I Ricomincianti

 

Non è mai troppo tardi per ricominciare

 

"Ma è stata dura, nessuna banca e nessuna società finanziaria ha voluto darmi una mano"

 

Prima Puntata

 

Quando si hanno trascorsi negativi che riempiono intere pagine di tabulati giudiziari non è cosa da poco, credetemi, mettersi alle spalle tutto il passato e ricominciare davvero senza resistere alla continua tentazione del "facile guadagno".

È trascorso qualche mese da quando sono stato rimesso in libertà e devo ammettere che i miei propositi iniziali erano molto contraddittori: uscii con troppa rabbia in corpo e ce l’avevo con mezzo mondo. Provavo sentimenti "non proprio amichevoli" contro tutti quelli che (secondo il mio parere) avevano contribuito a rendermi la vita particolarmente difficile nel corso dell’ultimo anno di detenzione. Mettere in atto certi "insani propositi" avrebbe però significato interrompere la "costruzione" di una persona nuova cominciata già da qualche tempo. Dentro di me, gradualmente, un certo cambiamento era già avvenuto e grazie anche alla persona che fuori ho trovato ad aspettarmi, alla fine è prevalso il buon senso: forse non tutto era perduto, e valeva la pena provare (almeno) a tradurre in pratica i buoni propositi.

Ricordo che in redazione, al momento di salutare tutti (persone che non dimenticherò mai), dicevo che sarei stato il loro "corrispondente esterno" dalla Campania. Non scherzavo, lo dicevo con grande convinzione, infatti, scesi "giù" a Napoli con l’intento di rimanerci. Poi...

Mio padre e il mio passato: la sua poca convinzione nelle mie capacità organizzative, il suo rinfacciarmi i miei trascorsi penali. Un continuo battibecco su cosa fare o non fare. E tutto questo prima ancora di elaborare una vera e propria attività lavorativa che soddisfacesse le esigenze di entrambi.

Il suo orgoglio contro il mio; le nostre permalosità che cozzavano l’una contro l’altra… uno scontro a 360 gradi (alla faccia della parabola del Figliol prodigo o, come si dice in termini attuali, del Padre misericordioso).

Dopo qualche giorno sono andato via, a malincuore, con una rabbia infinita dentro, scoraggiato e con la consapevolezza che non mi proporrò mai più come "apprendista" di mio padre. Accidenti! Avrei pagato chissà cosa per andare d’accordo con lui, per ricominciare con loro, i miei "vecchi". Che delusione il mio breve ritorno a Napoli… e quanti brutti pensieri ricominciarono a ronzare nella mia mente! Troppi ne ho dovuto scacciare più volte, e con decisione: che grande vigliaccheria avrei commesso, se avessi ceduto al primo intoppo!

Pensai di andarmene all’estero; ricominciare da qualsiasi altra parte dell’Europa o del mondo per me non aveva nessuna particolare importanza, ma non è stato possibile. Mi sono ritrovato con un bel divieto di espatrio stampigliato sulla carta d’identità (una sorta di marchio che ti fa, comunque, sentire diverso dagli altri). Ho chiesto spiegazioni. Se non ho nessun carico giudiziario pendente, e ho scontato tutto quello che avevo da scontare, totalizzando oltre mezzo ergastolo di periodo detentivo, perché non sono padrone di poter uscire dai confini italiani? La risposta è stata semplice e disarmante: una volta pagata la "modica" cifra di circa 30.000 Euro, sarò padrone di decidere la parte del mondo dove piantare nuove radici. Praticamente, dopo essere stato a lungo detenuto nelle carceri di mezza Italia, oggi mi ritrovo libero ma prigioniero sul territorio nazionale, almeno finché non avrò versato un assegno circolare (proprio così!) alle casse del Ministero della Giustizia.

Vorrei che qualcuno mi smentisse, ma penso che questa sia una vera e propria induzione a delinquere (o, perlomeno, alla frode) da parte dello Stato (o della Magistratura). Chi, se non già benestante (e pochissimi tra questi), si presenterebbe all’ufficio cassa del Campione Penale con un assegno circolare di circa sessanta milioni delle vecchie lire? E chi, tra quelli che non hanno mai conosciuto il benessere economico e hanno sempre vivacchiato ai margini della legalità, dichiarerebbe di possedere una tale cifra? Come potrebbe giustificarne il possesso? Quand’è che si metterebbe a lavorare "sotto padrone", con un vero stipendio (ed in regola), per farsi portare via una buona fetta di paga? La mia è solo una pura e semplice provocazione, ma vi assicuro che è forte la tentazione di un gesto puramente dimostrativo: quello di entrare in una banca con un vistoso cartello attaccato al collo dove chiunque potrebbe leggere: "Questa è una rapina! Mi serve la cifra esatta di... per sottrarmi al sequestro di persona che è in atto contro di me. Fatemi un assegno circolare intestato alle autorità giudiziarie o succede un quarantotto!" Sarebbe una bella provocazione… ma temo che nessuno la capirebbe. Sono perciò rassegnato a sentirmi un "sequestrato sul territorio" finché avrò questa sorta di riscatto da pagare che non è facile da accumulare. È una vera e propria zavorra giudiziaria che mi impedisce di gustare pienamente la libertà.

 

Alla fine, mi sono rimboccato le maniche

 

Ho fatto un po’ di conti ed il risultato è sconfortante. Se dovessi (per esempio) pagare 50 Euro al mese, potrei andare a Parigi (o magari a Bruxelles, per protestare davanti alla sede del Parlamento Europeo il mio diritto di essere cittadino europeo… perché no?) tra cinquant’anni. Con un po’ di buona volontà, invece, raddoppiando l’importo della rata mensile, potrei cavarmela in venticinque anni: giusto in tempo per un bel viaggio di nozze (d’argento) in caso di nuovo matrimonio.

Alla fine, mi sono rimboccato le maniche ed ho cominciato a lavorare con una lena insospettabile. La mia compagna continua a procurarmi creme di ogni tipo per alleviare il bruciore delle mille abrasioni che tormentano ancora le mie mani.

All’inizio quanto mal di schiena… però ero contento lo stesso perché il lavoro aumentava sempre, e man mano, pur non navigando negli euro, abbiamo conquistato addirittura qualche agio.

Un giorno c’è stata una vera e propria svolta. Mi è capitato di sapere che a Prada (quattro case arrampicate a circa quota mille, sul Monte Baldo), c’era un piccolo albergo con ristorante che, per svariati motivi, stava andando in rovina; mi sono ritrovato (inizialmente scettico) a visitare una struttura alberghiera seminuova lasciata in completo stato d’abbandono.

Dopo averlo visto, ho deciso che proprio da quel posto doveva cominciare la mia "rinascita". Nella quiete di una località di montagna, oggi sento sempre meno il desiderio di tornare nel caos (in tutti i sensi) della vita cittadina; non sento alcuna necessità di "nuotare" in acque torbide e piuttosto agitate, è stato faticoso, ma è bello, oggi, poter dire di aver realizzato qualcosa con le proprie mani. Dopo anni di vita infernale, e dopo aver scontato il mio purgatorio, mi sono rifugiato in un angolo di paradiso, e intendo restarci il più a lungo possibile.

Per rilevare l’attività servivano un po’ di soldi: quelli per una cauzione sull’affitto, e qualcosa da spendere in materiali. Bisognava tenere conto, inoltre, del mancato guadagno (dedicarmi alla ristrutturazione dell’ambiente mi avrebbe impedito di svolgere altri lavori). Nessuna banca e nessuna società finanziaria ha voluto darmi una mano. Chiedevano garanzie solide o, come minimo, l’ultimo anno di buste paga con reddito soddisfacente: chi mi dava l’una o l’altra cosa? Figuriamoci se poi sapevano che a chiedere un finanziamento era proprio uno di quelli che una volta si presentava nelle banche per rapinarle! L’unico aiuto l’ho ricevuto da un mio vecchio amico: qualche migliaio di euro che ho già cominciato a restituire un po’ alla volta. Gli amici, quelli veri e disinteressati, sono una rarità con i tempi che corrono.

Una volta vinta la diffidenza iniziale, e ottenute le chiavi del locale, io e la mia compagna ci siamo messi subito al lavoro: io aggiustavo, tinteggiavo, smontavo, rimontavo; lei puliva, puliva, puliva, e poi puliva. Dopo un mese e mezzo di duro lavoro, il "nostro" albergo è diventato un vero e proprio gioiello. Abbiamo aperto (con le prime forniture ricevute a credito) quasi in sordina, senza fronzoli pubblicitari né cerimonia d’inaugurazione: sarebbe stato troppo costoso e non ce lo potevamo permettere.Qui, in montagna, persone semplici e cordiali mi hanno accolto tra loro con una spontaneità incredibile. Man mano abbiamo conquistato una piccola clientela che, con il passaparola, aumenta giorno dopo giorno e ci permette di tirare avanti in attesa che esploda, con l’ondata di caldo, la "stagione". Ora mi chiedo se tanta simpatia collezionata, giorno dopo giorno, si azzererà quando sarà di dominio pubblico (è inevitabile) il fatto che nella loro piccola comunità montana si è inserita una persona che ha trascorso buona parte della sua vita dietro le sbarre.

 

Questa era la prima puntata, piena di speranze, fatiche e illusioni, del percorso di reinserimento di un ex detenuto. La seconda puntata l’ex detenuto in questione ce l’ha spedita da poco, e non è tanto allegra. Puntuale come una bomba a orologeria, è arrivata la legge, che parla chiaro: l’ex detenuto in questione non ha i "requisiti morali" per gestire una attività in proprio nel settore della ristorazione. La decisione di Eugenio Romano di "resistere" e non chiudere il suo alberghetto certo va contro la legge, ma è innegabile che a fine pena, per una persona che è stata in carcere, la strada è tutta in salita, e non è semplice reagire con equilibrio a tante difficoltà.

Ricordiamo, per chi si interessa di questi problemi, che nel convegno "Carcere: Non lavorare stanca", che si è svolto il 9 maggio nella Casa di Reclusione di Padova, è stato elaborato, su iniziativa di Alessandro Margara, un testo che affronta proprio le difficoltà del "dopo carcere" e potrebbe diventare a breve una proposta di legge.

 

Eugenio Romano

 E mò che faccio?

 

Continua il percorso a ostacoli quando la "mancanza dei requisiti morali" impedisce a un ex detenuto di lavorare onestamente. È accaduto quello che temevo: poiché ho subito condanne penali e ho scontato parecchi anni di carcere, vogliono che chiuda immediatamente l’attività.

 

Seconda Puntata

 

Tecnicamente l’ordinanza comunale con la quale mi è stata imposta la chiusura del locale (senza uno straccio di preavviso) non fa una grinza. Gli articoli di legge, i vari decreti ed i comma, citati meticolosamente, dicono chiaramente che non potrei gestire una attività commerciale né, come mi è parso di capire, potrei somministrare (in qualità di gestore) cibi e bevande.

"La casta è casta e va sì rispettata" scrisse, con garbata ironia, nella sua più celebre poesia (La livella), il grande Totò. Anche la legge per quanto dura va rispettata, quindi per legge dovrei chiudere i battenti del locale aperto con entusiasmo (e sacrifici) e cercarmi qualcos’altro da fare: già, ma che cosa? E i debiti, contratti con i fornitori, chi li pagherebbe per me? E come potrei pagare l’affitto di questo posto, dove ho già inoltrato la richiesta di residenza? La mia compagna (che con me ha lavorato duramente ed è socia nell’attività), è al quinto mese di gravidanza: quale serenità potrei garantirle sapendo che potrei essere costretto ad arrangiarmi solo perché la Legge, come la casta, è Legge e va sì rispettata? In qualità di pregiudicato ed ex detenuto non posso appartenere alla casta dei rispettabili esercenti, anzi non posso più farne parte dopo che mi hanno cancellato d’ufficio del REC (sì, perché l’iscrizione al Registro Esercenti il Commercio c’è l’ho già e da circa 16 anni!)

Questi problemi sono appena iniziati e già so che sfoceranno, come un fiume in piena, in un mare di guai che mi sto apprestando ad affrontare. Quando il vigile "tuttofare" è venuto per consegnarmi l’ingiunzione di cessazione immediata dell’attività, mi sono cascate le braccia. Sapete cosa significa? Che se (supponiamo) avessi avuto l’albergo pieno avrei dovuto mandare via i clienti, che se avessi avuto delle prenotazioni per tutto il periodo stagionale (tanto atteso) avrei dovuto annullarle per imposta chiusura e… E poi? Non ho chiuso un bel niente! Sbaglierò, ma a un’imposizione così assurda e improvvisa mi sono ribellato e ho dichiarato che non chiuderò nemmeno se venisse il Padreterno in persona ad impormelo: nessuno ha il diritto di privarmi del mio lavoro.

Provo tanta rabbia. Si parla sempre del reinserimento nella società per chi ha avuto problemi con la giustizia e non si fa niente per incoraggiare le iniziative di chi s’impegna seriamente, per uscire dal labirinto del "malaffare" e dell’emarginazione sociale. Non so questa mia ribellione quale conseguenze (negative) mi porterà: sono in attesa di qualcuno (i Carabinieri, la Polizia di Stato, la Guardia di Finanzia o, magari, proprio quello stesso "vigile tuttofare") che dovrà procedere per dovere contro di me. Mi farò arrestare, se sarà necessario, ma stavolta (per la prima volta nella vita) sarò orgoglioso di avere i polsi stretti proprio da quelle manette che per troppi anni mi hanno fatto provare un grande senso di vergogna. Questa volta sui verbali qualcuno dovrà scrivere: "Imputato (…) per essere stato sorpreso nell’illecito tentativo di svolgere una vera, seria e regolare attività lavorativa: dopo aver volutamente ignorato l’invito (da parte delle autorità competenti) a delinquere o, comunque, ad arrangiarsi". Chi avrà il coraggio, alla fine, di vantarsi per questa così brillante operazione? Continuo a pormi domande: a chi gioverà tutto questo? Cosa mi riserva il futuro? Nonostante tutto, sono fiducioso e non getterò la spugna.

 

Eugenio Romano

La tossicodipendenza, il carcere, la maternità

 

Patrizia Tellini è stata, nel carcere di Empoli, una delle redattrici della rivista "Ragazze Fuori", e grazie a questa esperienza ha trovato lavoro, un lavoro interessante e "di qualità", al Comune di Empoli, all’Ufficio Stampa. Quando parliamo di "ricomincianti", di tutti quelli che dopo il carcere cercano di ricostruirsi una vita decente, spesso incontriamo persone che faticano a stare a galla in un mare di ostacoli. Patrizia, anche lei, ha faticato molto, ma ora può dire di avere costruito davvero qualcosa: la fine di anni di tossicodipendenza, un compagno, un figlio in arrivo, un rapporto recuperato con i genitori. E naturalmente quel lavoro, che è anche frutto della sua esperienza da "giornalista" in carcere.

 

Quando si racconta la propria esperienza di vita, la propria storia, grazie a strumenti come i giornali del carcere, che permettono di farsi conoscere all’esterno, quell’esterno che non sempre crede nel recupero e nella riabilitazione dell’individuo, accade anche di raccontare il momento più importante al quale tanto hai pensato, ma del quale hai sempre avuto paura: l’attesa di un figlio.

Il carcere dopo tanti anni riduce tutte quelle sensazioni e stimoli, che normalmente si vivono all’interno di una coppia. È vero che dietro le mura la mancanza degli atti d’amore, delle coccole, delle attenzioni è immensa, ma poi finisce che ti abitui e con il passar del tempo non ti domandi più come sarà la prima notte d’amore quando uscirai. Quando i cancelli si aprono, vorresti trovare la persona della tua vita, però i dolori del passato, i ricordi degli amori perduti sono lì e non sempre ti consentono di fidarti subito. Così inizia la ricerca. I momenti di solitudine non si contano più.

Non conosci nessuno, nel nuovo paese che ti ha dato l’opportunità di riscatto, e vorresti qualcuno accanto. Ma sei felice lo stesso, ci vuole pazienza e al mattino è bello e gratificante alzarsi per andare a lavorare con consapevolezza e volontà, anche se non si è trovato l’uomo giusto. Giorno dopo giorno cresci insieme a persone che non sanno della vita in carcere, che imparano a conoscerti, che non sanno che cosa significa essere privati della propria libertà, che ti guardano magari pensando che forse ce la farai o che sarai invece più probabilmente l’ennesimo fallimento della società. Qualcuno, però, non la pensa così. Ti dà quella fiducia che ti manca da anni. Resta lì e ti osserva da lontano. All’inizio non avrai tutta quella professionalità delle persone che lavorano da più di trenta anni in quel luogo, ma pian piano qualcosa riesci a fare anche tu ed è lì che da una semplice scommessa nasce un grande progetto di vita. Da quell’inizio di solitudine sono trascorsi tre anni. Anni dove ho imparato a vivere insieme agli altri. Oggi sono moglie, donna e futura mamma. Sì, una mamma.

 

Mia madre, che ho fatto piangere per più di quindici anni

 

Mamma, colei che dà vita. Colei che morirebbe per riavere sana sua figlia. Colei che ho fatto piangere per più di quindici anni, che ha combattuto invano una battaglia umana per il mio recupero sentendosi sconfitta, annientata e che oggi piange, incredula, nel vedermi finalmente rivivere la normalità. Mia madre non ha mai avuto amici, né amiche. La mia famiglia ha vissuto il mio "reato", la mia storia in silenzio e con un po’ di vergogna. Hanno provato a chiedere aiuto in quei lunghi anni, ma non sempre con successo. Alla fine anche un genitore si ritrova da solo davanti allo sconosciuto mondo del carcere.

Con mia madre ho sempre avuto un rapporto di conflittualità. Gelosa fin da piccola, sentivo il bisogno di averla tutta per me, ma senza parlare con lei dei veri cambiamenti che stavano accadendo dentro di me. Per questo la mia famiglia si è trovata di fronte il fatto compiuto: la tossicodipendenza prima, il carcere dopo. Non avrebbero mai immaginato di vedermi dentro a un carcere. Non avrebbero mai immaginato di entrare in un carcere; di essere perquisiti, di conoscere il personale in divisa. Con mia madre ho vissuto momenti drammatici della tossicodipendenza, che ricordiamo, insieme, "in silenzio" guardandoci negli occhi, pensando che a partire da essi è doveroso continuare a costruire il futuro. Sono mancata troppi anni dalla mia famiglia. Quindici per l’esattezza. Un periodo veramente lungo, e oggi che sto creando la mia famiglia, vorremmo essere tutti più vicini e recuperare in qualche modo quel tempo "lontano". I miei genitori mi stanno aiutando molto in questo momento e vorrebbero fare molto di più.

Un figlio che torna alla vita dopo un lungo periodo di ombre, è una gioia infinita. Quando leggo di genitori disperati, che non sanno più a chi rivolgersi per essere aiutati, ricordo quello che hanno tentato di fare i miei senza ottenere nulla, sperando solo che un arresto potesse essere l’unica soluzione. Adesso il nostro è un rapporto di scambio, maturo, sincero, e se ogni tanto mia madre piange ancora per me, lo fa per la gioia di riavermi figlia, e futura mamma.

Accanto a lei, mio padre. Un padre davvero. Forse non sempre presente a casa per ragioni di lavoro, ma che ci ha dato tutto quello che ha potuto, con la convinzione che non fosse mai abbastanza. Un padre che con profonda commozione mi ha accompagnato all’altare il 2 agosto scorso. In quel piccolo tratto di strada all’interno della chiesa, camminavamo piano, ognuno pensando ai suoi ruoli, a quello che il presente ci stava dando: quel nipotino che anche lui non pensava arrivasse mai. Quando mi ha lasciata al mio futuro marito, ho capito che la mia vita stava davvero cambiando per sempre e le lacrime hanno attraversato il mio viso.

 

Ti additano come persona che resterà sempre ai margini della società

 

La tossicodipendenza non si sconfigge con le parole, con le repressioni, con le chiusure. È un male difficile da debellare, soprattutto se non si ha più fiducia in noi stessi e soprattutto se gli altri continuano a non averne, nonostante il grande lavoro fatto per recuperare la nostra esistenza, e ad additarti come persona che resterà sempre ai margini della società. Il tossicodipendente fa paura. È un delinquente, non può essere capace di fare delle cose, di lavorare in posti di stima e affidabilità, e quando ci riesce da "pochi" viene riconosciuto e gratificato. Ma lui deve solo andare avanti. Si è salvato la vita con fatica ed è questo quello che conta. Adesso non vuole più sbagliare ed è lì che il resto del mondo deve considerarlo come una persona "uguale" agli altri.

Un figlio cade nel baratro della droga per tanti motivi. A monte c’è sempre quel dialogo che non dovremmo perdere con i nostri genitori, ma talvolta ci sono anche esperienze, come quelle cantate dai Gemelli Diversi nella canzone "Mary", che possono spingerti a odiare la vita, l’essere umano in generale, fino a cadere in queste storie che sono solo tragedie per tutti.

Ogni sostanza ha la sua "bellezza". Non è ridicolo, è vero. Ti uccide, ma quando la usi non lo senti, non ti vedi, non ci pensi. In quel momento… tu stai bene. Per questo i giovani di oggi non si sentono "tossicodipendenti" perché usano pasticche, acidi, e quanti altri miscugli sintetici, che a loro avviso non danno assuefazione, né astinenza fisica, sentendosi in dovere di giudicare l’eroinomane che nonostante anche i 40 anni è sempre lì, fuori dalla porta del Ser.T. ad attendere l’orario della somministrazione del metadone.

Credo che questo modo di agire sia una pericolosa leggerezza. Gli effetti delle droghe sintetiche durano negli anni, e rimanere "assente" di fronte alla realtà è una conseguenza quasi normale.

Il carcere, la tossicodipendenza, la criminalità, essere omosessuale, sembrano temi che a lungo andare stancano, si ripetono, perché si pensa di sapere tutto e ci regaliamo la libertà di occuparci di altre cose. Ho visto persone che quando escono articoli sulla droga, sulla situazione della carceri, passano alla pagina successiva. Non guardano, non si interessano, passano oltre. Sottovalutano, non percepiscono la sofferenza di un essere umano. Ma quelle persone, che hanno sbagliato, sono cittadini del mondo. Sono uomini, donne, padri, madri e hanno bisogno di strumenti per cambiare la loro vita.

Il bambino che nascerà alla fine di dicembre, Emanuele, è per me la risposta più grande alla volontà di condurre una vita normale, senza troppe emozioni che non ti lasciano nulla, che non hanno sostanza, che non ti aiutano a essere vicina agli altri. Diventare mamma è donare tutta te stessa alla famiglia che stai creando e io più che mai credo in tutto quello che ho fatto per arrivare a questo momento, senza mai poter dimenticare quello che gli "empolesi" mi hanno dato per arrivare a questo punto. Come ho già scritto in altri miei articoli, i percorsi, le scelte di cambiamento, non vanno criticati, derisi né giudicati, ma capiti e, se possibile, sostenuti. Le difficoltà si affrontano davvero con la lucidità. Personalmente non mi nasconderò più dietro alle sostanze, o come tanti fanno con il bere, che è volutamente sempre più sottovalutato come problema. Riuscirci dipende solo da noi, da quanto siamo in grado di raccogliere dagli altri e di ascoltare dagli altri. Se non ci riusciamo è perché, in fondo, non lo vogliamo. Io ho scelto la mia strada a cuore aperto e su di essa continuerò a camminare.

 

Patrizia Tellini

 

 

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