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Un amore che riesce a riempire la vita Il delicato equilibrio di un legame tra una donna “libera” e un uomo in gabbia Ma è una storia difficile, stretta tra la galera e la libertà
di L. S.
Nel 2005 scelsi di svolgere le 400 ore di tirocinio previste dal mio corso di laurea nella Casa di Reclusione di Alghero, in cui entrai con tutto quel bagaglio di pregiudizi che ci vengono trasmessi dai media, con le loro informazioni che vanno in un’unica direzione, che non è certo quella di tentare di sensibilizzare l’opinione pubblica. Non sapevo nulla del carcere, se non quello che sanno tutte le persone “comuni”, ovvero che è un luogo dove vengono rinchiusi i “delinquenti”. Non sapevo niente di ciò che fanno i detenuti all’interno dell’istituto, ma soprattutto non sapevo che molti avessero alle spalle storie di vita difficili, ambienti familiari e sociali degradanti. Certo, qualcosa l’avevo letta su vari manuali di psicologia sociale, pedagogia della marginalità e della devianza, ma avvicinarsi a questa realtà è altra cosa. Quando incontrai i primi detenuti, durante l’inizio del tirocinio, l’educatore che seguiva il mio percorso mi domandò quale era stata la mia impressione: io risposi semplicemente che non me li immaginavo così. Erano persone “normali”, erano persone come me. Non avevano dei visi che intimorivano, degli sguardi cattivi. Naturalmente c’erano anche persone che, proprio come accade nella vita di tutti i giorni a ciascuno di noi, “a pelle” non mi piacevano. Ma io non ero lì per giudicare, ero lì per tentare di capire. Il tirocinio durò circa cinque mesi e, proprio qualche giorno dopo la conclusione, ci sarebbe stata una processione alla quale avrebbero partecipato anche alcuni detenuti, e io decisi di andare a salutarli. Ci andai con il ragazzo con cui convivevo da quando avevo vent’anni, ma con la convinzione che ormai l’amore tra noi era finito, anche se ci legava un profondo affetto e la speranza che le cose un giorno si sarebbero sistemate, che quei sentimenti, ormai inesistenti, sarebbero esplosi nuovamente. Le favole sono diverse dalla vita reale, ma avevo bisogno di crederci perché ero molto sola e lui era il mio unico punto di riferimento. Durante la processione il mio ragazzo decise di tornare a casa, io invece rimasi, dovevo salutare quelle persone. Uno di loro mi disse che qualche giorno dopo sarebbe andato in permesso in una casa-famiglia e che, se mi avesse fatto piacere, sarei potuta andare per scambiare quattro chiacchiere. Fin da bambina, mi porto dietro il terribile difetto di non saper dire di no per paura che l’altro possa restarci male: non riuscii, quindi, a dirgli di no, nonostante l’idea non mi entusiasmasse. Di cosa mai avremmo potuto parlare? Non mi sembrava una persona particolarmente interessante e la sua richiesta, seppur fatta con molta educazione, mi era parsa piuttosto sfacciata. Non potevo immaginare che quella “visita di cortesia” mi avrebbe rivoluzionato la vita. Qualche giorno dopo mantenni la mia promessa. Lui mi venne incontro e mi salutò con due inaspettati baci sulle guance: pensai di non essermi sbagliata a considerarlo sfacciato. Decisi di capire qualcosa di più di lui e delle sue esperienze, di pormi quasi da “educatrice”, invitandolo a raccontarmi un episodio della sua infanzia. Lo ascoltai con molta attenzione e anch’io gli parlai di me. Ma come poteva un ragazzo così, un ragazzo che mi sembrava sensibile, profondo, di animo generoso, aver sbagliato così tanto? Io di lui sapevo solo che si chiamava P., che aveva 37 anni e che era in carcere dal 1994 per scontare una condanna a 28 anni per omicidio. Prima di andare a trovarlo, ero convinta di farlo per dovere, una volta e basta, invece tornai anche il secondo giorno, il terzo e il quarto. Quel giorno però accadde qualcosa che non avevo assolutamente messo in conto. Ricevette una chiamata da un amico e, improvvisamente, mi passò il telefono. Lui si sedette accanto a me, tenendomi la mano ed io cominciai a comprendere ben poco sia di ciò che il suo amico mi stava dicendo, sia di ciò che stavo dicendo io stessa. Fui assalita da vampate di calore fortissime, la sensazione durò fino a quando P. mi mollò la mano. Da quel momento, nel mio modo di vederlo, qualcosa cambiò. Ci scambiammo i numeri di telefono e ci salutammo. Arrivai a casa e dopo qualche minuto ricevetti un sms di P. in cui mi diceva che preferiva non rivedermi più. Quella decisione però non mi stava bene. Tentai di chiamarlo ma il suo cellulare era spento. Quando l’indomani rispose, confermò le sue posizioni. Mi arrabbiai, non capivo perché volesse interrompere in quel modo un’amicizia appena cominciata. Stavolta spensi io il cellulare per tutta la sera, ma non feci altro che pensare a lui e al fatto che non volevo perderlo. Nemmeno io sapevo spiegare a me stessa il perché di tanta ostinazione a non voler lasciare andare una persona che conoscevo da appena 5 giorni. Allora riaccesi il telefono e P. chiamò: era dispiaciuto perché forse aveva rovinato quello che poteva diventare un bel rapporto. Io mi misi a piangere, lui mi chiese di raggiungerlo alla casa-famiglia ma io non andai. Fu una telefonata strana, eravamo due amici o due ragazzi che si stavano innamorando l’uno dell’altra? Ero attratta da lui, ma dovevo cercare di essere razionale. Cosa avrei detto al mio ex che continuava a sperare in un “ritorno di fiamma”? Ed a tutte quelle persone, quei professionisti, che avevo conosciuto al tirocinio e che non avevano fatto altro che ribadirmi che la professionalità era la cosa che più contava? Ma allora dovevo rinunciare, all’età di 25 anni, a quelle emozioni che sentivo vicino a lui? Ero molto combattuta. Il mese seguente mi recai alla casa-famiglia per chiedere quando P. sarebbe uscito in permesso: mi dissero che sarebbe uscito il giorno dopo. Quella notizia mi cambiò la giornata: ero felice, l’indomani lo avrei riabbracciato.
Una storia rafforzata dalle difficoltà che ha incontrato
Lo aspettai, in macchina, davanti al carcere. La sua gioia ed il suo stupore insieme furono visibilissimi. Appena salii in macchina mi abbracciò forte. Io non seppi dire una parola, l’emozione non mi permetteva di parlare. Andammo in un posto tranquillo: volevo parlargli, dovevo parlargli. Gli presi la mano, esattamente come quel giorno lui aveva fatto con me, e cominciai a rivelargli tutti quelli che erano stati i miei pensieri in quel mese in cui non ci eravamo visti, cercando di calibrare le parole per fargli capire che la mia non era una proposta di matrimonio, e però nemmeno una banale cotta, ma molto di più. P. si meravigliò molto e mi disse di essere un detenuto e che non poteva offrirmi nulla. Lo interruppi dicendogli che non era vero che non aveva niente da offrirmi, ma che dentro di sé aveva un mondo stupendo. Da quel momento i nostri atteggiamenti mutarono: i nostri sguardi si cercavano molto più esplicitamente, così come le nostre mani, anche se entrambi eravamo visibilmente bloccati. Gli avevo spiegato che nonostante la voglia di baciarlo, che cercavo di reprimere, un bacio tra di noi non ci sarebbe dovuto essere perché io vivevo ancora col mio ex, che aveva delle speranze su di noi. Al momento di salutarlo, lo abbracciai forte e le mie labbra si trovarono ad un soffio dalle sue; la tentazione fu più forte di me: gliele sfiorai, ma il bacio non ci fu. Il giorno dopo decisi di portarlo al mare, più volte mi aveva detto che gli piaceva molto. Andammo in una splendida caletta al Lazzaretto: l’acqua del mare era più che cristallina. Si sedette su un asciugamano, ma io non osai andargli vicino. Mi disse di avvicinarmi, io mi inginocchiai di fronte a lui e, inaspettatamente, mi tirò verso di sé e finii sdraiata su di lui. Tra le sue braccia ero completamente a mio agio, ma P. sapeva che già quei baci e quelle carezze non ci sarebbero dovuti essere e, nonostante la sua lunga deprivazione sessuale, dovuta agli 11 anni di carcere fino a quel momento scontati, si fermò lì. Era cominciata la storia di L. e P., una storia che ancora oggi, a due anni di distanza, non ha un lieto fine, ma le complicazioni che attraversa hanno decisamente rafforzato quest’unione. In quei giorni pensai solo a me e a P., ai pochi momenti che ci restavano da trascorrere insieme, al sentimento che stava nascendo dentro di me, senza pensare a quello che mi avrebbe atteso se avessi deciso di portare avanti una relazione con lui, a tutti i sacrifici, le rinunce, forse le umiliazioni. Inizialmente non dissi niente al mio ex, volli pensare, per la prima volta nella mia vita, soprattutto a me. Dopo quei 5 giorni trascorsi con P. il mio futuro era più incerto che mai. Alla fine però decisi di dirgli la verità, che lui prese malissimo, tanto che io decisi di rinunciare alla mia storia con P. Il mese successivo P. appena uscito in permesso mi chiamò subito, e io senza troppi giri di parole gli comunicai la mia decisione, aggiungendo che ne avrei comunque voluto parlare di persona. L’indomani lo incontrai per consegnargli la lettera, cominciai a leggerla, ma non riuscivo a smettere di piangere. Nonostante il sentimento che provavo per lui non volevo deludere chi aveva fatto tanto per me. Era una follia, lo sapevo anche allora. P. non condivideva le mie motivazioni e in fondo nemmeno io ero convinta di portare fino in fondo una scelta, che andava contro la mia felicità, dettata soltanto dalla riconoscenza e dalla gratitudine per il mio ex. P. per me era quel treno che passa una sola volta nella vita e io stavo decidendo di non salire. Ma i sensi di colpa nei confronti del mio ex erano talmente forti, che decisi ancora che quella di non vederlo mai più sarebbe dovuta essere la decisione definitiva, e cercando di non piangere lo comunicai a P. L’indomani P. si fece vivo con un sms: “Sarà dura per me ora che non ci sarai più tu ad aspettarmi”. Le sue parole mi toccarono profondamente. Più tardi lo chiamai, non riuscivo ad allontanarmi da lui. Mi disse che anche lui aveva preso una decisione ma non accennò a nulla, spiegandomi che non mi riguardava ora che avevo deciso di seguire una strada diversa dalla sua. Avevo uno strano presentimento, temevo che P. avrebbe potuto fare qualche sciocchezza. E infatti poco prima delle 23.00 squillò il mio cellulare: era P., com’era possibile? Mi disse di non essere rientrato in carcere, di aver fatto una stupidaggine e di non essere più in tempo per porvi rimedio. Mi arrabbiai, gli dissi che si stava prendendo gioco di me per farmela pagare per come lo avevo trattato. Mi disse: “Ciao Amore”, e riattaccò. Passai un’altra notte insonne. La mattina seguente ricevetti una chiamata inaspettata: “La signorina L. S.? Sono il maresciallo dei carabinieri”… Voleva sapere se avessi visto o meno P. il giorno prima, confermandomi il mancato rientro. Lo raggiunsi in caserma e gli spiegai molto sinceramente quello che era successo tra me e P., che fortunatamente mi chiamò ancora e chiamò anche in carcere per avvertire di ciò che aveva fatto. Purtroppo il danno era piuttosto grave: si era imbarcato su una nave diretta a Genova, non aveva soldi e comunque non sarebbe potuto rientrare se non il giorno dopo, il tempo previsto per la tratta Genova-Porto Torres. Era disperato, mi disse di essere consapevole di aver perduto i benefici, e soprattutto di sapere che, ora, la galera se la sarebbe fatta tutta. Mi chiese di andare al porto perché avrebbe voluto vedermi per l’ultima volta. Gli promisi che sarei andata. Ma quella notte presi un’altra importante decisione: sarei sì andata al porto, però non per vederlo l’ultima volta, non per dirgli addio ma per dirgli che lo amavo e che gli sarei stata accanto, e non mi sarebbe importato se avessi dovuto aspettarlo per anni, avrei affrontato questa situazione insieme a lui. Il lunedì mattina alle 6.00 ad aspettarlo al porto, oltre ai carabinieri, c’ero anch’io. Lo vidi scendere dal traghetto, avrei potuto riconoscerlo tra altre mille persone. Era distrutto. Cominciò a venirci incontro, io iniziai a correre, dribblai un addetto alla sicurezza e mi gettai tra le sue braccia. Lo strinsi forte, gli dissi che lo amavo e che lo avrei aspettato, ma lui faceva resistenza, mi disse che era finita, che per lui era finita.
Il suo passato continua a farmi soffrire
Sul giornale venne pubblicato un articolo ridicolo. Il titolo era: “Invece di rientrare in cella prende una nave” e P. veniva descritto come un criminale pericoloso. Mi sembrava di vivere in un film: era proprio l’uomo che amavo il personaggio che veniva descritto? Nel giornale si parlava di una vera e propria fuga di un delinquente ricercato e poi arrestato con successo. Mio Dio! Ma io sapevo bene che la vicenda non si era svolta in quel modo. Se P. avesse voluto fuggire perché mai avrebbe dovuto chiamare in carcere per avvisare di ciò che aveva fatto? Ma sull’articolo di quel bravo giornalista non c’era neppure un accenno a queste telefonate. Da quel momento cominciò il mio calvario. Passavo le mie giornate a piangere e scrivere lettere. Inizialmente le mie lettere non gli venivano nemmeno consegnate, lo venni a sapere in seguito, “ufficiosamente”, immaginandomi la sua disperazione. Stava quasi rivivendo la medesima situazione di 11 anni prima. Feci la richiesta per poterlo andare a trovare a colloquio: l’autorizzazione sarebbe arrivata 8 mesi dopo. In quel periodo cominciai a fargli delle domande sul suo reato ottenendo risposte ambigue che mi insospettirono. Ma io avevo bisogno di sapere chi era l’uomo che amavo e senza dirgli nulla diedi il via ad una ricerca sul suo passato attraverso quotidiani archiviati nelle biblioteche. Leggevo, ma non volevo crederci: la vittima era una donna, uccisa in seguito ad un tentativo di rapina. Non era possibile, l’uomo che mi aveva fatta innamorare non poteva essere l’autore di quel reato. Non riuscivo a continuare. Ma i giornalisti, si sa, tendono ad accentuare alcuni particolari per rendere le notizie accattivanti, per cui decisi di andare alla Corte d’Appello e leggere la sentenza di condanna. La lessi molto attentamente per ben due volte; dovevo trovare qualcosa a suo favore, fino alla fine non volli accettare la realtà ma dovetti arrendermi. Reagii malissimo nei suoi confronti. Mi sentivo tradita: avrebbe dovuto parlarmene. Ero furiosa e cominciai a scrivergli una serie di lettere terribilmente offensive, gliene dissi di tutti i colori. Il dolore che provavo era immenso. Non riuscivo a capacitarmi di come potevo essermi sbagliata così tanto, quello che avevo scoperto era troppo grave per me. Volevo rompere con P., ma per quanto mi sforzassi di dimenticarlo dovevo ammettere a me stessa che l’amore dentro di me era incredibilmente grande, e così trovai la forza per andare avanti, al suo fianco. Fui costretta per la prima volta a mettere in discussione tutti i valori nei quali avevo sempre creduto e che avevano guidato i miei comportamenti. Il passato di P. continua a farmi soffrire ma, ora, tutte le volte che sto male per questo motivo, ne parlo con lui e superiamo insieme un problema che forse si presenterà sempre. Ne parliamo con molta tranquillità, perché entrambi abbiamo l’assoluta intenzione di andare avanti insieme, affrontando i problemi senza schivarli. Ciò che lui è stato in passato non può cancellare ciò che è diventato oggi. È un uomo straordinario, è l’uomo della mia vita. Il passato non si può cancellare ed è giusto così, anche nel rispetto di chi, per colpa degli errori degli altri, non è più a questo mondo. Per ora posso andare da lui quattro volte al mese: vivo solo in funzione di quei giorni, di quelle brevissime ore. Ma vivo anche aspettando il nostro futuro insieme; per ora io e P. abbiamo deciso di sposarci, sperando nella possibilità che il magistrato di sorveglianza gli conceda di trascorrere qualche giorno con me, per stare finalmente insieme, anche sessualmente. Non penso che sia una vergogna per due persone che si amano: è un bisogno viscerale. Mi fa soffrire stare lontano da lui, saperlo chiuso in gabbia, non potergli dare tutto l’amore che merita. E i colloqui in carcere mi obbligano a fare un’accurata selezione di ciò che devo e voglio dirgli e il risultato è sempre deludente. E poi ricomincia un’altra settimana di attesa, di logorante attesa. Fortunatamente, in estate, nel carcere di Alghero, i colloqui si fanno nell’area verde, lì riesco a essere un po’ più me stessa, possiamo stare molto più vicini e darci qualche breve bacio. Trovo pazzesco che due persone adulte e innamorate debbano temere di essere riprese ed ammonite perché stanno manifestando i propri sentimenti, il desiderio l’una per l’altro. Lo trovo pazzesco ed umiliante. Quando si ama qualcuno lo si vuole urlare al mondo intero. Mi dispiace tanto per le persone che mi hanno giudicata e che ancora mi giudicheranno, mi dispiace perché nella loro vita manca, probabilmente, ciò che invece è presente nella mia: un amore che riesce a riempire la mia vita nonostante il dolore ad esso, inevitabilmente, collegato. Oggi io e P. siamo più uniti che mai e, anche se ai colloqui non si riesce a trasmettere tutto quello che si vorrebbe, a noi bastano i nostri sguardi e i lievi sospiri dei nostri baci per capire tutto ciò che entrambi vorremmo dire.
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