Editoriale

 

Dateci almeno una sedia!

 

Provate a pensare a una giornata della vostra vita, provate a pensare a otto ore di lavoro seduti su uno sgabello di legno, alla sera tornate a casa e cenate seduti su uno sgabello, poi vi sentite stanchi, avete voglia di stendervi un po’, ma tutto quello che avete è uno sgabello. Se volete mettervi a guardare la televisione, avete a disposizione il solito sgabello. In alternativa non vi resta allora che il letto, una branda con un orrendo "materasso" di gommapiuma. E questo per un anno, due anni, dieci, venti. Anche questa è la galera, e non è un dettaglio da poco: significa rovinarsi la schiena, non trovar pace durante le ore da passare in cella (19, se ti va bene e sei impegnato in qualche attività come a Padova), dimenticarsi cosa significa la parola "comodo".

Nel nostro paese si può dire tranquillamente che la pena non è affatto solo la privazione della libertà, ma un’infinità di altre piccole pene inutili e ingiuste: dalla tortura dello sgabello, alla vita vissuta affastellati in celle sempre più strette per il numero di detenuti che sta lievitando di giorno in giorno, alla salute che è in pericolo anche se sei una persona sanissima, immaginarsi se ti ammali, e il carcere è causa esso stesso di malattia e luogo a rischio per eccellenza. 

E tutto questo succede nell’indifferenza generale. Sono due mesi che in molte carceri, su iniziativa dell’associazione Papillon di Rebibbia, sono in atto forme pacifiche di protesta contro questo stato di cose che hanno suscitato qualche attenzione i primi due giorni, e poi sono scomparse nel nulla del disinteresse più totale dei media, e di gran parte del mondo politico. Quando si è trattato invece dei permessi a Giovanni Brusca, lì lo spazio sui media è stato abbondante, ma mai per dire come stavano davvero le cose, e cioè che Brusca usufruisce dei benefici perché è un pentito, e che i Magistrati di Sorveglianza con i detenuti comuni sono di solito tutt’altro che Dame di San Vincenzo, come qualcuno li ha definiti, mentre con lui sono costretti ad applicare le nostre leggi emergenziali di cui nessuno ama parlare.

Anche nella Casa di reclusione di Padova, che è un carcere con livelli decenti di "vivibilità", o meglio di "sopportabilità" della galera, si respira un’aria pesante. Manca personale, ci sono tre educatrici  per settecento detenuti, i tempi di attesa per qualsiasi cosa sono eterni, e a questi disagi si aggiunge il forte cambiamento avvenuto nella composizione della popolazione detenuta tipica dei penali, ora si incontrano sempre più spesso detenuti con disagi di tipo psichiatrico, con scarsa conoscenza delle regole di "convivenza carceraria", con pene brevi e poca considerazione per chi ha anni e anni di carcere da farsi. E il fatto che la stragrande maggioranza dei detenuti abbia una “stoica” capacità di resistere in modo assennato all’insensatezza del sistema non basta a “tamponare” la situazione.

E così, sempre più spesso ci sono forme di conflittualità, esasperazioni, reazioni violente e ingiustificate, come alcune aggressioni a spese del personale, e in particolare quella del detenuto che ha di recente aggredito un’educatrice, alla quale, come a tutti gli altri che hanno subito una qualsiasi forma di violenza, esprimiamo di cuore la nostra solidarietà, non tanto, come dice qualcuno, “perché è una donna” e le donne non si picchiano in ogni caso, ma perché vogliamo a tutti i costi e in tutti i modi difendere unidea di carcere e di società dove mai e in nessun luogo si debba ricorrere alla violenza. La nostra, quindi, è una battaglia lenta, continua e convinta per una politica del confronto, una battaglia che va fatta anche con un buon uso delle parole: raffreddiamo allora, per favore, il linguaggio, usiamo la sobrietà, impariamo a capire che le parole più efficaci sono quelle asciutte, pulite, meditate, con le quali si può dire ogni cosa, anche la più sgradevole.

 

 

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