Donne Dentro

 

Da un orfanotrofio della Bulgaria alle galere italiane

 

La storia di Sonya, sola contro il mondo. La vita diventa una sfida a prendersi quello che nessuno le ha mai dato

 

La storia di Sonya la racconto direttamente io, perché lei con l’italiano fa ancora fatica, anche se adesso, dopo alcuni mesi di carcere, lo parla e capisce abbastanza e di questo è orgogliosa. Sonya viene da uno dei paesi più poveri dell’est europeo, la Bulgaria, ed è cresciuta in una delle situazioni più degradate e misere di quel paese, un orfanotrofio.

A diciott’anni finisce a lavorare in una fabbrica di dolciumi, dove coltiva un unico sogno, quello di andarsene al più presto. I primi soldi che mette insieme, quando compie vent’anni, li "investe" tutti per farsi portare in Italia. La scaricano a Milano, senza più nulla, quel viaggio le è costato tutto quello che aveva. Di lavorare, senza permesso di soggiorno, non ha nessuna possibilità, così impara a rubare per vivere, e intanto abita dove capita perché "tutta la città era la mia casa". Da Milano scappa a Venezia, sperando di trovare luoghi più accoglienti, e intanto comincia a bere per darsi coraggio. Il primo arresto avviene quando lei, con un po’ di follia e certo senza calcoli da vera ladra, pensa bene di rubarsi una barca perché "avevo bevuto e volevo provare quello che non avevo mai provato". La vita diventa una sfida a prendersi quello che nessuno le ha mai dato: ruba ancora, si ritrova con parecchi soldi e, ci racconta ora con gli occhi che le brillano, "per una settimana ho vissuto come una principessa". Poi arriva il processo, dove lei sta sempre zitta, non capisce nulla e non sa dire nulla, perché non ha avuto ancora il tempo di imparare l’italiano, troppo impegnata com’era a sopravvivere.

Ed ecco il carcere: Sonya l’ho conosciuta alla Giudecca, una ragazzina sola, incapace di esprimersi nella nostra lingua, aggressiva, arrabbiata con il mondo intero, l’ho ritrovata poi nel carcere di Trieste, con almeno la piccola soddisfazione di riuscire a farsi capire nella nostra lingua, ma sempre più depressa per il nulla che la vita le ha regalato: come ultima prospettiva, l’espulsione in quel suo paese dove non ha e non ha mai avuto nessuno. Avrei tanto voluto dirle che potevo fare qualcosa per lei, perché la sua storia è davvero "troppo", troppo misera da sempre, troppo perché non ha un futuro, ma non ha nemmeno un passato. Più o meno tutti i detenuti di solito hanno almeno qualcuno su cui contare: la madre, un figlio, una sorella. Per la prima volta, da quando ho a che fare col carcere, ho percepito invece una solitudine totale, senza nemmeno la possibilità di ricordarsi un momento del passato in cui esistevano degli affetti. Se ricacceranno Sonya in Bulgaria, non troverà nessuno ad aspettarla; in Italia per lo meno, a differenza che nei disastrati paesi dell’est, c’è una rete di sostegno, fatta di una marea di volontari, che si potrebbe occupare anche di lei.

Sonya mi ha permesso di raccontare un po’ la sua storia. L’ho fatto, anche se so che la Bossi-Fini non dà alternative, perché voglio almeno ricordare le persone e le vite che ci sono dietro a tante storie di stranieri in galera. Se credessi che i sogni possono avverarsi, sognerei che qualcuno adottasse Sonya: in fondo, ognuno di noi ha diritto ad avere, almeno in un momento della propria vita, un pezzo di famiglia.

 

Per Sonya è arrivata l’espulsione a distruggere qualsiasi speranza

 

Voglio tornare sulla storia di Sonya, perché mi sembra che meglio di qualsiasi altra rifletta la complessità della condizione degli stranieri detenuti, e le "due anime" con le quali il nostro paese si confronta con la realtà, spesso dolorosa, degli immigrati, quella che vuole cacciarli o al massimo accoglierli solo come forza-lavoro, e quella che ha invece memoria della nostra storia di migranti ed è pronta a trattarli davvero come persone.

Sonya ha lavorato sodo per fuggire dalla Bulgaria, dove "sopravviveva" in assoluta solitudine, all’Italia, dove sperava di cominciare finalmente a vivere realmente. Breve illusione, la sua, e poi la realtà nuda e cruda: niente documenti, niente lavoro, una rapida carriera da ladra e subito la galera in questo nostro paese ben strano, dove non ha avuto nessun aiuto finché era fuori, ma un po’ di accoglienza, qualche lezione di italiano, una psicologa attenta e sensibile, tutto questo l’ha trovato in carcere. La storia ha un epilogo dolce-amaro: avevo raccontato la sua vicenda sul settimanale "Vita", lanciando un appello con poche speranze, praticamente un invito ad adottare una orfana bulgara, stanca, arrabbiata col mondo, anche un po’ ladra. Mi è arrivata una risposta incredibile, da una coppia con già altri figli adottati: "Abbiamo letto con attenzione di mamma e papà quanto scritto per Sonya. Una storia che centrifuga in sé disperazione, miseria ma anche un pizzico di speranza. (…) Saremmo felici di sapere se possiamo essere per lei quel "pezzo di famiglia" della quale ha diritto".

Ho letto questo messaggio alle detenute della Giudecca, sono rimaste commosse, ma soprattutto incredule: non credevano che "fuori" qualcuno potesse aver voglia di occuparsi di una ragazza detenuta, e non preferisse invece, per fare del bene, scegliersi per lo meno una situazione meno scomoda. E c’è invece da dire che questa non è neppure l’unica offerta di aiuto ricevuta, anche se senz’altro è la più impegnativa e quella che maggiormente ci ha aperto il cuore. Altri si sono offerti di dare una mano a Sonya in modi diversi, come la volontaria che ci ha scritto "Conosco bene la situazione carceraria, insieme ad altri amici tentiamo il reinserimento degli ex detenuti. Mi piacerebbe poter fare qualcosa per Sonya, anche solo diventare sua amica. Forse non è troppo tardi".

Non arrendersi in partenza... non dire "con la Bossi-Fini, non c’è più niente da fare"... non rinunciare a una battaglia giusta perché sia riconosciuto anche agli stranieri in carcere quel minimo di diritti che hanno gli italiani.

Purtroppo, quando sono giunti questi messaggi, erano già arrivati in carcere a prelevare Sonya per espellerla. Non sappiamo se ora sia in un Centro di Permanenza Temporanea (i famigerati Centri di Detenzione, peggio della galera) o al suo paese, per strada perché in Bulgaria non ha nessuno, e c’è troppa miseria perché qualcuno si possa occupare, oltre che della sua, anche di quella degli altri.

La stiamo cercando, non so se riusciremo a trovarla, ad avere almeno qualche notizia sulla sua sorte. So che per tanti di noi, che si occupano di detenuti stranieri, questa dovrebbe essere una lezione: non arrendersi in partenza, non dire "con la Bossi-Fini, non c’è più niente da fare", non rinunciare a una battaglia giusta perché sia riconosciuto anche agli stranieri in carcere quel minimo di diritti che hanno gli italiani. E avere un po’ di fiducia nel mondo "fuori", che non è tutto così ostile e prevenuto come qualcuno vorrebbe farci credere.

 

Ornella Favero

Donne straniere poco aiutate

 

Ci sono Stati che non si accontentano di riaccogliere i loro cittadini, ma li indagano e a volte li incarcerano per il medesimo reato

 

Un paio di mesi fa una detenuta della Casa Circondariale di Forlì ci ha richiesto del materiale sul lavoro in carcere e sulle cooperative sociali. Noi non ci siamo limitati a spedirle i documenti, le abbiamo anche chiesto se per caso era interessata a collaborare con il nostro giornale, scrivendo qualcosa sulla realtà in cui è costretta a vivere. Detto, fatto. Un paio di settimane dopo ci è arrivato l’articolo, che pubblichiamo molto volentieri. Se la cosa non avesse spiacevoli implicazioni anche per quanto riguarda la permanenza in carcere, ci augureremmo che questo sia solo il primo passo di un lungo e proficuo rapporto di collaborazione. Invece auspichiamo che Laura diventi un esempio per molti altri che sono detenuti, lavorano o entrano come volontari nelle altre carceri italiane. Il loro apporto sarebbe prezioso per "allargare" i nostri orizzonti.

 

La Redazione

 

Cercavo un argomento che potesse interessare tutti, non la solita descrizione del solito carcere o un modo spiritoso di presentare me e le mie compagne, giocherellavo con il computer che mi è stato concesso di usare e che - di solito - rimane chiuso nella sala adibita ai corsi. Aprivo documenti, senza trovarvi altro che banali esercitazioni di scrittura, fino a quando - datata di due anni fa e rimasta chissà come in memoria -, ho trovato questa "lettera" indirizzata a nessuno e a tutti, come la bottiglia che il naufrago abbandona all’oceano, augurandosi che sia ripescata da chi può offrirgli aiuto.

"La vita in carcere già dura lo è, ancora di più per le straniere. Si fa fatica con la lingua nei rapporti con la giustizia e gli avvocati. Non si riesce a comprendere con precisione il penale. Quando si crea l’opportunità di godere di misure alternative, come permessi premio, semi - libertà ecc. non riusciamo ad usarle. Che differenza c’è fra le detenute straniere e quelle italiane in relazione al godimento di questi privilegi? Ma ciò che più ci angoscia è a fine pena, l’espulsione eventuale: una che non vuole assolutamente tornare al suo paese cosa può fare?".

Queste parole sono state scritte da qualcuno che non conosco, un anno prima dell’entrata in vigore della Bossi-Fini (legge 189 del 30.07.2002): oggi la situazione è peggiorata. Non si possono qui affrontare tutte le sfaccettature del problema, numerosissime e ciascuna dipendente da una diversa autorità, alcune certamente irrisolvibili perché generate da situazioni di fatto alle quali non si può umanamente ovviare: l’incomprensione della lingua italiana e la totale ignoranza delle nostre leggi non può essere colmata che da interventi di alfabetizzazione e di cultura generale che danno risultati solo a medio termine. Ma nessuno ha la bacchetta magica ed è giusto così. Invece, non mi ero mai resa conto, prima di finire in carcere anch’io, dell’enorme disparità di trattamento che la legge n. 217 (20.07.90) riserva a carico degli indagati extracomunitari .

Se è vero che chiunque delinqua sul territorio dello Stato sarà giudicato secondo il medesimo codice, è pur vero che il cittadino straniero, privo di mezzi economici e non regolarmente residente, non avrà di fatto alcun diritto ad essere patrocinato gratuitamente. Dovrà avvalersi della difesa tecnica di un avvocato nominato d’ufficio e presente soltanto alle udienze, spesso diverso ogni volta, non al corrente dell’iter pregresso, poco interessato e distratto.

Non gli si può imputare nulla, a questo difensore che - seppure volesse discutere con il patrocinato di una linea di difesa - andrebbe a scontrarsi con l’invalicabile muro della lingua: l’interprete è disponibile gratuitamente solo durante gli interrogatori e le udienze. Vero è che una sentenza della Cassazione, a interpretazione autentica della legge che regola la concessione del gratuito patrocinio, propone un’applicazione meno rigida di questa, enunciando, in sostanza, che lo straniero non residente può beneficiarne se il suo Consolato, sollecitato dagli organi competenti, dichiarerà che lo straniero in questione è nullatenente anche nel suo paese d’origine.

Questa procedura, per la sua lentezza, ha qualche senso soltanto se l’indagato si è reso colpevole di gravissimi reati ed è realizzabile esclusivamente quando le nazioni di provenienza sono burocraticamente ben organizzate. Funziona pochissimo - o per nulla - a favore di coloro i quali sono imputati di delitti la cui pena edittale non supera, nel massimo, 6 anni e quindi prevedono una durata massima della custodia cautelare di 6 mesi.

 

Olena, ucraina, in balìa di leggi incomprensibili e avvocati assenti

 

Un esempio, tratto dalle sezione. Olena C., di nazionalità ucraina, arriva il 22 dicembre 2002 con l’imputazione di tentata estorsione. Per un mese, malgrado i numerosi tentativi di approccio verbali e mimici, rimane totalmente muta: non è afasica, semplicemente non parla e non capisce una parola di italiano. Poi si sblocca e ne pronuncia una decina: ciao, sì, no, sigaretta, grazie. L’avvocato d’ufficio che l’ha assistita al momento della convalida è totalmente assente. Indagare sull’esistenza di una difesa mi prende altri due mesi ed è reso possibile solo da due righe (in italiano) che le arrivano dal difensore in questione e che mi tende, non capendoci nulla. In sostanza, dicono: "Sarebbe bene che lei richiedesse il rito abbreviato, ma prima dobbiamo parlare della mia parcella. Come pensa di risolvere questo problema?". Non avendo i mezzi per "risolvere il problema" in prima persona, proponiamo un’istanza per la concessione del gratuito patrocinio. La risposta - negativa - si fa attendere solo quattro giorni.

Qualcuno dirà che questa decisione poteva e doveva essere impugnata. È un’opinione che condivido, ma come si presenta un’impugnazione senza avvocato? Alla cieca, Olena richiede il giudizio abbreviato attraverso ufficio matricola. Le viene concesso. A questo punto, la sua difesa, è diventata - per me, italiana - una questione di principio, di onore. Ne ho parlato in giro, spiegando la situazione ogni volta da capo, ricevendo i commenti più disparati e, finalmente, un aiuto: un avvocato di Forlì si è offerto di patrocinare Olena gratuitamente. Lo ha fatto poi, nel migliore dei modi, ovviando con un gesto personale ad una inadeguatezza della legge. Il problema resta però aperto, né si può pretendere che il volonteroso avvocato difenda la metà delle extra - comunitarie che approdano nella C.C.F. di Forlì, sprovviste di mezzi economici. In ogni caso rimarrebbero le altre centinaia, arrestate in giro per l’Italia. Per tutte, dopo l’eventuale condanna e la parziale o totale espiazione della pena, la Bossi-Fini effettivamente prevede un unico destino: l’espulsione verso il paese d’origine. E là, si potrebbe pensare, come in un mostruoso gioco dell’oca ritorneranno al punto di partenza. Invece no.

Alcuni stati, quali la Romania, non si accontentano di riaccogliere i loro cittadini, ma li indagano e - qualche volta - li incarcerano per il medesimo reato. Tale è la vicenda di Melinda D., rumena, imputata, condannata ed espulsa. Aveva promesso di scrivere a tutte e il suo silenzio ci stupiva. È arrivata una lettera, due mesi dopo la sua partenza: si scusava, Melinda, del non averci tempestivamente inviato sue notizie, ma era stata tradotta direttamente dall’aeroporto al carcere, dove era stata isolata per sessanta giorni, con la medesima imputazione per la quale era già stata condannata in Italia. Allora non so rispondere all’appello che ha motivato queste righe, né credo sappiano tanti, anche politicamente impegnati, che poco sento esprimere il proprio dissenso, forse non consapevoli della gravità di accettare supinamente una legge che contravviene all’articolo 2 della Costituzione Italiana, laddove enuncia che "la Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo... e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale.".

 

Laura Caputo

Ho accompagnato la mia bambina da suo padre

 

È un passo difficile, che non tutti sanno fare, quello di far affrontare a un figlio l’angoscia di una sala colloqui

 

È passato un po’ di tempo dall’ultima volta che mi sono raccontata al vostro giornale, ma non ho dimenticato l’importanza che ha avuto "Ristretti Orizzonti" durante la mia permanenza alla Giudecca: lavorare in redazione con le compagne, collaborare con la redazione maschile di Padova sono state esperienze importanti che mi hanno aiutata fino a quando ho potuto avere la detenzione domiciliare per stare vicina a mia figlia. Anche se mi trovo sempre in questa situazione (non per molto spero) ho fatto dei passi avanti, passi importanti, passi fondamentali per dare ad un detenuto la fiducia e la possibilità di dire: "Ci sono anch’io, partecipo e faccio una vita sociale". Dopo avere riabbracciato mia figlia e avere ottenuto i colloqui con il mio convivente, ancora detenuto in carcere, ho finalmente portato mia figlia da suo padre e ho trovato anche un lavoro.

Andiamo però con ordine, per raccontare le piccole conquiste che hanno reso più decente la mia vita. Quando sono uscita in detenzione domiciliare, ho cominciato a pensare che doveva arrivare anche il momento di far incontrare la bambina con il suo papà, cosa non facile perché lui si trova ancora in carcere e più volte, quando si affrontava l’argomento "genitori detenuti e figli", lui sosteneva che i colloqui in carcere coi bambini sono una cosa che voleva evitare, perché le regole rigide e il tempo controllato sono i padroni, lì dentro, mentre mancano del tutto l’intimità e la possibilità di esprimere liberamente le emozioni.

 

Due ore da riempire e l’emozione che si vedeva, si toccava, il battito del cuore amplificato, a mille

 

Più volte avevo chiesto a mia figlia se voleva venire con me a trovare suo padre, spiegandole cosa avremmo trovato arrivando là, ma facendo anche leva sulla sua curiosità e sul suo amore per il papà. La risposta era sempre "no", finché un giorno ha detto finalmente "sì", e allora l’ho portata con me. Era dal settembre 1999 che non si vedevano e la mia paura era quella che fra di loro si rompesse anche quel sottile filo che unisce due persone, costrette a non vedersi per lungo tempo; il mio uomo adora i bambini, non so come ci riesce ma… entra nel loro mondo e li conquista subito, fra lui e la bambina prima c’era un rapporto molto bello e io avrei voluto che lo ritrovassero. Quel giorno la sala colloqui era vuota, c’era solo lui, solo noi, con due ore da riempire e l’emozione che si vedeva, si toccava, il battito del cuore amplificato, a mille.

 

Il genitore che si trova in carcere perde molte cose, oltre che la libertà, e tra le tante c’è la crescita di un figlio, che non è solo crescita fisica ma anche mentale, psicologica

 

Erano uno di fronte all’altra, percepivo quello che provavano. L’ultima volta che lui l’aveva vista aveva sei anni, adesso quasi dieci e io avrei voluto che non ci trovassimo in una sala colloqui di un carcere. Però è stato bello rivederli assieme, ma ho anche pensato che… non è giusto! Non è giusto che i rapporti affettivi si limitino per chi sta in carcere a una o due ore di colloquio, soprattutto se avvengono tra genitori e figli. Manca la quotidianità, la giornata di un figlio è fatta di molte cose, molti avvenimenti che vive e che racconta ai genitori di volta in volta, e il genitore vede e partecipa a questi avvenimenti: tutte queste sono piccole emozioni che si assaporano e si sentono nel momento in cui vengono vissute.

A raccontarle dopo non hanno la stessa importanza, lo stesso valore. Il genitore che si trova in carcere perde molte cose, oltre che la libertà, e tra le tante c’è la crescita di un figlio, che non è solo crescita fisica ma anche mentale, psicologica. Il rapporto tra genitore detenuto e figlio si può costruire solo in spazi idonei, e se non è possibile a casa, almeno dovrebbe esserlo con dei tempi "umani" e in un luogo dove il bambino si trovi a suo agio e possa mostrare come passa il tempo e cercare di creare il clima famigliare, di intimità, che non è pensabile avere in una sala squallida, spesso piena di gente, con davanti le lancette dell’orologio che avvicinano inesorabilmente alla fine del colloquio.

 

È davvero insopportabile stare a casa in detenzione e pesare totalmente sui propri famigliari

 

Quello che più mi stava a cuore, all’inizio della mia detenzione domiciliare, era ricostruire il rapporto con mia figlia, ma poi un po’ alla volta ho dovuto naturalmente affrontare tutti gli altri problemi, e in particolare pensare al lavoro, perché è davvero insopportabile stare a casa in detenzione e pesare totalmente sui propri famigliari. Alcuni mesi fa ho fatto richiesta, al Magistrato di Sorveglianza, di potere uscire dal mio domicilio per cercare un lavoro: cosa non facile da fare se rimango a casa, e certo nessuno viene a bussarmi alla porta per offrirmene uno. Il Magistrato ha accettato la mia richiesta e così, dopo avere preparato un curriculum, ho cominciato a fare un giro nel territorio, a rivolgermi ad aziende, ad agenzie del lavoro. Dopo alcune settimane sono stata chiamata da un’agenzia che mi offriva un lavoro, era un venerdì e avrei dovuto iniziare il martedì successivo, ma come potevo? Ho spiegato che trovandomi in detenzione domiciliare avrei dovuto inoltrare prima una richiesta e per fare ciò mi serviva del tempo, e in pratica ho dovuto rifiutare. E all’inizio è stato sempre così: il lavoro c’era, ma subito, e invece un detenuto ha sempre tempi lunghi e nessuna certezza.

 

L’affidamento lo aspetto con ansia per avere finalmente la sensazione di essere una persona a tutti gli effetti

 

Dopo un po’ ho saputo che una signora stava andando in pensione e la cooperativa per cui lavorava cercava una sostituta, sono andata a colloquio e sono stata assunta, naturalmente dopo che il Magistrato, tramite la mia assistente sociale, ha preso le necessarie informazioni. Mi trovo bene, per il momento mi accontento, almeno non sono a casa tutto il giorno e guadagno dei soldi miei e poi con il lavoro potrò accedere all’affidamento in prova con il Centro Servizi Sociali per Adulti. E questo significa maggior libertà, mentre adesso che sono in detenzione domiciliare devo avvisare giornalmente i carabinieri quando esco e telefonare quando rientro.

L’affidamento lo aspetto con ansia, anche per dare al rapporto con mia figlia dei tempi più umani, per poter condividere con lei una vita meno "sotto controllo", per avere finalmente la sensazione di essere una persona a tutti gli effetti.

 

Patrizia

Condannata all’inattività

 

La desolazione di quelle galere, dove non c’è niente di niente, niente corsi professionali, niente volontariato, niente di ricreativo

 

Sono tornata alla Giudecca. Sono ormai alcuni mesi che mi trovo qui. Era venerdì 18 aprile quando il motoscafo si è fermato di fronte al portone di Via Sant’Eufemia. Le manette con gli zaini mi impedivano di fare il segno della croce, per esprimere la mia gratitudine. Gratitudine perché mi avevano accolto la domanda di trasferimento, dopo che avevo scritto una lettera nella quale avevo esposto più esplicitamente i miei progetti futuri e i motivi per volermi allontanare dal carcere in cui mi trovavo, quello di Belluno. Due istanze mi erano già state rigettate in precedenza.

Il pomeriggio stesso del mio arrivo mi veniva concesso di partecipare alla "Via Crucis", che si svolgeva in sezione. Non potevo non partecipare. Già. La mia Via Crucis era durata 7 mesi e 20 giorni, il periodo che avevo trascorso a Belluno. Mi sono ripromessa di non rimuovere il ricordo della mia permanenza e il pezzo di vita vissuto lì, la desolazione, l’isolamento, l’inattività, il malessere di cui era pregna l’aria. Non voglio dimenticare, nonostante la voglia di cancellare dalla mente l’angoscia passata sia tanta. Non voglio dimenticare, anzi voglio ricordare, specialmente i momenti difficili, per quando mi succederà che mi sentirò scontenta e infelice di essere qui.

Prima di finire a Belluno, mi trovavo nella Casa Circondariale di Rovereto, eravamo una ventina di detenute e frequentavamo tutte i corsi professionali esistenti, la palestra, lavoravamo a rotazione mensile, io poi facevo parte della redazione del giornale "Dentro", trovavo tempo per socializzare con le ragazze, giocare a pallone con loro, ballare, dare una mano a fare le istanze, consigliare, ascoltare. Il tempo mi volava.

A maggio dello scorso anno il mio avvocato voleva farmi chiedere gli arresti domiciliari. Rifiutai e gli consigliai di andarci lui agli arresti, a me non interessavano. Io ero interessata allo studio, a fare gli esami e prendere la licenza delle medie. Queste sono scelte che possono fare anche del male nell’immediato, ma quello a cui pensavo era un futuro più lontano, però un po’ più roseo. A giugno avevo nelle mani la licenza della scuola media. Inoltravo domanda di trasferimento in un altro carcere per potere continuare con le scuole superiori; invece venivo trasferita a Belluno a fine agosto, per motivi di sfollamento (ufficialmente).

Siamo state trasferite in quattro. Due, che sono scese dal blindo a Venezia, piangevano durante tutto il viaggio. Avrei cambiato volentieri con loro, ma se avessi potuto decidere di prendere il posto di una di loro, lasciando lei alle prese con la sorte che mi aspettava a Belluno, non l’avrei fatto. Sono più esperta di tante altre della vita e di carcerazioni e in fondo non ho paura di niente.

Il mio primo sguardo, entrando nella struttura di Belluno, si soffermava sulla scritta del cartello situato nella parte alta del portone di ingresso: "Redimere Vigilando". Incontravo poi gli occhi di una agente di scorta della C.C. di Rovereto, le sorridevo e poco dopo la salutavo con una stretta di mano. Succede di rado, non ho confidenza con le agenti, ma ciò non toglie che non sappia riconoscere quando meritano una stima particolare, e questa piccola donna del sud ne merita, stima e ammirazione per la sua grande umanità. Dopo il solito "tran - tran" all’ingresso in un altro istituto, foto (ricordo) e impronte, le perquisizioni personali e del bagaglio, e dopo avere avuto una prima impressione su ciò che mi attendeva, cioè tempi duri, mi sono ritrovata chiusa nella cella a cui ero destinata. Cercavo di non guardare troppo le mura fatiscenti, di non fare troppo caso alla rete oltre le sbarre e alla poca luce che filtrava dentro, il sole però qui dentro non ci arriva mai, questo sì mi preoccupava. Ma mi facevo coraggio, mi dicevo che questa era un’altra sfida e mi ripromettevo che nulla sarebbe riuscito a farmi regredire, ad abbattermi. E mi ci sono volute veramente forze immense per resistere. Ciò che mi bruciava più di tutto era di avere rifiutato gli arresti domiciliari, qualsiasi cosa sarebbe stata meglio dell’esperienza di Belluno.

 

Un carcere fatto solo di cancelli, sbarre, telecamere, porte elettroniche

 

Belluno: carcere di alta sorveglianza e secondo altre voci carcere di punizione. Definizione non del tutto esatta. Si finisce spesso a Belluno per punizione, per avere infranto le regole da un’altra parte, ma a Belluno ci si finisce anche per caso, per essere stati arrestati nel suo territorio e per sfollamento. Quando io sono arrivata lì, eravamo in 4 detenute. La sezione è piccola, suddivisa su sei celle di cui una considerata di isolamento; 4 celle piccole di tre metri per due e quaranta, più una cella doppia. La prima impressione era di essere catapultata nel passato. Sì, perché a Belluno l’orologio sembra sia restato fermo. Come allora, la mia prima carcerazione di 20 anni addietro, quando ti scontravi solo con violenza fisica e psicologica, quando eri condannata all’inattività.

A Belluno è così: niente corsi professionali, niente volontariato, niente di ricreativo, niente di niente. Nessuno scambio di parole che non sappiano di detenzione, di ristrettezza, di malessere. Solo cancelli, sbarre, telecamere, porte elettroniche e ogni parola viene ascoltata. La privacy è inesistente, neppure le telefonate ai tuoi cari puoi farle con intimità: il telefono è situato in mezzo alla sezione, accanto al tavolo delle agenti, e nonostante si allontanino mentre parli, non possono non sentire, e lo stesso vale anche per chi sta in cella e può udire ogni parola, nel caso in cui fosse interessato, ma questo difficilmente accade, perché a nessuno interessa nessunissima cosa, si vive apaticamente riempiendosi di psicofarmaci, che vengono distribuiti generosamente, e questo non solo a Belluno, ormai si usa così ovunque. C’è anche chi si taglia, chi dà fuoco al materasso, chi sbatte porte, chi urla. Un’esperienza di disagio, di angoscia e di ansia. Ma nessuno sa più ascoltare, nessuno sente. E chi sente si gira dall’altra parte o alza il volume del televisore. Se poi c’è qualcuno che ascolta veramente e vorrebbe accorrere, non gli è consentito. Il cancello del blindo si blocca e, impotente, sei costretta a fermarti, provi a chiamare, ma pure questo è vietato.

Io stessa ho dovuto ascoltare una telefonata tra una detenuta e sua madre e poi sentire commenti del tipo: "Non ti vergogni di chiedere a tua madre di mandarti i soldi?, e poi ancora: "Ma perché non ti tagli che è meglio!". A volte pare che ci sia chi si è abituato a vedere soffrire noi detenuti e, se ci succede qualcosa o ci facciamo del male, gli procuriamo solo un fastidio in più: dover avvertire il medico, fare verbali, chiamare i soccorsi, spostare la detenuta che si è tagliata in un’altra cella e, nel caso in cui viene chiesto l’isolamento, togliere il fornello, piatti, lenzuola, e lasciarla in cella con niente di niente, solo la possibilità di fumare, anche se accendino e sigarette si devono chiedere all’agente di volta in volta.

A Belluno ho preso il mio primo rapporto disciplinare, perché in tutte le mie altre carcerazioni non era mai successo che io offendessi una agente o mi comportassi in modo poco corretto, e voglio aggiungere che mi sto facendo il dodicesimo anno di galera. Ho imparato veramente tante cose in galera, tra cui prima di tutto l’autocontrollo. Ho imparato a dire sempre tutto, ma senza offendere, detesto la volgarità, le bestemmie e le parolacce, sono cose che non stanno bene in bocca a una donna. Non che stiano bene dentro la bocca di un uomo, per carità, ma loro li perdonano sempre. Comunque quella volta ero vittima da ore di provocazioni, e tra battute e risposte me l’ero cavata ribattendo con un bel po’ di cattiverie, a volte riesco ad avere una lingua velenosa e tagliente. Fatto sta che avevo preso una sberla e mi era sfuggito un commento feroce. Al consiglio disciplinare avevo assunto le mie responsabilità, ammettendo la mia reazione verbale violenta, ma non tutto il resto di cui ero stata accusata. Non so se sono stata creduta o meno, rimane il fatto che ho la libertà di dire la verità e questa è una cosa che non mi potrà mai togliere nessuno, dire la verità, essere sincera. In quanti lo sono? Dopo, ho riflettuto a lungo sull’accaduto e sul motivo per cui avevo avuto questa reazione e perso il controllo. Sono cresciuta a suon di botte che sono state nell’infanzia il mio pane quotidiano, ma le accettavo solo da mia madre, in silenzio. Ogni tanto continuo ancora a chiedermi quanto tempo mi servirà per rimarginare queste mie ferite, forse una vita? La faremo bastare.

Dopo questo fattaccio, le cose sono migliorate, per cui sono propensa a credere che mi hanno creduto. Dovevo comunque trascorrere un lungo periodo cercando di dare una continua dimostrazione di un comportamento corretto, se volevo che mi accettassero la domanda di trasferimento. Evitavo di fare le domandine, di insistere per avere i libri dalla biblioteca, evitavo di crearmi pensieri negativi e di risentimento. Chiedevo di avere il blindo chiuso e avevo imparato anche a gestirmi la claustrofobia; quando era l’orario dei passeggi scappavo fuori con qualsiasi condizione di tempo, non mi importava se a uscire ero l’unica, anzi meglio: in certe circostanze è preferibile stare da soli, si ha risorse solo per se stessi e non si può sempre solo dare, non si può farsi carico anche dei problemi altrui, specialmente quando non trovi un riscontro, e quando ne hai già troppi anche tu.

Ricordo di Belluno grigiore, miseria e deserto. Ricordo delle compagne che erano costrette a vivere lì, e non posso non pensare pure al carcere maschile, anche lì abbandonati a loro stessi, affidati a una struttura angusta e senza funzionalità, dove tutti quindi lavorano malvolentieri e tutti si lamentano e protestano contro tutti. Il carcere è certo il luogo di espiazione della condanna, ma a Belluno si aggiunge una pena sulla pena, anche se a nessuno importa di questo.

Io, se non altro, ho voluto raccontarlo. Non soltanto i ricordi belli ci aiutano a vivere, a farci compagnia per andare avanti. Fanno la medesima cosa anche i ricordi come questi, mi faranno da specchio e mi faranno apprezzare la permanenza qui alla Giudecca e, prima che mi possa sfuggire il controllo e che io pensi a lamentarmi, mi fermerò e mi volterò indietro.

 

Christine

Quegli "equilibristi" in bilico tra libertà e galera

 

Vita da semiliberi, tra comportamenti "normali" fuori e repressi in carcere. Le misure alternative non sono un regalo, sono una pena vera

 

Nelle cronache dei giornali si sente spesso parlare delle misure alternative al carcere come di benefici, di una specie di "vacanza" in cui, invece di "pagare il suo debito", il detenuto se la spassa evitando la galera. Non è così, non lo è affatto: la semilibertà, per esempio, che significa lavorare di giorno fuori e rientrare la sera in carcere, è un regime di vita duro, faticoso, continuamente a rischio, dove la persona deve imparare ad autocontrollarsi ferocemente. Ce lo spiega bene Giulia, detenuta alla Giudecca, che ora lavora all’esterno e fa i conti tutti i giorni con questa doppia vita, in cui non sa più neppure lei chi è e non ha nessuna certezza di riuscire a "farcela" a ritrovare una propria identità.

L’istituzione totale nella quale un detenuto è condannato a "vivere" per un determinato periodo più o meno lungo della sua vita non lascia indenne nessuno, per quanto riguarda i danni fisici e psicologici che crea. Quelli fisici sono evidenti, si sa che a volte, forse troppo spesso, il diritto alla salute in carcere, se non si ha a che fare con operatori sensibili e corretti, cosa che non succede spesso, diventa un optional; quelli psicologici sono meno immediatamente evidenti, ma il carcere lacera, devasta il tuo essere, quando vivi in regime di reclusione totale e niente, nessuna intimità ti è concessa, nessun potere decisionale, quasi nessuna scelta, se si fa eccezione per quelle che vengono considerate parte del trattamento, le attività che puoi decidere di seguire o meno.

Quando dal carcere passi invece a un regime di semilibertà, da certi punti di vista forse diventa anche peggio, perché - oltre ad essere comunque sottoposto alle regole detentive – devi avere un equilibrio psichico differenziato a due livelli – uno esterno e uno interno, e dunque "coscientemente schizofrenico".

Trovare e mantenere un equilibrio psichico già di per sé non è semplice, neppure per chi vive in una realtà ben precisa e in qualche modo lineare, immaginarsi poi cosa succede per chi "deve" mantenerlo di giorno in situazioni di vita da persona libera, dove certi comportamenti, espressioni ed emozioni sono considerati "naturali", e poi di sera e notte "dentro", dove quegli stessi comportamenti devono essere sottoposti a controllo continuo da parte del detenuto stesso.

Il soggetto che vive la condizione di semilibero deve avere sempre vigile l’attenzione, per esempio quando parla di e con qualcuno, vigile il comportamento – per esempio mettendo a tacere qualsiasi malessere psicologico, in quanto il malessere può essere considerato in maniera negativa, come cedimento, come debolezza, come incapacità di tollerare le privazioni e affrontare le difficoltà della vita libera. Ma senza andare così nel profondo, anche solo farsi accompagnare da qualcuno per un tratto di strada può causare problemi. Sei infatti condizionato da continui dubbi e ansie che ti fanno vivere male: "E se qualcuno mi vede? Questo chi è? In fondo non lo conosco".

Per quanto riguarda quella parte della giornata che passi in carcere, l’istituzione carceraria si comporta nei confronti del semilibero a pieno titolo come con un ristretto chiuso a tempo pieno: se si fa eccezione per la possibilità di avere le scatolette di metallo, i vasi di vetro, le lamette in cella, il regime a cui si è sottoposti è identico a quello di chi vive in sezione. Forse più ristretto, per quanto riguarda almeno chi sta alla Giudecca, dove normalmente in sezione si è pressoché sempre aperti, e invece quando passi a vivere dove stanno i semiliberi sei chiuso, chiuso in cella e stop. I contatti con la sezione sono generalmente preclusi e dunque, pur essendo sottoposto a un regime che non è certo la vita libera, non ti puoi identificare negli altri ristretti in quanto confronti di solito non ce n’è.

In pratica esiste un equilibrio da mantenere in detenzione e un equilibrio esterno da creare tra i liberi: ed esisti tu che non sei detenuto e non sei libero. A sconvolgere il tutto c’è la voglia di identificarsi con qualcuno, di cui tutti abbiamo bisogno per relazionarci serenamente con gli altri, e che invece non trova una risposta nella condizione così incerta e poco definita della semilibertà: in pratica la domanda "chi sono?" sorge spontanea e vale per entrambi i livelli di vita, dentro e fuori del carcere, e questa confusione di identità crea isolamento, e l’isolamento non è certo compagno della serenità.

 

Ti trovi spiazzato, debole, fragile di fronte alla vita fuori

 

Fuori la solitudine di gran parte delle persone cosiddette "normali" è desolante – ma per quanto sia così, una rete di rapporti che comprenda qualcuno che senti vicino ce l’hanno un po’ tutti. Per una persona che esce dal carcere non è cosi per diverse motivazioni. Non è così per l’autocontrollo che ogni semilibero si impone, e non va scordato che per essere ammesso al regime di semilibertà devi dimostrare di essere "maturo", "pronto" a sostenere le frustrazioni esterne, ma questo significa che in qualche modo devi controllare le tue "debolezze" caratteriali. Non è così, perché, causa detenzione, le relazioni affettive precedenti si sono perse, sfaldate, rotte. Non è così, perché di solito hai delle prescrizioni, per le quali non sei libero di frequentare chi vuoi, e questo inevitabilmente provoca solitudine.

Come ci si comporta di fronte a tutto ciò? Non c’è certamente una ricetta, ognuno si affida prima di tutto, a volte a fatica, ai pochi rapporti familiari sopravvissuti, quando è possibile, perché spesso succede invece che molti detenuti sono assegnati a carceri lontane dal luogo in cui vive la loro famiglia (e anche questo merita di essere preso in considerazione ai fini di un reinserimento sociale), Ma l’unico vero appiglio è la propria forza interiore, che non è però a fondo perduto. La forza va alimentata per continuare ad attingerci, ma la forza è fatta anche di soddisfazioni professionali, che a un semilibero di solito sono precluse, in quanto, a parte rare eccezioni, la maggior parte si trova a svolgere attività di scarso interesse. La forza va sostenuta, ma il fatto che per anni la tua vita emotiva è stata castrata ti porta invece a ritrovarti spiazzato, debole, fragile di fronte alla vita fuori, che coinvolge naturalmente anche i sentimenti di una persona. Quei sentimenti negati per anni, per ricostruire i quali dovresti avere energie e tempo, e invece il semilibero solitamente ha il tempo necessario agli spostamenti e il resto, che è la parte più lunga della giornata, è dedicato all’attività lavorativa. E quasi niente resta per i rapporti affettivi, mentre ci sarebbe bisogno, affinché si sviluppino dei rapporti nuovi e si consolidino quelli "vecchi", di tempo, di condivisione di interessi, di scambio emotivo, di vicinanza, d’intimità. Queste cose sono fondamentali perché la persona abbia continuamente energia a cui attingere per andare avanti.

Certo la semilibertà è un passo importante verso una vita "normale", ma nessuno può pensare che sia una "non pena". È una pena, e anche faticosa da vivere, ci sarebbe forse bisogno all’esterno di una figura professionale, che faccia da supporto a livello psicologico a chi in certi momenti, svuotato dall’energia che richiedono i due equilibri, fa fatica a "non perdersi" e a non mollare.

 

Giulia

 

 

 

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