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La “questione ergastolo” Esclusi dalla vita, ma condannati al dovere di esistere Che significato ha una reclusione che sta assumendo il solo senso di una lenta tortura?
di Stefano Bentivogli
Mi è capitato davvero troppe volte, anche da parte di persone che ho sempre considerato aperte, sensibili, sentire invocare la pena dell’ergastolo per certi delitti. E non si parlava dell’ergastolo, come prevede la legge italiana, che si può comunque trasformare, dopo molti anni di carcere, tramite la liberazione condizionale, in una sorta di libertà vigilata, quindi in scarcerazione: si chiedeva una reclusione che finisse con la vita del condannato. Ho sentito di recente una dichiarazione del figlio della coppia di anziani di Gorgo del Monticano, brutalmente uccisi e seviziati dai rapinatori che si erano introdotti per svaligiare la villa nella quale i due lavoravano come custodi. Il figlio, riguardo la pena da applicare ai rapinatori, sosteneva di preferire l’ergastolo alla pena di morte, perché uccidere subito non consente di infliggere una sofferenza sufficiente ai colpevoli, meglio l’obbligo a morire in carcere rimanendoci fino alla fine dei propri giorni, senza alcuna speranza di uscire: questo gli sembrava sicuramente più appropriato. Vista la dinamica dei fatti ed il poco tempo trascorso dal delitto, la sua è una dichiarazione comprensibile, e se provo a capire i suoi sentimenti, non mi sento assolutamente di giudicarlo. Diverso è quando invece, pur non essendo coinvolti personalmente in fatti del genere, si invoca l’ergastolo proprio con queste stesse motivazioni, coprendole magari proprio con un’aura di benevolo rispetto del valore della vita. In questi giorni è tornata di nuovo alla ribalta la “questione ergastolo”, proprio perché un condannato a questo tipo di pena, ammesso al regime della semilibertà, ha commesso una rapina. Di ergastolo si parla quindi, e lo si fa in momenti alterni, mescolando quanto è relativo al significato di una pena come questa, agli inevitabili sentimenti dei parenti delle vittime di certi gravi reati, ai rari episodi – perché sono veramente tali – di ergastolani che, ammessi a misure alternative alla pena, tornano a delinquere. Ma di ergastolo, o meglio di abolizione di questo tipo di pena, si è parlato anche in occasione della proposta di riforma del Codice penale della Commissione Pisapia. Si prospetta, nell’intenzione della riforma, non più una “pena a vita”, bensì una pena massima, che però contiene a conti fatti meno possibilità di scarcerazione della legge attuale, e ipotizza invece la possibilità di passare da un “fine pena mai” ad un fine pena ben definito dopo circa 38 anni di galera. Forse si è tenuto conto dell’allungamento medio della vita degli italiani… C’è, come al solito, molta confusione, tanto che come si comincia a parlare si arriva sempre a non definire e decidere niente. Il senso di mantenere ancora oggi una pena, il cui nome si traduce con “carcere a vita”, purtroppo è a tutt’oggi quello che il figlio della coppia assassinata spiegava, perchè non c’è più bisogno di togliere la vita, anzi, forse non conviene più, è più efficace mantenerla accesa in corpi intrappolati, giorno dopo giorno, nella logica di una pena, e quindi una sofferenza, infinita, che finisce solo quando finisce la vita: cosa c’è di più terribile? Eppure in molti c’è il vezzo di invocare l’ergastolo, e non la pena di morte, perché sembra più civile, si arriva addirittura a sostenere che deve essere così perché il valore della vita è sacro, inviolabile e, soprattutto, che la legge dello Stato non deve rispondere ai reati usando gli stessi mezzi di chi delinque, non risponde quindi alla morte con altra morte.
Sono in tanti a volere che certi reati vengano risarciti con la vita intera in carcere
Intanto è sempre più ricorrente il dire che l’ergastolo dovrebbe essere veramente il carcere a vita e basta, ossia che ci sono reati per i quali non deve esistere la possibilità di riconsiderare l’effettiva pericolosità sociale del condannato e quindi ipotizzarne la scarcerazione. La pena deve esplicare solo la sua funzione risarcitoria, si dice, e certi reati vanno risarciti con la vita intera in carcere, anche se tutti si accorgono, se trovano il tempo e il senso di riflettere, che non c’è niente di più vano del risarcimento, proprio per certi reati. Tutta la vita deve essere trascorsa dietro le sbarre, isolati dal mondo, fino all’ultimo istante. Esclusi dalla vita, ma condannati al dovere di esistere solo per essere deterrente, monito per tutti, simbolo della forza della legge. Se penso a casi come Vito De Rosa, graziato dopo oltre 50 anni di carcere, ho la sensazione che di queste persone nella gran parte dei casi ci si dimentichi, oppure che, in altri casi, la funzione di deterrente che queste pene assumono sia assolutamente secondaria. C’è piuttosto l’incapacità e la non abitudine a mediare i conflitti che questi casi suscitano, e quindi la necessità di assecondare in maniera acritica la richiesta di un infinito pubblico supplizio dei colpevoli. Proprio l’incapacità delle istituzioni di essere veramente utili alle vittime di gravi reati di sangue motiva la gran parte delle lunghe carcerazioni, almeno di quelle dove sembrano inutili azioni di revisione da parte della magistratura in merito alla reale pericolosità sociale. Oggi comunque parecchi condannati all’ergastolo, quando si avvicinano ai trenta anni passati in carcere, ottengono la scarcerazione per concessione della liberazione condizionale. Se però qualcuno di questi torna a delinquere, e in realtà si tratta di casi veramente rari, subito si levano le grida della peggior propaganda forcaiola. Si riparte col solito dire che, va bene che non è “giusto” uccidere gli autori di certi reati, ma comunque l’ergastolo deve venire applicato nel senso letterale come carcere a vita. Non dappertutto, ma in altri Paesi funziona in maniera diversa. Non ci sono leggi così rabbiose da decidere la morte in galera nel momento in cui la fase del giudizio si è conclusa, e le pene massime sono inferiori alle nostre. Soprattutto esistono dei sistemi di verifica sullo stato di pericolosità del condannato per reati gravi che materialmente, stante un periodo di carcerazione senza scappatoia, si ispirano veramente alla logica del “non un giorno di galera in più di quanto necessario”. Si cerca di togliere allo Stato il ruolo di vendicatore e di aguzzino per conto delle vittime, e ci si arrischia a provare a non aumentare tutti quei conflitti che dilaniano per tutta una vita sia i parenti delle vittime che i colpevoli. Poi forse, non essendo tutte le culture penali (fortunatamente) figlie del nostro forse troppo osannato Beccaria, si rinuncia all’esposizione del martirio quotidiano dei colpevoli, magari certi che vi siano nel terzo millennio ben altre strade per dare all’esercizio della giustizia un aspetto più autorevole.
Ma l’autorevolezza della giustizia dipende dalla maggior barbarie che riesce ad esprimere?
Io personalmente non credo che l’autorevolezza della giustizia, e quindi il rispetto che riesce ad incutere, dipenda dalla maggior barbarie che riesce ad esprimere, anzi, questa è una logica che vedo più in voga proprio tra chi opera al di fuori delle leggi. Oppure basta vedere i Paesi dove vige la “pena capitale”: non ci si pensa due volte prima di uccidere! In Italia il condannato all’ergastolo, dopo un bel po’ di carcere, può chiedere, salvo casi eccezionali, permessi premio, semilibertà, liberazione condizionale (anche la grazia, che però è diventata un’anomalia, una rarità). Ma perché tutto ciò avvenga ci sono procedure (che non sempre vanno a buon fine), occorre un interesse dell’Area trattamentale penitenziaria (che non è per nulla scontato), occorre più di un Magistrato che abbia veramente voglia di intavolare una relazione col condannato che sia di conoscenza vera, diretta. Non ultimo occorre un clima politico favorevole, e un rapporto con le istituzioni, che non tutti i condannati hanno la fortuna o la voglia di volersi costruire: ma è questo un sufficiente motivo per lasciare in carcere una persona molto probabilmente non più pericolosa? Il mio pensiero conclusivo va in due direzioni. Da una parte a tutti quei condannati all’ergastolo che non hanno la possibilità di arrivare in tempi umani alla revisione del proprio stato di detenzione, sì, a quelli che sono lasciati a se stessi magari perché non sono più interessanti. A loro tutta la mia solidarietà, non certo per i delitti dei quali sono stati responsabili, ma per il loro essere diventati simbolo inutile di una barbarie che sta nella nostra cultura, che non vuole credere nella rinascita personale, che agita il cappio nei giorni dell’odio, vi rinuncia per sentirsi con la coscienza a posto, e poi si dimentica che dietro tutto c’è sempre una persona, un essere umano che bisogna provare a non perdere ad ogni costo, una persona come quella che è stata vittima a suo tempo di morte per omicidio. Aspettare fregandosene per trenta anni, e non essere più costantemente lì, a sentire cosa succede a quella persona rinchiusa, a chiedersi se la reclusione sta assumendo il solo senso di una lenta tortura fino alla morte, è come applicare la pena di morte, è anzi peggio, è caricare la morte di sadismo. D’altra parte un pensiero va verso quella politica che sempre più spesso, sulla giustizia ma anche su altro, si esprime per rigurgiti. Possibile che si chiacchieri di continuo di ergastolo, di utilità del carcere, quando poi non si ha quasi mai il coraggio di spiegare alla gente che il nodo della questione è anche un altro? Sì, perché nella proposta di abolizione dell’ergastolo c’era in ballo di portare la pena massima a 38 anni di carcere, ma veramente poca attenzione poi nel definire i passaggi dove è l’istituzione che deve avere l’obbligo di verificare se tale fine pena ha un senso o meno. E quindi verificare quante sono le persone i cui corpi giacciono in carcere senza un pelo di senso, magari unicamente perché da sole non riescono ad aprire un dialogo con chi potrebbe farle scarcerare. Ancora una volta: Vito De Rosa insegna. Si è applaudito tanto alla concessione di un provvedimento di grazia che a mio parere avrebbe dovuto far scattare delle indagini serie sullo stato di esecuzione di certe pene al fine di accertare qualche responsabilità. Ma vite, che vanno a finire così, spesso non destano neanche un istante di riflessione, sono state condannate giustamente, qualsiasi cosa gli potrà succedere diventa assolutamente secondaria. Gli ergastolani sono e restano persone, hanno un passato, una storia, che io invito a provare a conoscere, non sulle cronache dei giornali, che anche loro hanno la memoria che funziona a rigurgito. Purtroppo non tutti cercano ancora un contatto col mondo esterno, e questo è un peccato, ma dove c’è chi ha voglia di raccontare, di narrare, pur dovendo spesso violentare le parole con carta e penna, al lettore arrivano pagine che hanno il sapore di un regalo, e il senso ed il luogo da dove certi regali arrivano possono diventare un’emozione inaspettata.
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