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Agli
affetti potevamo pensarci prima,
Ma nella vita capita che dai per scontato quello che hai vicino, e solo quando lo perdi ne capisci il valore
Quello che non capisco è perché si tende sempre a evitare, a nascondere, o a marchiare in modo pesantemente negativo le cose che danno fastidio, che scandalizzano. Così, quando si è cominciato timidamente a parlare di "stanze dell’affettività" in carcere, le hanno subito battezzate "stanze del sesso", beh certo a cosa potrebbero servire altrimenti? Fine… non se ne deve parlare più. Invece bisogna parlarne perché a chi sta in carcere e sconta una condanna, non è previsto che oltre alla libertà gli vengano tolti anche l’affetto, il calore e l’amore che la famiglia vuole trasmettergli. Ma si può trasmettere ben poco in una sala colloquio piena di gente, dove l’agente che vigila è pronto a battere sul vetro appena vede due mani che si cercano, si vogliono stringere, e tu allora cerchi di trattenerti dal farlo e intanto ti sforzi di sentire chi ti parla perché il chiasso è tanto, poi piano piano con fatica ti abitui a tutto, perché in carcere ci si abitua in fretta a una vita di convivenza forzata. Ma chi ti sta di fronte e viene da fuori, perché dovrebbe adattarsi a questo, e accettare il dolore, l’angoscia di doversene andare senza una carezza, oppure dando un bacio frettoloso sulla guancia e sperando che non ti dicano niente? Le stanze dell’affettività servirebbero soprattutto a questo, poter fare un colloquio a cuor leggero, serenamente, senza la tensione che c’è invece adesso. Mi piacerebbe che la smettessero un po’ tutti di trasformare in perverso e brutto quello che riguarda i detenuti e il loro desiderio di restare persone affettivamente e sessualmente "vive". L’amore in tutti i suoi aspetti abbiamo diritto di manifestarlo anche noi, è una necessità e va rispettata, non bisogna nasconderla ma viverla. Ho letto un articolo di Ristretti Orizzonti (marzo - aprile 2002) che parla del rapporto tra un detenuto con una pena enorme e la sua compagna, è toccante e sono sicura che molti invidieranno l’amore prorompente, intenso e completo che questa coppia ha vissuto. Ma sempre di amore "rubato" si tratta, perché per un detenuto vivere un rapporto d’amore vuol dire "rubare al carcere" dei momenti e dei gesti d’affetto che ti sarebbero negati e che tu cerchi invece di esprimere a dispetto di tutto. Per chi sta fuori è facile indicare a dito i colpevoli, fare i moralisti sulla pelle degli altri, si sente dire tante volte: "Adesso che sono dentro si ricordano e pensano ai genitori, ai figli, alla compagna, ma quando commettevano i reati, non ci pensavano al dolore che portavano loro!". Forse è vero, ma è anche vero, e questo vale per molta gente e non solo per chi è stato dietro alle sbarre, che nella vita dai per scontato quello che hai vicino, nessuno te lo porta via e così lo trascuri, è sbagliato certo, ma non è così facile riuscire a capirlo in fretta, alle volte è anche troppo tardi, ma se ci si riesce si finisce per arricchirsi dentro. C’è gente che, troppo indaffarata nel lavoro e stanca, alla sera non trova il tempo per parlare o giocare con i figli, non ha tempo per salutare un amico o andare a trovare un parente ammalato, non sono mancanze anche queste? Non è far soffrire anche quello? Non ho voluto incontrare mia figlia in carcere, proprio per timore di farla soffrire, ora che sono a casa potrei accompagnarla a trovare il papà, che è ancora detenuto, ma personalmente sono contraria, e lui anche. Il colloquio, come avviene oggi, è brutto per un adulto, figuriamoci per un bambino, le carceri come sono ora sono uno squallore, gli occhi trasmettono rapidamente al cervello le immagini, ma quelle poi rimangono nella mente, e un bambino ricorda più di un adulto. Se ci fossero delle stanze apposite per gli incontri sarebbe diverso, lontano da occhi indiscreti, senza la paura di venire richiamati. È troppo brutto oggi, per chi va a colloquio, dover rinunciare a un gesto dettato dal cuore solo perché potrebbe creare un danno a chi sta dentro. E pensare che un bacio, una carezza dati da chi ti ama farebbero invece vivere la carcerazione con una marcia in più; per non parlare dell’amore come atto sessuale, non posso negare che lo vorrei fare, e lo farei se ci fosse un posto adeguato, non sarei normale se non lo desiderassi, e invece si deve rinunciare a tutto, diventare freddi e duri, e questa è una violenza, una violenza a cui si dovrebbe porre fine.
di Patrizia Le donne della Giudecca parlano di: Sesso taciuto e negato, separazioni e divorzi ai quali, stando in carcere, è difficile sfuggire, colloqui in condizioni avvilenti
Svetlana, Gena, Sandra, Licia si domandano: ma chi può pensare che i colloqui bastino davvero a soddisfare il bisogno di amore di una persona detenuta?
L’affettività detta così è un termine generico che non ci piace.
Per noi affettività… sono gli affetti, quelli che ci mancano… sono i figli, la madre, il padre, le sorelle, i nipoti, il marito o il compagno. Già la libertà ci manca, anche gli affetti ci sono negati e non possiamo viverli in modo "normale". La struttura carceraria prevede, indicandoli come affettività, i colloqui, ma davvero si può pensare che "il colloquio è affettività"? Molte volte ci vergogniamo di andare al colloquio con i nostri familiari, tanto è triste e degradante il posto. L’ambiente, ovvero quella stanzetta spoglia che dovrebbe in realtà riunire un nucleo familiare o comunque delle persone accomunate da un legame di affetto, è nettamente diviso in due da un freddo "tavolaccio". Il tavolo è abbastanza largo da costringerci a faticare per poterci tenere strette le mani. Il tutto dura un’ora e due volte al mese si possono fare due ore. E siamo già fortunate se il turno del colloquio l’abbiamo insieme a nostre compagne abituate a parlare con voce pacata (come noi), se ci capita il turno con qualcuna capace solo di esprimersi a voce alta è un disastro. Quell’ora a settimana, in condizioni così assurde, a noi dovrebbe bastare per sopperire a tutti i nostri bisogni di affetto e alla necessità di comunicare con le nostre famiglie, o comunque con le persone a noi vicine. Senza contatti fisici, senza gesti affettuosi, senza carezze, senza un bacio, perché tutto questo non è previsto dai regolamenti. La realtà poi è ancora più cruda: del tempo consentito, quasi la metà viene trascorsa da entrambe le parti a cercare di camuffare quella sorta di imbarazzo, di disagio che inevitabilmente si viene a creare, poiché le persone che si incontrano solo in carcere perdono ben presto l’abitudine a comunicare in maniera reale e non distorta dal luogo in cui si trovano; il tempo restante è insufficiente per riuscire ad esprimere le proprie emozioni, soprattutto sotto l’occhio vigile di telecamera ed agenti.
Un altro problema molto importante è il sesso, o meglio la mancanza di sesso. Vorremmo cominciare dicendo che sappiamo molto bene cosa si può pensare da "fuori": "Che cosa vogliono? Mangiano, bevono, hanno la televisione… e che cosa pretendono ancora? Anche il sesso?" È vero, noi abbiamo sbagliato, ed è giusto che paghiamo i nostri errori, però quello che noi vogliamo è pagare, soffrire, e riscattarci con dignità. Per noi, forse sbagliamo, dignità vuol dire tentare di vivere questo momento del carcere in modo costruttivo, cercando una specie di riscatto, ma avere una vita affettiva "normale" per quel che è possibile sarebbe un aiuto a migliorare noi stesse. Il sesso non è solo un bisogno fisiologico e sicuramente noi non chiediamo il sesso a ore. Quello che chiediamo con dignità è la possibilità di avere dei colloqui con i nostri familiari e il nostro compagno, in un ambiente e in un contesto sereno, senza i controlli visivi degli agenti e per un arco di tempo sufficiente a consentirci di coltivare i nostri rapporti affettivi e sessuali in modo costruttivo. Stare forzatamente senza sesso vuol dire anche diventare più aggressive, star male, sentire di più il bisogno di "terapia". E vuol dire anche che, dopo tanti anni, quando siamo fuori abbiamo paura di andare con un uomo e di vivere una storia d’amore senza angoscia.
Patrizia ed Emilia raccontano il "percorso a ostacoli" di un familiare che arriva a colloquio
All’entrata in Istituto ai familiari viene fatta la perquisizione personale, dopo di che vengono accompagnati nel locale adibito a colloquio, che fino a poco tempo fa era quasi interamente occupato da un bancone, diviso in due da un vetro per tutta la sua lunghezza, che è poi la lunghezza complessiva della stanza (circa 5 metri). In alcune carceri il vetro divisorio non è ancora stato tolto, come prevede il nuovo Regolamento. Questi colloqui vengono controllati a vista da un agente che si trova nello stesso locale, ma separato da noi da una vetrata. Contemporaneamente all’entrata dei familiari viene avvertito l’agente addetto alla Sezione, che deve a sua volta avvertire la detenuta di prepararsi per il colloquio. Prima di scendere la detenuta viene perquisita e poi accompagnata in sala colloqui, e se ha la fortuna di avere già i familiari in attesa riesce a fare l’ora di colloquio per intero come prevede il regolamento, altrimenti perde 5-10 minuti non recuperabili, e infatti, o per disattenzione da parte delle agenti, o per ritardo nell’avvisare dalla portineria, succede spesso che l’ora prevista non viene interamente effettuata dalle detenute. Il problema è che è molto difficile poter recuperare i 5-10 minuti persi, in quanto tra un’ora e l’altra di colloquio c’è uno stacco di 10 minuti, che serve all’agente per fare uscire chi ha già effettuato il colloquio e fare entrare ì successivi. E anche questo è un piccolo "furto" di affetto. La stanza colloqui non ha molti posti, ma al sabato, giornata scelta dai familiari per motivi di lavoro o di studio, ci si ritrova anche in 8-9 persone nella stanza, per cui si può immaginare che tipo di colloquio si effettua: 9 detenute che aspettano con ansia il giorno del colloquio per poter parlare con i propri cari e scambiare un abbraccio affettuoso, e una ventina di familiari che hanno comunque lo stesso desiderio, e tutti nell’impossibilità di avere un incontro decente, in quanto c’è sempre chi ha la voce più grossa, per cui sovrasta le altre voci senza dare la possibilità alle proprie compagne di parlare. Dove poi c’è ancora il divisorio, se solo ti azzardi ad alzarti dallo sgabello per avvicinarti e sentire quello che i tuoi familiari dicono, vieni ripresa subito e fatta sedere dall’agente, perché non permetti a lei la visuale su tutta la stanza. Forse potrebbe solo spostarsi leggermente lei, controllando così meglio tutta la situazione, forse il problema è che dovrebbe stare in piedi invece che seduta, ma questo non succede, e a noi non è permesso di reagire, perché potrebbe scattare il rapporto, che poi ci toglie i 45 giorni di liberazione anticipata, oppure la sospensione del colloquio. Ai detenuti è permesso ricevere 4 pacchi al mese (generi alimentari e vestiario) di 5 KG l’uno, molto spesso la nostra scelta viene fatta solo sul vestiario, anche perché con i generi alimentari succede che all’entrata in portineria c’è l’agente addetto a perquisire i pacchi, e c’è chi con umanità svolge il proprio lavoro, e invece chi perquisisce facendo delle fette di salumi un blocco unico che si potrebbe benissimo utilizzare per giocare a palla. I formaggi poi vengono tagliati a quadratini, alcune merendine vengono schiacciate e senza nessun criterio capita anche che tutto venga messo in mezzo al vestiario pulito portato dai familiari. Purtroppo non basta il fatto che i familiari stessi provvedano a tagliare a fette e mettere negli appositi sacchetti trasparenti i generi alimentari, per facilitare la perquisizione. All’uscita dal colloquio ai familiari non viene fatta la perquisizione, mentre alle detenute sì. A volte poi viene fatta una perquisizione più approfondita, bisogna cioè spogliarsi nude e fare le ben note flessioni. In certi istituti, che ospitano mamme con bambini, esistono i colloqui speciali, cioè stanze senza divisorio con tavolini e sedie, per dare la possibilità ai bambini di avere un contatto più diretto con la mamma e il papà. Alcune volte, per mancanza di personale, succede che anche le detenute che non hanno figli minori possono usufruire di questo colloquio speciale. Ma capita anche che chi, per una evenienza particolare (compleanni o ricorrenze) chiede alla Direzione l’autorizzazione a usufruire di questo colloquio speciale per sentirsi più vicino alla propria famiglia, se lo vede negato con la motivazione che "non ha figli minori".
Sara propone un’inchiesta che nessuno ha mai fatto: perché non andiamo a vedere quante separazioni, quanti divorzi sono conseguenza della carcerazione?
In questa Italia dove ogni giorno si fanno delle inchieste, vorrei proporne una io: perché non si porta a conoscenza di tutti i cittadini quante separazioni, quanti divorzi delle persone detenute hanno come causa la mancanza di affetto e la negazione della sessualità? L’affetto non è fatto solo di strette di mano o di semplici baci dati furtivamente nelle sale dei colloqui, e questa privazione anche di piccoli gesti, che, all’inizio della detenzione, costituisce un "disagio", si moltiplica poi per mesi o anni, secondo la pena a cui siamo state condannate o semplicemente per la lunghezza infinita dei processi, e diventa ben presto intollerabile. Vorrei rivolgermi alle persone che per scelta o per fortuna non si sono mai scontrate con la giustizia e non conoscono la realtà del carcere: provate a immedesimarvi in un parente di una persona detenuta e pensate a cosa vuol dire privarvi per un anno, due anni, tre, o chissà quanti ancora, di quell’affetto completo che è il pilastro portante che sorregge l’amore: è evidente che anche la più ardente passione si spegnerà lentamente. Invece, se sarà varata questa legge sull’affettività, anche se momentaneamente si è costretti a vivere separatamente, l’unione familiare non sarebbe interrotta e si potrebbero evitare le tragiche conseguenze che derivano da una separazione forzata: prima di tutto per i figli che innocentemente subiscono forti traumi psicologici, poi per il genitore detenuto che avendo le mani legate non può tentare di risanare la situazione. Giorno dopo giorno si perde anche quel poco di tranquillità che è rimasta, si diventa irascibili, arrivando per sfogo all’autolesionismo, all’aggressività verso gli agenti, verso i compagni. E capita che qualcuno arrivi anche al suicidio. Per evitare che succedano queste tragedie familiari, deve essere annullata questa tortura psicologica della negazione degli affetti. Nessuna pena accessoria deve ricadere sulla famiglia, sulle persone care, come succede invece quando si vieta l’affetto completo con l’appagamento sessuale, distruggendo la felicità che scaturisce dall’unione familiare. Questa è una pena a cui nessun giudice "terreno" può condannarci. Siamo nell’anno 2002, facciamo parte dell’Unione Europea con altre nazioni che da tempo hanno permesso colloqui intimi in carcere (Svezia, Danimarca, Olanda, Spagna, Germania, Belgio e Lussemburgo), speriamo che anche in Italia riconoscano questo diritto e non ci lascino questa pena che ci condanna per tutta la detenzione a trovare l’appagamento sessuale da soli, e quindi, ci avvilisce e a poco a poco ci rende dei robot senza sentimenti.
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