione, specialmente per chi entra la prima volta e si trova rinchiuso in un ambiente totalmente diverso dalla normalità del vivere all’esterno. Qui il "nuovo giunto" tende a sfogare la sua delusione e amarezza, vedendosi di fatto crollare il mondo addosso, e finisce per sperare solo che la persona con cui svolge il colloquio possa dargli conforto e una certa sicurezza. Ma invece quasi inevitabilmente, data la cronica carenza di personale specializzato, questa speranza nella maggior parte dei casi viene disattesa. Succede allora che, quando si presentano persone che di fatto richiederebbero maggior attenzione, a volte vengano messe in queste apposite celle per un periodo di osservazione. E si finisce per creare, di conseguenza, disagio su disagio. Immaginatevi una persona che in condizioni, diciamo, normali per questo ambiente, manifesta un suo stato di malessere e di depressione e che a volte, proprio per farsi sentire, arriva ad atti di violenza su se stessa e anche su altri, e immaginatevi che, per fermare questa persona e renderla incapace di nuocere a sé e agli altri, la mettano in queste celle. Immaginatevi poi questa persona lasciata nella maggior parte del tempo della giornata sola con se stessa, a combattere con le sue paranoie e i suoi spettri, senza la possibilità di ingannare il tempo con qualcosa che la tenga occupata. La noia e la routine che questi ambienti impongono rendono la vita insopportabile, al punto che ci sono persone che, se in un primo momento avevano compiuto un atto violento o un gesto autolesionista solo per avere attenzione ed essere ascoltate, possono arrivare ad uno stato di non ritorno che spesso sfocia in gesti estremi. Ma c’è un’altra "soluzione" a questo disagio estremo, oltre alle celle "lisce": ed è la vecchia abitudine di somministrare delle dosi massicce di psicofarmaci in modo da tenere il soggetto in uno stato di semi incoscienza, che, se da una parte risolve il problema sicurezza, dall’altra rende chi è sottoposto a questa terapia sempre più dipendente da questi farmaci e sicuramente più debole di fronte a qualsiasi difficoltà che dovrà affrontare. Il problema per lui, infatti, ora non è più quello di farsi ascoltare e affermare la propria presenza in questa vita, ma quello di mantenere lo stato di assenza di coscienza che l’assuefazione agli psicofarmaci gli ha portato. Se prima vi era una persona che, nonostante tutto, cercava di dare voce ai suoi problemi, che cercava, forse, qualcuno che potesse dedicargli del tempo, magari solo per ascoltare, che cercava, forse, una conferma per sentirsi una persona viva, ora quella persona non è giunta al gesto estremo, ma certamente è lì che vaga nel suo limbo, come uno zombi a cui hanno imposto di essere un "non morto".
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