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Il
coraggio e la forza di raccontare sofferenze private Confrontarsi con la sofferenza altrui, farla propria, è un altro modo per espiare Soprattutto se ad accettare questo confronto sono persone che hanno sofferto per mano di altri e che usano la sofferenza per aprire la loro mente, per vedere a fondo
dentro se stesse di
Paola Marchetti Da
dove parto? Dall’agitazione della notte precedente in cui le poche ore che ho
dormito ho sognato di entrare in un carcere per un convegno (la realtà) e di
esservi trattenuta per motivi non chiari (le paure)? O
dall’emozione di mettere piede dentro un luogo che tristemente conoscevo?
D’accordo, non era lo stesso carcere. Al Due Palazzi non ero mai entrata. Ma
la sensazione che i cancelli, i “blindi”, i controlli, il lasciare tutto in
portineria, mi risvegliavano, era assolutamente devastante. Ci
tenevo ad esserci. Avevo fatto la mia richiesta al Magistrato, che mi aveva
concesso la possibilità di ascoltare persone che avevano subito, senza alcuna
scelta personale, una sofferenza grande come quella di essere vittime indirette
di un’azione che gente come me aveva compiuto. Ci
tenevo perché confrontarsi con la sofferenza altrui, farla tua, è un altro
modo per espiare. Poi c’è chi se ne rende conto e chi no. È questione di
sensibilità, di coscienza. Come dà grande gioia fare qualcosa di positivo per
il prossimo, così dovrebbe dare altrettanto grande sofferenza se al prossimo si
fa del male. Purtroppo non è sempre così, anzi. Altrimenti gran parte degli
esseri umani si consumerebbe di rimorsi. Davanti
al cancello del carcere ho avuto una sensazione di “già visto”, e quando
sono passata davanti al tavolo dove raccoglievano i documenti, e poi alla
postazione dove si lasciavano in custodia le borse, mi sono un poco rinfrancata
dal turbamento che l’essere lì mi provocava. Ma
il percorrere quei lunghi corridoi, passando davanti a guardiole, con gli agenti
che ti osservano, con i cancelli ogni venti metri, con il rumore delle chiavi
che li aprono e li richiudono – rumore che nessun ex detenuto riesce a
dimenticare per il resto dei suoi giorni – mi ha fatto ripercorrere il
corridoio che ha aperto la mia detenzione, assolutamente simile a quello del Due
Palazzi, anche se in un paese straniero. Già, perché le galere sono tutte
simili! Questo
rivivere momenti angosciosi e di sofferenza mi ha reso, quella mattina, più
pronta a percepire la sofferenza altrui, quella sofferenza che è emersa dalle
parole di ognuna delle persone che sono poi intervenute al convegno. Manlio
Milani, presidente dell’associazione vittime di piazza della Loggia, ha
raccontato gli accadimenti di quel giorno con il dolore di una persona che ha
visto morire la sua compagna e che ancora oggi, dopo più di trent’anni, non
sa chi sono i carnefici di quella strage. Dolore privo però di odio. Voglia di
verità, per poter guardare negli occhi i colpevoli e chiedere: “Perché”?
La stessa domanda che mi sono posta per anni anch’io quando ho perso la
persona che amavo, anche se persa senza che nessuno me l’abbia portata via.
Ugualmente davanti a quell’immane dolore mi sono chiesta “perché”, per
anni, finché il tempo non ha fatto il suo dovere e, anche se non ti fa mai
dimenticare, ti lenisce il dolore. Figuriamoci se l’avessi persa per mano di
qualcuno: come avrei reagito? Sarei stata capace di “non odiare”? Ognuna
delle persone intervenute ha espresso un modo diverso di vivere il proprio
lutto, e anche un modo diverso di rapportarsi – ma anche di NON rapportarsi
– con gli autori dei reati che hanno rubato loro gli affetti. Sono persone che
hanno sofferto per mano di altri e che usano la sofferenza per aprire la loro
mente, per vedere a fondo dentro se stesse. Persone
che quel giorno sono riuscite a coinvolgere, a tenere vivissima l’attenzione
di un pubblico enorme, parlando sottovoce – dimostrazione che per
“interessare” non serve urlare se gli argomenti sono importanti – con il
coraggio e la forza di raccontare sofferenze private. Sono
uscita dal convegno sentendomi una persona più “ricca”. La
maturità di conoscere i propri limiti, e quelli della nostra società Camminare
a testa bassa non è perdere la dignità È
difficile qui dentro convincere le persone ad abbandonare la loro fiducia in una
idea deformata della dignità, anche perché questo significa educare a dei
concetti che corrispondono ad un modello di vita fatto di umiltà e rispetto
verso gli altri di
Elton Kalica Le
paure che mi avevano disturbato il sonno nelle notti prima del Convegno “Sto
imparando a non odiare” profetizzavano un duro e ingestibile scontro tra le
persone invitate a parlare delle loro storie di sofferenze e le persone detenute
presenti per conoscere il volto delle vittime, ma ora posso affermare che quelle
paure hanno perso la partita con la realtà, che ci ha restituito un incontro
pacato fatto di reciproco rispetto. La
sera stessa dell’evento finalmente ho fatto “un sonno tranquillo”,
abbandonandomi alla branda e provando un forte senso di gratitudine verso i miei
compagni per il loro rispetto, e verso gli invitati che avevano deciso di
rendere quella giornata un evento storico, l’inizio di qualcosa di molto più
grande. La ritrovata serenità però non era destinata a rallegrarmi a lungo con
la sua compagnia, visto che la mattina successiva ho scoperto che alcuni
compagni detenuti avevano stretto i denti con nervosismo al monito che una dei
famigliari delle vittime aveva fatto, rivolgendo a chi le ha ucciso il padre un
invito a camminare a testa bassa. La
reazione ostentava come uno stendardo la difesa della propria dignità,
considerata un diritto inviolabile, e qualcuno aveva l’aria quasi offesa.
“Camminare a testa bassa significa perdere la dignità…”, diceva uno,
“Io quando uscirò di qui terrò la testa alta perché la galera me la sto
facendo tutta!”, continuava un altro con la fermezza di chi vuole che gli
venga riconosciuta una cosa che gli appartiene per natura. Avrei
voluto analizzare le impressioni scolpite nella mia mente dalle parole dei
relatori e poi scriverle, per offrire al lettore un altro puzzle da mettere nel
quadro degli effetti prodotti in noi da questo particolare incontro, ma a questo
punto non posso sottrarmi dal fare invece una considerazione su queste
inaspettate reazioni. Il
punto cruciale sta ovviamente nella concezione che si ha della dignità in
quella società che io, per “deformazione professionale”, sono ormai
abituato a dividere tra “regolari” e “banditi”. Partendo da questa
divisione, penso che una persona regolare intenda per dignità la pretesa che
uno ha nei confronti degli altri di essere rispettato per le cose buone che ha
fatto: rispetto dovuto come riconoscimento di una vita vissuta seguendo la legge
e i valori condivisi dalla società in cui si vive. Diversa
è secondo me la concezione che si ha della dignità qui in carcere. Ci sono
persone che credono di dover essere rispettate per il potere che hanno di fare
del male – spesso già dimostrato attraverso le azioni che le hanno portate
qui – quindi si tratta di un rispetto dovuto come riconoscimento ad una vita
dedicata ad accumulare denaro e potere, spesso infrangendo la legge. Molti sono
convinti che la vera dignità la si perde se non si è abbastanza forti,
abbastanza furbi o abbastanza ricchi, e qualsiasi persona regolare troverebbe
difficoltà a convincere anche l’ultimo dei banditi che la dignità si ha
quando si vive nel rispetto dei valori condivisi e non credendo in altre
“subculture”. Anch’io,
ingenuamente, per un po’ di tempo sono stato affascinato da modelli di vita
che proponevano la forza, la fedeltà e il coraggio come valori fondamentali e
assoluti nella vita di una persona, e quando mi sono ritrovato a vivere
clandestinamente per le strade di Milano ho applicato gli stessi valori ad
un’azione che non era più improntata a una utopica civiltà di uomini forti,
ma a una quotidiana avidità. Commettere un reato all’età di vent’anni
senza però avere la mentalità di un criminale, mi ha gettato nella bocca
insaziabile di quella macchina chiamata giustizia, che con i suoi spietati
ingranaggi continua a tormentarmi anche dopo più di undici anni di carcere.
Un’esperienza che mi accomuna a tanti immigrati dell’Est europeo, che come
me hanno sì commesso dei reati, ma che non avevano nulla di criminale nella
testa quando sono partiti da casa: l’immigrazione però ci ha corrotti nel
comportamento con i valori degenerati di una libertà mal compresa, e il carcere
con i suoi schemi mentali si sta ora radicando nelle nostre teste, a tal punto
che la vita sarà sempre più dura per noi, per le nostre famiglie e per i
nostri Paesi, che dovranno pagare il prezzo più alto di questa immigrazione
finita male. Io
ho avuto la fortuna di conoscere in carcere persone e libri che mi hanno
riportato alla ragione, ma in considerazione del periodo di follia in cui sono
rimasto intrappolato per qualche anno, mi sento di affermare che una certa
concezione della dignità che si ha qui in galera è difficile da sradicare,
soprattutto in quelle persone che credono che per meritare il rispetto degli
altri si deve essere nelle condizioni di fare paura, perché solo chi ti teme ti
rispetta. Essere
rispettati per la capacità di far del male è stato un gioco pericoloso La
verità è però che oggi non solo chi è stato formato in un ambiente di
malavita è stato modellato in un mondo di violenza e paura: no, oggi basta
ascoltare i comizi di certi politici che incitano alla violenza collettiva verso
gli “indesiderati” per capire che minacciare, bruciare e linciare sono
azioni che possono essere accettate e interiorizzate anche da parte di chi con
la malavita non ha nulla da spartire. È quindi tanto più difficile qui dentro
convincere le persone ad abbandonare la loro fiducia in una idea deformata della
dignità, anche perché questo significa educare a dei concetti che
corrispondono ad un modello di vita fatto di umiltà e rispetto verso gli altri,
e questo modello ultimamente viene presentato dai media come una vita da
“sfigato”. La
lunga esperienza di galera che ho dietro le spalle mi fa credere che alla dignità
venga attribuito anche il significato di grande considerazione per se stessi,
che non si discosta tanto da quell’autostima che viene identificata come il
motore del successo e che è molto sentita un po’ dappertutto nella società.
E così come nel mondo degli affari, anche nella malavita dichiarata che è il
carcere, la grande considerazione verso se stessi è vista come una corazza che
uno si crea per difendere l’unica proprietà che abbiamo, e cioè l’integrità
fisica. Allora alla rivendicazione del camminare a testa alta corrisponde
l’assunzione di atteggiamenti “dignitosi” per far capire agli altri che
non gli è permesso di minacciare o violare questa proprietà. Del resto, basta
pensare che si trattava sempre di una questione di proprietà, della
“propria” donna in quel caso, quando solo pochi anni fa si considerava
dignitoso saper salvaguardare la fedeltà coniugale, anche facendo pagare con la
vita il tradimento. Se
il giorno del Convegno qualcuno ha detto che si doveva camminare a testa bassa,
e qualcuno poi si è risentito dicendo che non intendeva abbassare la testa, è
successo soprattutto perché abbassare la testa significa anche non fare più
paura, significa accettare di vivere non dimenticando le proprie responsabilità,
ma più di ogni altra cosa significa rinunciare al proprio orgoglio. E
allora la conoscenza della sofferenza altrui, la riflessione sui propri
comportamenti e i buoni propositi di una vita condotta nella legalità vengono
immancabilmente a scontrarsi con il nostro orgoglio, che è più grande
dell’edificio che ci detiene, e in questo modo continuiamo a rimanere
incastrati nella ragnatela della violenza, dell’avidità e del disprezzo per
il prossimo. Qualcuno vorrebbe convincermi che, in fin dei conti, questi sono i
valori che ci impone la società di oggi, ma non ci riuscirebbe perché io so
bene quanto noi, detenuti ed ex detenuti, non saremo più la società. Quelli
fuori, lavoratori, dirigenti, ragionieri, avvocati, banchieri e politici, se lo
possono permettere, di partecipare alla corsa verso il successo, noi invece
secondo me non possiamo più permettercelo perché quella corsa l’abbiamo
persa. Non
si è perdenti a vita però se si ha l’intelligenza di capire di aver
sbagliato tutto, se si arriva a pensare che forse gareggiare in simili gare è
stato sbagliato, se si prende coscienza che essere rispettati per la capacità
di fare del male è stato un gioco pericoloso per sé e per gli altri, visto che
spesso qualcuno finisce per essere ammazzato e altri finiscono in carcere
condannando sempre qualcun altro a crescere senza genitori. Io credo che si è
più vincitori se si abbandona questa assurda gara, anche perché se si mettono
da parte l’orgoglio e l’avidità ci sono molte più probabilità di essere
rispettati. Camminare
a testa bassa non mi fa paura, non è perdere la dignità, ma se mai significa
iniziare a conquistarsela piano piano, la dignità, senza dover far male a
nessuno. L’essere vittima di un reato non ha scadenza, non si è mai una ex vittima È quello che ho capito durante un convegno in cui ho avuto modo di vivere con più
intensità che in tanti anni di carcere di
Maurizio Bertani Impressionante
partecipare ad un convegno come quello che si è tenuto il 23 maggio
all’interno della Casa di reclusione di Padova, con la presenza di più di
cento detenuti e oltre 600 ospiti, tra cui numerose vittime di reato. Il
convegno è stato improntato sull’ascolto delle vittime, sulla necessità di
capire le loro necessità ed esigenze da soddisfare, proprio perché quello che
ho capito è che l’essere vittima di un reato non ha scadenza, non ha tempo,
non si è mai una ex vittima, si è vittima e basta, con il proprio dolore che
quasi sempre non si può condividere né “frammentare” per sentirne meno il
peso. Il
sentire il dolore degli altri è un “sentire pesante” per noi: Silvia
Giralucci dice nel suo intervento che quando un autore di reato ha finito la
propria pena ha diritto al rientro nella società, e che lei non è contraria a
questo, ma un rientro in punta di piedi, o meglio con lo sguardo basso. Ma
ancora prima che venissero pronunciate queste parole, per l’emotività del suo
racconto, vissuto nella tragedia, e non per colpe personali, era già rivolto al
basso non solo il nostro sguardo, ma anche il capo. La
tragedia subita da Manlio Milani, che perse la moglie nell’esplosione di una
bomba in Piazza della Loggia a Brescia, lo fa vivere in uno stato di
“sospensione”, lui non sa, ancora oggi, chi sono i colpevoli e non conosce
la storia, o meglio ne conosce metà, il cosa e il come è successo, ma i mille
perché sono senza risposte. E se è vero che non ci si può rassegnare, è vero
anche che non vi è la possibilità di trovare pace dentro il proprio dolore se
non si conosce l’altra metà della storia. Soffiantini
parla del suo dramma e lo sposta nel sociale, lo sposta sul recupero delle
persone che hanno commesso reati a volte drammatici: servono carceri migliori,
programmi di recupero vero, e questo è anche un interesse per la società,
perché più il carcere lavora sul recupero e meno saranno i drammi futuri. Il
suo sequestratore era recidivo, e forse Soffiantini, che ha vissuto
l’esperienza di un sequestro in prima persona e per un tempo così lungo, 237
giorni, può anche aver notato che il carcere fatto precedentemete dal suo
sequestratore era stato inutile, come lo è spesso tutt’oggi, e lo sarà
sempre, finché il carcere rimarrà “chiuso nel carcere”. Le
carceri “aperte” alla società sono ancora poche, a parte qualche isola che
chiameremo per modo di dire felice, dove realmente si può provare a fare quel
cammino che passo dopo passo, porta a una presa di coscienza e a una assunzione
di responsabilità non dico giuridica, ma almeno morale. Andrea
Casalegno, che ha avuto il padre ucciso dalle Brigate Rosse, dice di non provare
odio e afferma che i problemi della giustizia e della gestione delle pene non lo
toccano perché non sono suoi, ma dell’intera società che si è data delle
regole. La condanna di un reo spetta ai tribunali e ad un giudice che la emette,
il tempo dell’esecuzione e le sue modalità spettano ad altri giudici, e
Casalegno non ritiene di avere alcun diritto di intervenire in questo. Ma cos’è
che moltiplica il suo personale dolore nel sentirsi vittima? L’incapacità di
molti autori di reato di evitare quella visibilità, che offende il dolore delle
vittime, quel dolore che non ha “scadenza”. Così
per gli autori di reato, un ladro può diventare un ex ladro, un omicida non lo
può fare e deve confrontarsi e tener conto di questo, sempre e soprattutto
verso coloro che vivono e rivivono ogni volta il loro dolore di vittime. Allora
mi dico: non è forse giusto criticare questo inutile e offensivo bisogno di
visibilità che hanno tanti ex terroristi? Olga
D’Antona, che ha perso il marito, ucciso dalle nuove Brigate Rosse, ci parla
della necessita di ascoltare, di dialogare, di capire le ragioni degli altri,
proprio perché gli uni e gli altri sono uomini, sono donne, sono umanità. Ma
se non si riesce a dialogare e capire le sofferenze delle vittime, e capire le
loro esigenze, non si potrà mai arrivare all’abbandono dell’odio. Lei che
afferma di essere incapace di odiare, ci spiega però come la verità sui fatti
può in qualche modo attenuare l’odio, e ci dice che negli autori di reato, se
non c’è una forte presa di coscienza del male fatto, non ci potrà essere
recupero, perché ognuno si barricherà sulle proprie ragioni, che per le
vittime sono reali e sono rappresentate dal dolore, per gli autori sono
effimere, perché prive di una vera presa di coscienza per il dolore provocato. Sappiamo
che per i nostri gesti ci sono altri che hanno più diritto di soffrire Diverso
l’intervento del padre di un detenuto, che parla del suo sentirsi vittima del
disastro che provoca il reato anche nella famiglia di chi lo compie,
dell’umiliazione, del perdere il contatto con il tessuto sociale che ti
circonda, dei giorni dei mesi e anni di vergogna, pur non avendo fatto nulla di
male, di questa pena che una famiglia di un detenuto è costretta a vivere. E
qui ognuno di noi vede la sua famiglia, e la commozione è forte, ma in un certo
senso dobbiamo far presto ad accantonarla, perché sappiamo che per i nostri
gesti ci sono altri che hanno più diritto di soffrire. Ecco,
questo è stato per me il “sentire pesante” di tutte queste testimonianze,
mi ha fatto male, sì molto, ma credo che abbia fatto anche più bene: capire,
accettare, prendere coscienza, sono cose che lasciano il segno, ho avuto modo di
vivere con più intensità in questo giorno che in tanti anni di carcere. Non si
è parlato certo di “non carcere”, non si è parlato di “non pena”, anzi
si è detto che la pena ci deve essere, ed è giusto che ci sia, ma ciò di cui
si è parlato è stato il rispetto, rispetto reciproco, sia per le vittime che
per gli autori di reato, le vittime con tutte le loro esigenze, di conoscenza,
di verità, di saperne di più, di essere trattati con delicatezza da parte
degli altri, noi autori di reato con la voglia di una presa di coscienza, di una
assunzione di responsabilità morale ancor prima che giuridica. Gli
uni e gli altri chiedono al carcere che sia questo il suo compito, stimolare una
presa di coscienza, e che questo compito lo svolga mettendo in campo tutte le
risorse possibili, istituzionali e di volontariato, che il carcere non sia
chiuso in se stesso, ma aperto alla società, e nella società, per restituirle,
chi al momento vive al suo interno, migliore di quando ci è entrato. Questo
è quello che ho sentito, quello che ho vissuto, fin dentro nel profondo
dell’io, con umiltà, spesso con commozione: la ragionevolezza delle parole
delle vittime, la loro sofferenza, le loro giuste esigenze. L’enorme
sofferenza delle vittime è rimasta incollata alla nostra pelle Per questo è importante che chi ha fatto del male conosca il viso, i sentimenti, le
angosce delle persone alle quali ha devastato la vita di
Marino Occhipinti Metà
luglio, sabato sera, un’afa opprimente. Ho appena riascoltato le registrazioni
degli interventi del convegno “Sto imparando a non odiare” e ancora oggi,
nonostante il tempo trascorso, continuano in particolare a colpirmi, con la
stessa intensità di allora, le parole cariche di dolore di Silvia Giralucci.
Quel giorno la sua voce, spesso incrinata, ha letteralmente ammutolito la platea
e ha trafitto gli animi di molte delle persone presenti, noi detenuti su tutti. Quando
ha raccontato la sua drammatica esperienza ho cercato di trattenermi ma le
lacrime scendevano lo stesso. Ho pianto per le cose che ci ha detto, ma anche
per il suo stato d’animo: mi sono reso conto che chiedendole di ripercorrere
la parte più tragica della sua vita le stavamo infliggendo delle ulteriori
sofferenze. Dopo il suo intervento sono stato tentato, più volte, di
avvicinarla, di parlarle. Avrei voluto domandarle se qualcuno le aveva mai
chiesto scusa per quello che hanno fatto a lei e alla sua famiglia, e se così
non fosse stato, naturalmente per quel che poteva contare, avrei voluto
chiederle scusa io per conto loro. Non è la stessa cosa, lo so benissimo, anzi
forse è soltanto un pensiero stupido, ma ho sentito fortissimo questo
desiderio, e se non mi sono avvicinato è stato solo per il timore della sua
reazione. Non
volevo essere invadente, l’ho vista molto tesa e anche per questo sono rimasto
sorpreso, e contento, quando al momento dell’uscita è venuta a porgermi la
mano spiegandomi che presto sarebbe venuta in redazione assieme a Benedetta
Tobagi, che non aveva potuto partecipare alla Giornata. Spero
che Silvia, così come tutti gli altri “relatori”, sia uscita da questo
carcere con l’animo più sollevato e con il cuore un po’ più sereno di
quando è entrata, in ogni caso la sua enorme sofferenza, che è rimasta
incollata alla nostra pelle, ha lasciato un segno veramente profondo e
indelebile in tutti i partecipanti. Il
23 maggio con me c’era un mio compagno detenuto per omicidio, una persona
abbastanza “dura” che in questi anni di detenzione trascorsa assieme non ho
mai visto farsi prendere dalle emozioni. Ebbene, quando ha parlato Silvia, al
fianco del mio compagno c’era un suo familiare che continuava ad allungargli
fazzoletti perché non smetteva più di piangere. “L’uomo che ho ucciso
io aveva una bambina di tre anni, e anche lei, come Silvia Giralucci, non aveva
nessuna colpa”, mi ha confidato quella stessa sera. Io,
oltre ad aver provato le sue stesse sensazioni, sono rimasto molto colpito anche
e soprattutto dalle parole più dure che Silvia ha pronunciato nei confronti di
chi ha ucciso il suo papà, e degli assassini in generale. Ho provato disagio
perché molti dei comportamenti che Silvia vorrebbe che fossero tenuti dagli
assassini di suo padre io li vivo quotidianamente. Attimo dopo attimo. Ogni
volta che mi guardo allo specchio, e non solo la mattina, mi chiedo come sia
potuto accadere. Mi chiedo come io abbia potuto, con i miei gesti, infliggere
sofferenze alle vittime e anche alle persone a me care, che pagano quanto e
(molto) più di me per i miei errori. Alcuni
anni fa sono stato duramente rimproverato dalla mia educatrice perché non
riuscivo a parlare con le persone guardandole negli occhi. Me ne stavo sempre
“a testa bassa”, proprio come vorrebbe Silvia. Quello del 23 maggio è stato
il settimo convegno al quale ho partecipato, e seppur con tanto timore, anche
perché era senza ombra di dubbio il più difficile e delicato in assoluto, sono
riuscito a parlare per la prima volta. Fino ad ora, proprio per la paura di
ripiombare nella vita delle persone che a causa mia hanno sofferto e ancora
soffrono, me ne ero sempre rimasto in silenzio. Chissà
per quale strano e misterioso presagio, come se le parole poi pronunciate da
Silvia già aleggiassero nella mia mente, proprio pochi giorni prima del
convegno avevo scritto a una persona a me molto cara, e le avevo raccontato che
la vita mi sta dando molto molto di più di quello che merito, che “ogni
giorno è per me un giorno regalato rispetto a quello che ho fatto”. Sempre
alcuni giorni prima del convegno, nell’ambito di un’iniziativa organizzata
dalla cooperativa per la quale lavoro qui in carcere, un giornalista mi ha
ripetutamente chiesto se a volte sono felice. A parte che considero la domanda a
dir poco inadeguata, ho risposto soltanto che, dopo quello che ho fatto, io non
voglio, non posso, non devo essere felice, mi impedisco di essere felice. La
vita di chi ha ucciso non può più essere normale Dopo
neanche un mese, così come promesso, Silvia è venuta in redazione con
Benedetta Tobagi, il cui padre Walter, giornalista, venne assassinato quando lei
aveva tre anni. Sia Silvia sia Benedetta ci hanno confidato che non sarebbero
disposte a stare nella stessa stanza con chi ha ucciso il loro papà. “Assassini
che hanno scontato pochissimo carcere e che si sono rifatti una vita. Uno di
loro si è sposato, ha avuto un figlio e conduce una vita normale”, ha
aggiunto Benedetta. Intervengo
per dire che non sono sicuro che le persone che hanno ammazzato suo padre
possano vivere un’esistenza normale, semplicemente perché la vita di chi ha
ucciso NON PUÒ più essere tale. Ogni volta che vedo o che soltanto penso alle
mie due figlie, accanto a loro si “materializza” anche il viso di un’altra
ragazzina oramai donna, e cioè la figlia della persona che a causa mia non c’è
più, e magari anche alle persone che hanno ucciso suo padre potrebbe capitare
la stessa cosa. Sedersi
di fronte a vittime di reati così gravi non è mai facile, soprattutto stavolta
che nella nostra redazione ci sono due donne, poco più che trentenni, alle
quali sono stati uccisi i papà, quindi il timore che le mie parole possano
riaprire le loro ferite, e che le loro risposte possano essere conseguentemente
“pesanti”, è forte; invece Benedetta, inaspettatamente, dice che quello che
ho appena espresso le fa molto effetto, che forse non ci aveva mai pensato. Lentamente
l’atmosfera si scioglie, parliamo di mediazione penale e sia Benedetta sia
Silvia sono categoricamente contrarie a qualsiasi tipo di “contatto” con chi
ha ucciso i loro papà. Però sono state disposte a venire qui in carcere, a
parlare con noi, noi che abbiamo anche ucciso, e ci sembra un primo
significativo passo in avanti, un tentativo di “mediazione indiretta” che ha
comunque messo delle vittime di fronte a degli autori di reati molto gravi. Scrivendo
a Silvia Giralucci e a Benedetta Tobagi A
Silvia e Benedetta non ho scritto per convincerle di alcunché, quello che mi
preme è soltanto allargare un po’ il discorso su un tema molto complesso e
delicato come la mediazione. Per fare questo, ho però avuto il bisogno di
entrare nel personale, ovviamente nel “mio” personale. Nell’ambito
di tutta la mia vicenda sono condannato alla pena dell’ergastolo per una
rapina ad un furgone portavalori, nel corso della quale morì una giovane
guardia giurata. Ho appositamente scritto la parola morì, anziché uccidemmo,
per una istintiva forma di difesa che in tutti questi anni mi ha sempre portato
ad evitare l’utilizzo diretto del termine, che trovo insopportabile, quasi
impossibile da scrivere o da pronunciare. Nel
1988, Carlo aveva 22 anni, la stessa età che avevo io allora. Leggendo
i quotidiani dell’epoca seppi, fin da subito, che aveva lasciato una
bambina di due anni. Nel 2000, sfogliando casualmente Il Resto del Carlino,
trovai un articolo che parlava della commemorazione di quella tragica rapina, e
c’era anche la fotografia di una ragazzina, allora 14enne: era la figlia di
Carlo. Da quel giorno, il viso di quella adolescente dai capelli neri a
caschetto – della quale non voglio nemmeno scrivere il nome perché, così
facendo, mi sembrerebbe di entrare, ancor più di quanto ho già drammaticamente
fatto, nella sua vita e nella sua intimità – è stampato nella mia mente. E
quel viso lo “vedo” ogni volta che sono con le mie figlie o che solamente
penso a loro, e cioè sempre. Che
dire poi dei genitori di Carlo, dei loro occhi che ad ogni udienza venivano a
cercarmi davanti alla gabbia? Non li dimenticherò mai, sono uno dei miei tanti
incubi, e ancora oggi mi riecheggia in testa il pianto sommesso e straziante di
sua madre, che più di una volta il presidente della Corte d’Assise fece
accompagnare fuori dall’aula; mica perché “disturbava”, ma perché ad
ascoltarla era una pena che graffiava il cuore. Nel
2001 ho chiesto a un amico diacono di Bologna, col quale facevo colloqui, che si
informasse, in via assolutamente riservata e tramite il loro parroco, di come
stavano “quei” genitori. Quando tornò a trovarmi mi disse che ogni tanto il
parroco incontrava il padre per strada, ma che non aveva notizie della madre,
che non andava neppure più in chiesa perché la chiesa e la messa le
ricordavano il funerale del figlio… La
moglie di Carlo, invece, so solo che esiste, che dopo l’omicidio del marito,
probabilmente per sopravvivere al dolore, si è nuovamente trasferita in Puglia,
sua terra di origine; non l’ho mai vista, quindi non ho nessuna sua immagine
concreta, e forse proprio per questo, e non so se sia strano oppure no, nei miei
pensieri lei viene per ultima. Forse
è anche per tale motivo che ritengo importante che chi ha fatto del male conosca
il viso, i sentimenti, le sofferenze e il vissuto delle persone alle quali ha
devastato la vita; sarebbe giusto che le conoscesse non per trarne un vantaggio
emotivo personale, e cioè per stare meglio, ma per prendere piena
consapevolezza di quel che ha commesso e di cosa i suoi gesti hanno comportato. Per
questo, quando a fine incontro Silvia ha detto che lei ha sempre addosso il suo
cappotto di dolore e che quindi lo deve portare anche chi ha ucciso il suo papà,
le ho risposto che la mediazione, anziché liberare quelle persone del loro
fardello, potrebbe costringerle a indossare un cappotto ancora più pesante,
proprio perché la mediazione non è e non deve essere intesa come un momento in
cui fare la pace per “dimenticare” e mettere da parte quel che è accaduto,
che forse è ciò che più “spaventa” le vittime, ma anzi ha lo scopo, senza
alcun intento vendicativo, di porre chi ha fatto del male davanti agli esiti
delle proprie scelte. E
chi, meglio delle vittime, può narrare il dolore e la devastazione che quelle
scelte hanno lasciato, proprio come Silvia e Benedetta hanno fatto con noi? Ascoltare
le vittime per imparare a riflettere sulle proprie responsabilità Quella
vita dura delle sezioni Dobbiamo
restare con i piedi piantati per terra, e ricordarci che le condizioni di vita
in carcere spesso fanno dimenticare che un percorso di reinserimento vero si
basa su una conoscenza reale dei propri comportamenti e delle conseguenze che
hanno avuto sulle vite degli altri di
Daniele Barosco Faccio
parte della redazione di questa rivista da poco più di un anno, ne ho seguito
tutti i più recenti sviluppi, compresa la lunga preparazione della Giornata di
Studi “Sto imparando a non odiare”. E voglio dire senza ipocrisie aspetti
positivi, ma anche i dubbi che ho rispetto a tutta l’attività. Il senso di
un’attività di volontariato come questa è secondo me quello di confrontarsi
anche con i propri fantasmi, le proprie insicurezze sulla vita e sul futuro, che
per noi è sempre molto incerto e torbido. Cercare
di evadere dalla routine carceraria quotidiana, fatta dei soliti discorsi
estenuanti sulla possibilità di uscire con una qualche misura alternativa al
carcere, è quasi obbligatorio per chi vede un po’ più in la della miseria
della propria condizione. Ma questo non riguarda certamente la maggioranza dei
detenuti in ogni carcere, per i quali vi sono ben altri problemi da risolvere
prima di pensare al proprio futuro: Cosa mangiare? Come acquistare le sigarette?
Quando mi daranno un lavoro? Chi pagherà le bollette a casa questo mese? Quando
mi porteranno la terapia? Tutti
i giorni salgo in sezione e qualcuno è sempre alla ricerca di una carica di
caffè, una cipolla, una carota, un buono gas… Parlare del senso di una
attività come la nostra, e affrontare temi complessi come il rapporto tra
autori e vittime di reato, è allora difficile in questa situazione: in carcere
ci sono le docce spesso disastrate, le celle che non vengono ridipinte e
igienizzate in modo serio da anni perché non ci sono soldi, in queste
condizioni non è facile pensare alla nostra formazione, alla nostra cultura
della legalità, a dare un aiuto agli altri. Quello che facciamo in redazione,
con il giornale, con il sito, con il TG, con l’ufficio di orientamento
giuridico e di segretariato sociale è molto, ma a volte ci sembra poco per
l’impotenza che proviamo di fronte alle difficoltà e all’immobilismo della
vita carceraria. Impegnarsi
in attività come la redazione poi significa trovare spesso mille critiche da
parte di altri detenuti, e ancora rinunce all’aria e alle uniche ore di svago,
perché un conto è fare un’attività quando si è liberi di determinare la
propria giornata, un conto in carcere, dove tutto questo è molto relativo.
Quanto vale un’ora d’aria? Quanto vale una partita di calcio? Una
passeggiata? Certo, i risultati giungono su vari fronti, ma le rinunce per
ottenerli non sono cose da poco, qui dentro. Quanto
alle motivazioni con cui si sceglie di stare in redazione, io credo che la
logica del bene comune, dell’altruismo sincero e disinteressato non siano, per
forza di cose, sempre alla base di questa attività. Ognuno ha i suoi scopi più
o meno evidenti, può esserci anche quello formativo-educativo, quello del
servizio altruistico al prossimo, ma soprattutto ognuno cerca un appiglio verso
l’esterno del muro, e ciò non può scandalizzare nessuno, perché è logico
che, esauriti i vantaggi di una attività che ti rende la carcerazione meno
inutile, la realtà si riaffaccia in modo prepotente nella vita di ognuno di
noi, e forse là fuori non ci saranno più i volontari a farci da salvagente.
Camminare o nuotare con le proprie gambe e braccia oltre che con il proprio
cervello deve allora diventare un obiettivo raggiungibile, e questo avverrà
solo se le persone qui dentro lavoreranno sempre con la consapevolezza che fuori
esiste un altro Mondo, in cui è probabile che nessuno si prenderà cura di loro
come fanno qui i volontari. Io credo quindi che un senso a questo tipo
di attività culturali possa essere dato solo se vengono riconosciute come
percorso integrato che responsabilizza la persona a prendersi cura di sé prima
di tutto e poi degli altri. Ascoltare le idee degli altri è allora importante
per imparare a riflettere, ad accettare il confronto, a misurarci con realismo e
senza illusioni sul nostro futuro. Ascoltare le vittime, da questo punto di
vista, è doppiamente importante perché aiuta proprio a prendersi cura in modo
diverso di sé, con una riflessione profonda sulla propria responsabilità. E
non esiste nessun percorso di reinserimento che non passi per una conoscenza
reale dei propri comportamenti, delle proprie scelte e delle conseguenze che
hanno avuto sulle vite degli altri. Pagare
per i propri errori, ma rimanere persone Comprendo,
ma
la testa non credo di doverla abbassare So di dover chiedere scusa, di voler rimediare e riparare verso chi ho
colpito, ma
guardando dritto negli occhi chiunque di
Bruno De Matteis Un
assassino deve sempre girare a testa bassa e i miei diritti vengono e verranno
sempre prima dei suoi”… Frase forte, anzi fortissima, dura anzi durissima.
L’espressione del dolore mai sopito, che resterà dentro tutta la vita in
Silvia Giralucci per l’assassinio del padre da parte di terroristi quando
aveva solo 3 anni, lo comprendo e, pur essendo a mia volta un omicida, le sono
idealmente vicino nel dolore avendo perso dieci anni fa mio figlio di 25 anni in
un incidente stradale, e non avendo potuto partecipare al suo funerale a causa
di una applicazione insensibile di una normativa assurda e pure disumana…
Pertanto ritengo di essere una delle persone più adatte (me ne sento il diritto
come carnefice e vittima) a rispondere ribadendo che capisco le parole più
dure, ma non credo di dover abbassare la testa. Comprendo
il dolore, lo condivido intimamente, capisco forse più di ogni altro colpevole
quanto può essere profonda e mai del tutto rimarginabile una ferita di questa
natura e che la difficoltà, l’impossibilità di metabolizzare in pieno o in
parte un evento di tale tragicità possa portare ad esprimersi nel modo di
Silvia Giralucci, ma non posso, non voglio e non mi sento in dovere di girare a
testa bassa… Posso anche accettare che i suoi diritti vengano prima dei miei,
ma la dignità data da un percorso dolorosissimo di ripensamento verso gli atti,
compiuti nel mio passato, a cui si è aggiunta la tragica morte di mio figlio,
che ha reso esponenziale la difficoltà del mio “viaggio interiore”, del mio
rivisitarmi in questi dieci anni, mi fa dire a Lei e a tutti quelli che la
pensano in quel modo… no. Io la testa non la abbasso di fronte a nessuno… La
mia dignità mi impone di guardare dritto negli occhi chiunque, di chiedere
scusa, di rimediare e riparare verso chi ho colpito, verso la mia famiglia che
paga pure lei per una colpa che non ha, verso me stesso, ma sempre e comunque a
testa alta. Essere
persone, riconoscere i propri errori, pagare per questi non deve voler dire
subire la “condanna del capo chino”… è la richiesta di una umiliazione
perenne e sono sicuro che tutto ciò non appartiene neppure a Silvia. Ripeto:
comprendo benissimo il suo sfogo, durissimo e spietato, per un immenso, e a
volte insopportabile, dolore. Non
so se ci sarà mai modo di incontrarci e di parlarne uno di fronte all’altro
con sincera lealtà. Mi auguro di poterla incontrare per poterle stringere la
mano, se lo vorrà, e per ribadire quanto comprendo la sofferenza per un padre
che le è stato sottratto con tanta brutalità e mai le potrà essere
restituito. Un padre, come un figlio, non sono merce
riproducibile, sono entità uniche che restano nel cuore sino all’ultimo
giorno della nostra vita… proprio per questo reputo lei una persona non
diversa ma speciale, che spero di poter risentire e rivedere… Lo riterrò un
privilegio e un arricchimento per una persona quale sono io… una persona che
comunque porterà dentro sino alla fine il peso degli errori commessi, ma sempre
a testa alta. Questo mi deve essere concesso. Quando
si conosce solo il linguaggio della vendetta Oltre
alla sofferenza ci
hanno trasmesso una enorme quantità di cultura Dalle vittime è venuta una cultura di dialogo e apertura, che oggi manca assolutamente nel mio paese, l’Albania, ma che manca sempre di più anche qui
in Italia di
Pierin Kola Alla
giornata di studi che abbiamo organizzato nella palestra del carcere ho
partecipato con molta curiosità. Ero attentissimo perché tutti dicevano che
poteva succedere di tutto. Infatti, c’era tensione pensando alla presenza
delle vittime, perché non è facile vederti uccidere un famigliare e poi
entrare in carcere per raccontare la tua esperienza a cento condannati. Ma sin
da subito mi ha colpito la dignità mostrata dalle persone, vittime di reati,
che sono venute a parlarci, e soprattutto la mancanza di animosità nei
confronti di tutti noi, che comunque siamo qui per aver fatto del male a
qualcuno. Questo mi ha fatto riflettere molto sul fatto che quelle persone
avevano uno spessore culturale notevole e credo che la cultura abbia avuto un
ruolo importante nel modo con cui si sono poste rispetto a noi. Certo che se
fossi stato anch’io un giornalista o uno scrittore, forse non avrei fatto gli
errori che mi hanno portato in carcere. Non è che adesso cerco di giustificarmi
dicendo che era tutta colpa dell’ignoranza, dico solo che ascoltare quelle
persone parlare in modo così aperto e umano, anche se piene di dolore e rabbia
per i famigliari uccisi, mi ha fatto riflettere che la cultura c’entra molto. Io
fino a ieri pensavo che quando qualcuno ti fa del male, l’unico linguaggio da
usare è la vendetta e la violenza. Ma il giorno del convegno, mentre ascoltavo
Silvia Giralucci, ho provato a mettermi nei suoi panni e a immaginare per un
momento di essere anch’io uno che dice al suo nemico: “Non mi interessa la
vendetta, però ti devi vergognare di quello che hai fatto”. Allora ho pensato
che, se anch’io avessi avuto il coraggio di dire questo, oggi non sarei qui e
non avrei tolto la vita ad un altro. Ma non solo io. Se anche molti miei paesani
ragionassero così, non ci sarebbero in Albania tutti quegli omicidi per
vendetta e tante famiglie distrutte dal dolore. Invece io e molti miei compagni
di scuola pensavamo che studiare e imparare a ragionare fosse solo una perdita
di tempo, e che la cosa più importante erano i pantaloni di marca e le macchine
sportive. Così, quando mi sono ritrovato a dover usare la testa, mi sono fatto
trasportare dall’istinto invece di ragionare. Allora
io penso che questo incontro è stato soprattutto uno scambio culturale, o per
meglio dire che le persone che sono venute a raccontarci le loro sofferenze ci
hanno trasmesso anche una enorme quantità di cultura, quella cultura di dialogo
e apertura che oggi manca assolutamente nel mio paese, ma che manca sempre di più
anche qui in Italia. È
umano avere paura di
quello che non si conosce Sinceramente pensavo che qualcuno venisse qui a curare le proprie ferite, temevo di ricevere
degli insulti o qualcosa del genere di
Jovica Labus La
giornata di studi “Sto imparando a non odiare”, un incontro tra le vittime e
i detenuti, è stata organizzata dalla redazione di Ristretti Orizzonti di cui
anch’io faccio parte da pochi mesi. Sin dall’inizio, scoprendo che si stava
preparando un convegno così diverso, mi sono chiesto tante volte: “Bisogna
proprio essere presenti o no?”. Devo ammettere che sono stato un po’
scettico, perché non sapevo esattamente che cosa ci aspettava. Temevo di
trovarmi in una situazione non piacevole. Insomma io sono sempre stato pronto ad
ascoltare però non ad essere insultato, e avevo paura che potesse succedere
questo. Sinceramente
pensavo che qualcuno venisse qui a curare le proprie ferite, non ero disposto a
ricevere gli insulti o qualcosa del genere. Nonostante io personalmente non mi
trovi qui per un reato di sangue, incontrare le vittime dei reati di altri mi
preoccupava ugualmente, perché non volevo vedere il loro odio. Ho
pensato molto prima di decidere se partecipare al convegno e oggi sono sicuro
che non ho sbagliato. Penso che sia stata una esperienza molto interessante che,
senza dubbio, mi ha arricchito, aprendomi dei nuovi orizzonti, inimmaginabili
per me fino a poco tempo fa. Rispetto ai miei dubbi e alle mie paure di prima mi
sono accorto di non aver tenuto conto di quanto è stato difficile (per una
persona che ha subito le conseguenze di un reato) venire in questo ambiente e
parlare davanti a centinaia di persone, tra cui anche 100 detenuti. Serviva un
colossale coraggio per poter spiegare il tipo di sofferenza, per la perdita
violenta di un proprio caro, che si vive ogni giorno. Loro sono diventate
vittime senza volere, provocare o cercare problemi del genere. Il minimo che
abbiamo potuto fare noi è ascoltare e rispettare, in silenzio, il loro dolore. Sono
stato anche molto sorpreso delle opinioni di alcune persone, tra le vittime,
che, nonostante esista un enorme “muro” tra di noi che ci divide, hanno
fatto delle dichiarazioni a nostro favore per la questione dei benefici e la
loro importanza per la società. Con quel gesto, hanno dimostrato ancora una
volta che la loro umanità e grandezza esiste e noi dobbiamo apprezzare non solo
la loro disponibilità a venire qui e dedicare, a noi, il tempo necessario, ma
anche la loro volontà di partecipare a una manifestazione che è stata simbolo
di un reciproco desiderio di abbattere le barriere che esistono tra di noi. Questo
evento così a lungo aspettato è servito, credo, a entrambe le parti, perché
abbiamo potuto conoscerci direttamente. Esperienze di questo tipo sono degne di
essere continuate e sviluppate ancora di più, e non dimenticate o messe da
parte, poiché il nostro è stato un grande passo avanti verso la civiltà, e
spero che attività come questa non si fermeranno qui. La mediazione penale
credo sia qualcosa che serve sempre alla società per il futuro di una giustizia
che concilia invece di punire. Temevo
questo incontro, ma ora penso che sia umano avere paura di quello che non si
conosce. Spesso i pregiudizi limitano la chiarezza nei giudizi e ci portano a
conclusioni sbagliate, mentre solo confrontandoci è possibile sconfiggere i
nostri timori e vincere le battaglie con noi stessi. E io credo di averne vinta
una. Non
voglio provocare ferite “aggiuntive” alle persone a cui ho già fatto del
male Se necessario, voglio imparare a camminare a testa bassa, o per lo meno a capire il
senso della parola “umiltà” di
Elvin Pupi Non
avevo mai pensato a cosa significa davvero camminare a testa bassa. E
inizialmente, quando una persona intervenuta al convegno “Sto imparando a non
odiare”, parlando degli assassini di suo padre, ha detto che questi devono
camminare a testa bassa, mi sono irrigidito. Guardo la televisione e ci sono
continuamente scene di morte, di massacri, spesso giustificati dal motivo che il
bene deve trionfare sul male, ma non avevo mai sentito qualcuno dire apertamente
che chi uccide una persona deve vergognarsi per il resto della sua vita. Sembra
che sia più facile dire che deve essere ammazzato anche lui a sua volta, che
deve marcire in galera, che deve essere torturato, ma nessun giornalista o
politico secondo me aveva mai avuto il coraggio di dire che non è la tanta
galera quello che conta, quanto piuttosto i comportamenti, il modo di affrontare
il proprio reato e di accettarne le conseguenze. In
redazione, quando parliamo di vittime e qualcuno dice che soffriamo anche noi
come i famigliari delle vittime, Ornella qualche volta risponde arrabbiata che
noi tante volte l’abbiamo provocata, la sofferenza, compiendo il più orribile
dei gesti, mentre i famigliari delle vittime se la sono vista piombare addosso
senza avere possibilità di scampo. Allora
io ho pensato al mio reato e quello di camminare a testa bassa di fronte ai
famigliari della persona che ho ucciso mi sembra il minimo che posso fare, perché
loro sono innocenti, e per causa mia stanno soffrendo e continueranno a soffrire
per il resto della loro vita. È
evidente che quando si uccide un’altra persona non si può più tornare
indietro e non si può farlo nemmeno quando avremo finito la pena, quindi non
dobbiamo mai dimenticare il male fatto, ma portarlo sempre dentro di noi.
Qualcuno dei miei compagni non sarebbe d’accordo con me, ma io credo che non
si può pretendere di riavere uno vita tranquilla e una coscienza rappacificata
dopo aver ucciso un altro essere umano. Così come io so che non dovrò mai
guardare negli occhi la madre della persona che ho ucciso, perché mi
vergognerei del suo dolore, e nello stesso modo dovrò provare vergogna anche di
fronte alle persone per bene che pensano che la vita umana sia la cosa più
preziosa al mondo. Non
ci avevo mai pensato prima, ma adesso che ho sentito la figlia di una persona
uccisa sostenere che lei non odia e non vuole vendette, basta che chi ha ucciso
suo padre tenga la testa bassa per il resto della sua vita, io che ho ucciso da
oggi comincerò a imparare a camminare a testa bassa. O per lo meno a essere
umile, e a vivere con la consapevolezza che ogni mio comportamento deve avere
alla base l’idea di non provocare ferite “aggiuntive” alle persone a cui
ho già fatto del male. Ascoltare
per imparare l’umiltà I nostri famigliari sono sì delle vittime, ma perché noi abbiamo scelto di
punirli Anch’io
considero vittime i miei famigliari, mia figlia sta crescendo senza di me, ma
loro sanno che se sono qui è per colpa mia e hanno scelto di continuare
comunque a volermi bene di
Dritan Iberisha Di
solito quando mi presento dico nome e cognome, oppure dichiaro la mia origine
albanese, ma ora voglio iniziare raccontando di essere in carcere per aver
ucciso due persone. Mi vergogno tanto a dirlo, ma ormai il mio reato è questo e
fa parte di me, come ne fanno parte il nome e la mia origine. Ho
detto subito il mio reato perché voglio raccontare le emozioni che ha provocato
in me il convegno “Sto imparando a non odiare”. Era la prima volta in vita
mia che partecipavo a un convegno, sia in carcere sia nella vita libera, e in
quelle poche ore mi sono ritrovato in un mondo diverso dal mio. Mi sentivo
strano a stare in mezzo a così tanta gente, e nonostante stia in carcere da
quattordici anni mi sembrava di essere in un posto estraneo. Quando
è iniziato il convegno mi sono seduto con altri carcerati e ascoltavo in
silenzio le parole di tutti quelli che hanno parlato e raccontato le loro
storie. Devo dire che ogni parola detta si incastrava subito dentro di me e sono
rimasto continuamente con gli occhi incollati sulle persone che parlavano. A
volte però c’erano affermazioni che mi colpivano maggiormente. Ad esempio
quando ho sentito che il padre di Andrea Casalegno è stato ucciso dai
terroristi praticamente perché era un giornalista intelligente e sensibile,
sono rimasto particolarmente confuso. Mi sono chiesto come sia possibile una
COSA ASSURDA come uccidere un essere umano perché intelligente, e in un certo
senso mi sono sentito quasi “giustificato” in quello che ho fatto, perché
io ho ucciso per vendicarmi perché mi avevano ucciso un famigliare. Però
ascoltando Casalegno mi sono reso conto che il punto non è mai la motivazione
dell’omicidio, che non c’è comunque mai nessuna buona ragione per uccidere,
perché il male che si produce è enorme e non si cancella nemmeno dopo anni e
anni. Anche
Silvia Giralucci ha detto qualcosa che mi ha toccato. Per lei gli assassini
devono camminare a testa bassa per tutta la vita. Per la mia mentalità da
albanese penso che lei abbia ragione, perché non è giusto che una vittima
innocente veda le persone che le hanno ucciso un famigliare comportarsi con
strafottenza, sentendosi del tutto libere. Io
mi rendo conto che chi ha ucciso, come me, anche se ha scontato la sua pena,
deve ricordare ogni mattina il male che ha fatto, deve pensare che lui è vivo,
ma altri non ci sono più, e deve avere rispetto per i famigliari delle vittime,
comportandosi con umiltà e con la consapevolezza che sono innocenti e soffrono
ancora oggi, e che nessuno gli può restituire i loro cari. Quello
schiaffo mi ha fatto capire quanto stava male Dopo
il convegno ho sentito alcuni detenuti dire che anche i nostri famigliari sono
delle vittime, visto che i nostri figli crescono senza i padri o senza le madri,
che stanno scontando la loro pena. Io penso che il discorso dei nostri
famigliari cambia rispetto ai famigliari delle persone che abbiamo ucciso.
Anch’io considero vittime i miei famigliari, mia figlia sta crescendo senza di
me e altri miei cari senza colpe stanno soffrendo forse peggio di me, ma loro
sanno che se sono qui è per colpa mia e hanno scelto di continuare a volermi
bene. Invece i famigliari delle vittime soffrono per colpa di altri, e non hanno
scelto loro di separarsi dal proprio caro. Per questo dico che i nostri
famigliari sono sì delle vittime, ma perché noi abbiamo scelto di punirli
quando abbiamo “deciso” con il nostro comportamento di venire in galera. Nel
convegno ha parlato anche il padre di un nostro compagno detenuto, e mentre
parlava mi sono ricordato di mio padre e gli occhi mi si sono riempiti di
lacrime. Sono tornato indietro al 1980, quando per la prima volta sono entrato
in carcere per una rapina. Ero il primo della mia famiglia che entrava in
carcere e tutti, famigliari e parenti, stavano male, si vergognavano di fronte
ai vicini di casa, di fronte a tutti. Ma io ero stupido e a queste cose non
pensavo minimamente. Poi, nel 1982 in Albania hanno dato un indulto
generalizzato e io sono uscito dal carcere. All’uscita mi aspettavano tutti i
miei famigliari ed io ero contento di essere di nuovo libero, così sono corso
per abbracciarli, ma mio padre ha fatto un passo in avanti e invece di
abbracciarmi mi ha dato uno schiaffo. Non mi aveva mai picchiato prima e quello
schiaffo era molto significativo, perché mi ha fatto capire quanto stava male.
Alla fine mi ha abbracciato anche lui dicendomi “Non ripeterlo mai più, perché
la vita non è questa e non sei da solo in questo mondo”. Mio
padre ci ha lasciati nel 1986 e sono sicuro che se fosse stato vivo oggi, e se
veniva al convegno, avrebbe detto le stesse parole di quel padre che parlava
quasi piangendo. Il coraggio che hanno dimostrato le persone che sono venute a
parlare, a portare le loro testimonianze rimarrà per sempre dentro di me, e
credo davvero che non lo dimenticherò mai, quindi posso solo dire grazie a
tutti. È
possibile arrivare a una riconciliazione? Si può riparare un danno se si riesce ad avere anche l’umiltà e il senso della
collettività necessari per ammettere i propri errori di
Prince Obayanbon Maxwho Sto
imparando a non odiare”: da questo momento in poi questa frase non ha più
solo un valore “letterario” per me, ma coinvolge direttamente la mia
esistenza, perché voglio davvero confermare questo cambiamento con le mie
azioni e i miei pensieri e soprattutto con una percezione diversa di tutto ciò
che mi circonda. Ma credo che in tanti abbiano percepito che qualcosa stava
cambiando, perché nessuno si è azzardato a pensare che un avvenimento così
importante, come il confronto tra vittime e autori di reato, potesse avere avuto
origine da una ragione di convenienza a senso unico. No, quel convegno è stato
importante perché ha parlato di come ritrovare una ragione di vita, di pace
esistenziale, di responsabilità individuale, in modo disinteressato, senza mai
far entrare in gioco benefici particolari, convenienze, calcoli o tornaconti
personali. Mi
ricordo quando per la prima volta la questione dell’odio è stata discussa in
redazione proprio a partire dalle nostre esperienze più dure. Per me è stato
subito un segnale positivo, se si pensa che nella società odierna i messaggi di
tutti i giorni sono basati sull’odio verso il diverso, sul potere di apparire,
sull’usa e getta dei sentimenti, e soprattutto sull’egoismo dei propri
bisogni e dei propri sentimenti che schiaccia i bisogni e i sentimenti degli
altri. Solo se riusciamo a cogliere, in questo discorso sulla necessità di
spezzare la catena dell’odio, il vero senso del convegno, noi in prima
persona, gli autori di reato, e poi le vittime sofferenti senza nessuna colpa, e
quelli che si sono sentiti di operare volontariamente nell’ambito della
mediazione, liberi da ogni costrizione, allora capiamo anche che tutti abbiamo
da guadagnarci, e possiamo davvero continuare un dialogo, che per ora è solo
abbozzato. Credo
che, per iniziare, sia fondamentale capire che succede a tutti di sbagliare, a
volte di farlo in modo pesante, ma si può riparare se si riesce ad avere anche
l’umiltà e il senso della collettività necessari per ammettere i propri
errori, e di conseguenza saper chiedere scusa e, soprattutto, capire se ci sono
dei gesti possibili da fare per arrivare a una riconciliazione. Io
credo allora di poter parlare di successo del convegno per tanti motivi:
Mi
sono anche reso conto che il convegno poteva rappresentare una speranza futura
per tutti senza distinzione, se veniva vissuto come l’inizio di un cammino
assai faticoso, ma degno di essere percorso, verso il superamento di
quell’odio, che ha spinto tanti di noi qui dentro. Spero di essere perdonato
se sembrano troppo utopici o moralistici i miei ragionamenti, o se possono dare
l’idea di uno che sta cercando di salvarsi dai suoi errori e dalla sua
tragedia, perché prima di ogni altra cosa ha timore di un giudice al di sopra
di tutti e di ogni cosa, a cui non può nascondere nulla! In realtà per me una
cosa è certa, ed è la presa di coscienza del significato di una vita che deve
andare oltre la pena e il carcere, per ragionare in profondità su quello che è
il concetto di responsabilità. Riguardo
agli interventi al convegno non mi reputo in grado di fare delle osservazioni
critiche sulle cose dette dai partecipanti, perché ero lì soprattutto per
ascoltare e per imparare, e per capire in che direzione c’è da procedere per
tentare una mediazione concreta tra gli uomini. Forse con il tempo potrò dare
un contribuito mio, quando le condizioni me lo permetteranno, ma in questo
momento mi ritengo già privilegiato per aver partecipato a questo convegno, che
mi fa sperare davvero in un domani migliore! L’odio
che domina il mondo del crimine e della miseria Il
desiderio di incontrare la
mamma del ragazzo morto anche per colpa mia Non so bene cosa potrei dirle, ma vorrei tanto spiegarle come sono andate le cose,
vorrei raccontarle che quella sera eravamo tutti accecati dall’odio di
Adnene El Barrak Partecipo
da molti anni ai convegni organizzati da Ristretti, ma quest’anno è stata una
cosa davvero particolare perché per la prima volta ci ha toccati tutti molto da
vicino. Anch’io sono in carcere per aver partecipato ad un omicidio e sentire
le parole dette quel giorno è stato davvero duro per me. Io sono tunisino e il
mio reato, come quelli della maggior parte degli stranieri, è legato allo
spaccio di piazza. Ho
preso parte ad una rissa tra due gruppi di spacciatori in un bar, e alla fine
della colluttazione uno della banda rivale è stato accoltellato a morte. In
questi tredici anni di carcere mi sono sempre ritenuto innocente, perché non
capivo quali colpe avrei dovuto pagare io, visto che ad usare il coltello è
stato un altro. Ho trascorso tanti anni in galera con la convinzione di essere
io una vittima, poiché il Tribunale mi ha condannato per un crimine che non ho
commesso io direttamente. E della persona uccisa ho pensato che è stata una
questione di destino, perché so che anche nel suo gruppo c’erano coltelli e
quindi a volte credo che sarei potuto rimanere anche io ucciso. Assistendo
però a questi incontri con famigliari di vittime di reato devo dire che alla
fine ho cambiato idea. Adesso penso che forse è stato giusto che io venissi
condannato perché, anche se non sono stato io direttamente a uccidere, comunque
ero lì e comunque una persona è morta, e io non ho fatto nulla per fare in
modo che questo non accadesse. Ascoltando
le persone che sono venute a parlare al convegno ho pensato al dolore dei
famigliari del ragazzo ucciso, e mi sono detto che anche loro hanno ragione di
condannarmi e di accusarmi di essere stato lì senza impedire in alcun modo la
morte del loro figlio. Sembrerà strano ma quel giorno è nato in me il
desiderio di incontrare la mamma del ragazzo ucciso. Non so bene cosa potrei
dirle, ma vorrei tanto spiegarle come sono andate le cose, vorrei raccontarle
quanto sia orribile vivere da clandestini spacciando, e come quella sera eravamo
tutti accecati da quell’odio che domina sempre il mondo del crimine e della
miseria. Non
ho percepito l’odio o la voglia di vendetta Io sono bosniaco e ho visto come l’odio e la vendetta hanno sprofondato il mio
paese nel sangue, facendolo ritornare ad una situazione medioevale di
Milan Grgic Sono
già tre volte che partecipo ai convegni della redazione, ma è la prima volta
che assisto ad un confronto su un tema così complicato come un incontro tra
vittime di reato e detenuti, e per questa ragione reputo questo incontro di una
importanza unica, soprattutto per i detenuti che hanno partecipato. Noi
che facciamo parte della redazione abbiamo discusso a lungo su come organizzare
al meglio questo incontro. Ci preoccupava capire quale effetto avrebbe potuto
produrre sulle persone presenti una iniziativa così complessa, come avrebbero
potuto reagire le vittime vedendo così tanti colpevoli di reati anche gravi
come l’omicidio. E poi, come avrebbero reagito i detenuti alle parole dure che
avrebbero potuto essere pronunciate dalle vittime. Ma come spesso succede nella
vita il coraggio alla fine viene premiato. Ero
seduto in prima fila sulla gradinata destinata ai detenuti, emozionato, e con un
po’ di vergogna aspettavo l’inizio dei discorsi che sarebbero stati fatti
dalle vittime. Credo che sia stata importante la decisione di dare a loro e solo
a loro la parola, mentre noi siamo stati per tutto il tempo in silenzio ad
ascoltarle. Così, quando hanno iniziato a raccontarci le loro storie, sembrava
che per la prima volta tutto il carcere si fosse fermato in un reverente
silenzio, come se fosse sceso di nuovo Gesù ammonendoci a riconoscere i nostri
peccati. Ho
ascoltato con attenzione e sono stato rapito dal dolore che esprimevano quelle
persone, ognuna con la propria storia di sofferenza per la perdita di una
persona cara. Mentre non ho percepito l’odio o la voglia di vendetta, e questo
mi ha sorpreso molto. Qualcuno ha manifestato un senso forte di abbandono e di
indifferenza da parte delle istituzioni. Altri si domandavano come mai gli
assassini dei loro cari oggi occupano anche qualche ruolo importante
nell’apparato statale. C’era chi non sapeva ancora addirittura chi fossero
gli autori dell’uccisione del proprio famigliare, e quindi si augurava solo di
sapere un giorno la verità. Ma nessuno ha parlato di vendetta personale. Mi
aspettavo persone arrabbiate o accecate dall’odio, ero preparato a vederle
scagliarsi contro di noi, aggredendoci verbalmente e persino insultandoci.
Invece ci hanno sorpresi dandoci un grande esempio di civiltà. Io
sono bosniaco e ho visto come l’odio e la vendetta hanno sprofondato il mio
paese nel sangue, facendolo ritornare ad una situazione medioevale dalla quale
sta cercando ancora di uscire con molte difficoltà. La mia cultura balcanica è
impregnata di sentimenti arcaici che non hanno mai portato nulla di buono, se
non guerre e distruzione. Ma vedo che anche qui in Italia sempre più persone
manifestano nostalgia verso quei periodi orrendi della intolleranza verso chi
aveva la colpa di essere diverso. Allora penso che quelle persone che sono
venute in carcere, e che più di molti altri avevano ragioni per odiarci, invece
hanno dimostrato che è più utile se ci parliamo e se cerchiamo di conoscerci
meglio. Io
credo che questo convegno sia stato anche una rivoluzione di quel pensiero di
odio e intolleranza sempre più diffuso nella società, perché ha rovesciato
quel desiderio di vendetta che sempre più persone vogliono provocare. Sono
sicuro che non rimarrà un fatto isolato, perché le persone intervenute hanno
molto da insegnare non solo a noi detenuti, ma anche alle persone libere che
sempre di più hanno bisogno di qualche lezione di civiltà e legalità. La
strada che porta al futuro Questo convegno ha fatto emergere un’altra verità; che ci sono tanti che vogliono
costruire ed unire invece che dividere e distruggere di
Marco Libietti Venerdì
23 maggio 2008. Periodo temporale ore 10,30-16,00… Convegno presso la Casa di
reclusione di Padova Due Palazzi… tema “Sto imparando a non odiare”.
Ebbene – potrà dire qualcuno – cosa ci sarà di così particolare? Certo il
tema è profondo, più impegnativo di tanti altri, ma un convegno è un evento
in sé, e quindi? E
quindi il collo di un imbuto non lo si può catalogare come un semplice evento
perché è proprio questo ciò che ha rappresentato… un collo d’imbuto, una
naturale “strozzatura” di percorsi convulsi, contrastanti e contrastati, di
forze di diversa entità e correnti più o meno forti e, a volte, opposte e
divergenti. Questo collo, questa strozzatura ha due sole soluzioni: una è
l’afflusso, la convergenza di una quantità di detriti tale che si crea un
“tappo” e tutto ciò che è arrivato sin lì refluisce sino a ristagnare
formando un bacino chiuso, fine a se stesso, inutile… l’altra è che il
flusso si incanali con moderazione e pazienza provocando un duplice effetto, la
depurazione, il filtraggio di ciò che dovrà continuare il percorso tramite un
ordine ed una visione sempre crescente e, contemporaneamente, l’allargamento
del collo d’imbuto, la formazione di un “letto” più forte, solido e
sicuro nel quale possono convivere, confrontarsi, miscelarsi, progredire e
proseguire insieme tutte quelle componenti che si erano ammassate senza un
piano, un progetto chiaro e precostituito all’ingresso del collo. Questo
ha detto e questo ha in qualche modo sentenziato questa naturale strozzatura
passata sotto la dicitura di convegno. Ogni tanto nella storia della vita delle
persone si presentano, quasi emergono (con stupore anche di chi ha contribuito a
ciò), nei momenti apparentemente più complessi (e questo si può ben dire che
lo sia), situazioni e circostanze che “sentenziano” al di sopra di tutto non
la necessità di un cambiamento ma un cambiamento… lo si voglia o no questo
convegno è stato una di queste. Dalle 16 di venerdì 23 maggio 2008, comunque
vada, tanto, per tanti di noi, non è e non sarà più come era sino alle 10,30
di quella mattina. E ora si dovrà fare i conti con tutto questo, impostare
proposte, progetti, indicare possibili soluzioni per defluire e non refluire. Manlio
Milani, Andrea Casalegno, Adolfo Ceretti, Giuseppe Soffiantini, Silvia Giralucci,
Olga D’Antona, la redazione di Ristretti Orizzonti, i volontari, i detenuti,
la società, tutti questi erano e sono intervenuti proprio come forze, correnti,
idee, pensieri, convinzioni, considerazioni e stati d’animo eterogenei, a
volte in linea, a volte contrapposti (proprio come la confluenza verso il collo,
la strozzatura citata all’inizio) ma tutti pronti ad andare oltre, a
proseguire. Tutti con i loro contributi che arrivano da riflessioni e percorsi
personali con una elevata componente emotiva come nel caso della Giralucci e di
Casalegno, seppur con modalità di esternazione diverse, o con maggior
razionalità come nel caso di Soffiantini e Ceretti, sino agli interventi di
Milani e della D’Antona che hanno incorporato nelle loro riflessioni emotività
e razionalità ma, pure in questo caso, sempre e comunque con una propria unicità,
fuori da categorie come quella delle “vittime”. E sono state queste unicità
la forza assoluta, ma in questo caso in termini positivi, propositivi, che hanno
fatto sì che, per la prima volta, tante voci, tanti pensieri ed idee isolati,
seppur forti ed autorevoli, si siano potuti riunire, esprimere e confrontare con
tutte le parti in causa. Di
queste parti in causa una va citata per la sua grande, dirompente e fragorosa
silenziosità… i detenuti, questa componente che, per le prima volta, ha
accettato e deciso di mettersi in gioco, di fare una scommessa su se stessa…
in molti casi per la prima vera volta nella propria vita, davanti alla società
vittima e giudice… C’è
una parte di società che preferisce creare barriere sempre più alte e fossati
sempre più profondi La
sfida lanciata è molto forte, anche perché non è solo verso un proprio mondo
esterno ma, innanzi tutto, verso l’interno, l’interiorità di ogni singola
componente di queste parti, che hanno lanciato un messaggio: “Impariamo a non
odiare e proviamo a metter fuori la testa, insieme possiamo farcela”… ci sarà
da lottare con se stessi e con quella parte di società che rema contro, che
preferisce, con freddo calcolo, usando anche l’emotività e il senso di paura
della gente, creare barriere sempre più alte e fossati sempre più ampi e
profondi, ma questo convegno ha detto con forza un’altra cosa, ha fatto
emergere un’altra verità… ci sono tanti che ci vogliono o vorrebbero
provare, che sono disponibili a costruire ed unire invece che a distruggere e
dividere. È
proprio da qui che si deve riprendere, raccogliere le forze per defluire con
calma e pazienza, per allargare un po’ alla volta questo collo d’imbuto
naturale per costruire un letto sul quale poter scorrere tutti concentrando
sforzi, collaborazione e risorse… sarebbe bello che fosse giunta l’ora di
proporre, impostare piani programmatici che tengano conto della voglia di
confrontarsi di Milani, del dolore struggente della Giralucci, dello spirito
imprenditoriale di Soffiantini sul recupero-inserimento come costo-beneficio per
la società, della ferma volontà della D’Antona di non essere sempre e solo
considerata come quella a cui quel giorno hanno ucciso il marito, della volontà
e dello spirito di sacrificio del volontariato, della mediazione penale, dei
mass-media che diano voce e visibilità a tutto questo. E di uno spirito
“francescano” da parte dei rei, dei detenuti che siano disponibili verso le
vittime, la società, le loro famiglie e se stessi ad affrontare un percorso che
sicuramente inizialmente di agevole avrà ben poco, ma che li potrà portare a
rialzare quella testa e poter riutilizzare, non solo formalmente, quei diritti
che ora, come ha detto concludendo il suo intervento la Giralucci, non possono
richiedere con pari forza e dignità rispetto a chi sta dall’altra parte. Da
ora, da parte di tutti è giunto il momento di mettere un po’ da parte le
parole e le buone intenzioni, le riflessioni filosofiche, le invettive e le
rivendicazioni e passare a fatti concreti, a progetti precisi, impostati e
mirati… che il convegno del prossimo anno possa sancire tutto questo è
l’unico augurio e pensiero che si deve fare e deve animare ogni singola parte
intervenuta il 23 maggio, e che non basti più una palestra di un carcere come
letto dopo il collo d’imbuto. Spesso
penso di vivere oggi una vita che non merito di vivere Non posso immaginare un assassino che rimane indifferente nel sentir pronunciare il
nome della propria vittima, perché io non ci sono mai riuscito di
Andrea Andriotto Arrivo
a convegno già iniziato. Dal corridoio sento solo una voce di donna. Giunto
alla porta mi accorgo che la sala è piena. Questa volta c’è molta più gente
di tutti gli altri anni, mi guardo attorno cercando di capire cosa mi sono perso
e cosa mi aspetterà da questa giornata. La sala è percorsa da un silenzio
quasi irreale, ci saranno più di cinquecento persone e tutte zitte e attente. Allungo
lo sguardo verso il tavolo dei relatori e vengo catturato prima dalla voce e poi
dalle parole di quella ragazza che più o meno avrà la mia età: “…
quando uscivamo dall’aula bunker vedevo quelle persone e mi colpiva veramente
vedere come avessero l’aspetto di persone normali, che avevano una vita
normale, quando la mia, di vita, normale non lo era stata proprio per
niente…”. So
di sbagliarmi, ma ho come la sensazione che potrei anche essere io una di quelle
persone dall’apparente vita normale. Entro nella grande sala sentendomi
piccolino e con la sensazione di avere il dito di quella donna puntato contro,
incredibilmente mi sento addosso anche gli occhi di tutti. Se riuscissi a far
prevalere la razionalità mi renderei conto che in realtà non sono stato notato
da nessuno, tranne dall’agente che piantona l’entrata, e invece mi avvio
verso le gradinate affrontando quei cinque gradini che mi separano dal posto a
sedere come se avessi sulle spalle cento chili di cemento e mi trovassi ai piedi
dell’infinita scalinata di Trinità dei Monti. Mi sento pesante, quelle parole
mi entrano dentro con una prepotenza tale che iniziano a far eco e a rimbombare
nella mia testa: “Quello che mi aspetto io da un assassino è che tutte le
mattine alzandosi si chieda ‘ma che cosa ho fatto?’… e che
consideri ogni giorno della sua vita come ‘regalato’ rispetto a quel
che ha tolto e che si comporti di conseguenza…”. Avvistato
un posto mi vado a sedere vicino ad un conoscente, mi sembra di essere un po’
più impacciato del mio solito. Cerco di capire chi sia quella ragazza e mi
viene detto che si tratta di Silvia Giralucci. Ascolto con attenzione e fino
all’ultima parola il suo intervento e nel momento in cui finisce di parlare e
passa il microfono alla moderatrice, e mentre tutta la sala dimostra
partecipazione e applaude le sue parole, mi prende un morso allo stomaco. Penso
che se solo potessi vorrei dire a quella donna che mi dispiace per quanto le è
accaduto e che non ho la più pallida idea di come si possa sentire una persona
che uccide un potenziale o fantomatico nemico in nome degli ideali, ma so di
certo come ci si sente dopo aver ammazzato in nome della “disperazione” una
persona che non aveva nessuna colpa. Una persona che con la mia disperazione non
c’entrava assolutamente niente. Io
non so come si viva quando ti viene a mancare una persona cara in un modo così
inspiegabile e atroce, non so come si cresce senza il padre morto ammazzato, e
non so nemmeno cosa si possa provare nei confronti dei suoi assassini. Io
so solo come ci si sente quando ci si trova in un’aula di Tribunale mentre
qualche esperto cerca di ricostruire gli ultimi sanguinosi istanti di una vita
che oggi non c’è più a causa mia. So come ci si sente quando gli occhi dei
parenti ti fissano mentre ci si trova alla sbarra. So come si sta nel chiuso di
una cella, in compagnia della sola disperazione pensando a quello che si è
fatto, e so quanto si vorrebbe poter tornare indietro per ridare tutto ciò che
si è tolto in così pochi istanti. Io
so come mi sento quando mi succede di guardarmi allo specchio e mi rendo conto
che la persona che mi trovo di fronte è un assassino, e quella persona sono
proprio io. Io che una volta pensavo che per chi uccide non doveva esistere
nessuna comprensione o compassione, perché un atto così estremo, come
provocare la morte di un’altra persona, poteva essere solo una cosa
premeditata, voluta, cercata, per cui se si arriva a tanto si deve anche essere
consapevoli delle conseguenze, e pagarle in silenzio. Sono
passati tredici anni da quel giorno e, anche se faccio in modo di
distaccarmi da quel che ho fatto, ancora oggi spesso, spessissimo mi succede di
pensare a quella persona morta a causa mia. Per tutto questo tempo ho combattuto
in silenzio le afflizioni, le inquietudini, le pene di quanto commesso. Non so
se per i parenti della mia vittima sia abbastanza, ma a me succede continuamente
di pensare ‘… ma che cosa ho fatto?’, e spesso penso di vivere oggi
una vita che non merito di vivere. Le
persone che vogliono bene a me in un certo senso sono mie vittime Io
non so se ci sia una persona che ne ha ucciso un’altra, per sua volontà o
meno, che riesce a vivere ogni giorno della propria esistenza senza pensare a ciò
che ha tolto. Oggi non riesco nemmeno ad immaginarmela, una persona assassina
che riesce a vivere una vita normale. Non ci riesco, perché per me (e per molte
di quelle persone come me che ho conosciuto durante tutti questi anni di
carcerazione) è sempre difficile non mettere davanti a tutto il resto ciò che
ho fatto quel pomeriggio di tredici anni fa. Non posso immaginare un assassino
che rimane indifferente nel sentir pronunciare il nome della propria vittima,
perché io non ci sono mai riuscito, a rimanere indifferente nel sentir
pronunciare un nome uguale a quello che portava la mia vittima, non sono mai
riuscito a far finta di niente quando sento una voce simile alla sua, oppure
quando ho vicino persone che in un modo o nell’altro mi ricordano qualcosa di
quella persona… Non
so se per me sarà così per sempre, tuttavia mi rendo conto che per
sopravvivere devo riuscire a distaccarmi, devo riuscire a vivere una vita
normale, se non solo per me, devo farlo anche per le persone che nonostante
tutto hanno continuato a volermi bene e a starmi vicino in tutto e per tutto.
Perché se da una parte devo fare i conti tutti i giorni con la mia vittima e
con le persone che le volevano bene, dall’altra devo anche pensare alle
persone che vogliono bene a me. E anche loro in un certo senso sono mie vittime.
Sì, mie vittime perché la mia era una famiglia normale, che conduceva una vita
normale, che viveva in un paese normale. Una famiglia che si è svegliata una
mattina per andare a lavorare e invece gli è arrivata una mazzata tremenda
quando un carabiniere ha detto loro che il loro figlio, fratello, cugino, zio,
era stato arrestato per omicidio. La loro vita da quel momento si è stravolta,
le loro certezze, i loro gesti, le loro abitudini, le loro frequentazioni e le
amicizie… da un momento all’altro tutto è stato sconvolto, e solamente a
causa mia. I miei per un bel po’ di tempo si sono rifiutati addirittura di
uscire di casa e, pur di non incontrare persone o sguardi indiscreti e pronti a
giudicare, andavano a messa e a far la spesa a più di dieci chilometri da casa.
C’è voluto un po’ di tempo, ma poi anche in loro è prevalso l’amore, e
dopo essersi ripresi da quel terribile trauma hanno iniziato a riaccettarmi e a
pensare principalmente al mio bene, a pensare che scontata la pena in carcere
potrò tornare a vivere una vita quanto più normale possibile. Purtroppo però,
io, che ho ucciso, vivo e vivrò una vita che solo ad un occhio poco attento
potrà sembrare normale. Una vita in cui dovrò sempre fare i conti con i sensi
di colpa verso tutte quelle persone alle quali ho cambiato l’esistenza. “Vorrei
poter entrare in contatto con la famiglia della persona che ho ucciso” Lettera
aperta a Silvia Giralucci e a Benedetta Tobagi di
Mohamed Ali Madouri Sono
un detenuto della redazione di Ristretti Orizzonti, mi chiamo Mohamed e vengo
dalla Tunisia. Ho assistito all’intervento di te Silvia al convegno e poi
all’incontro in redazione dove siete venute insieme. Cerco di riassumervi la
mia storia prima di spiegarvi perché vi scrivo. Quando
sono diventato maggiorenne, ho lasciato il mio paese per immigrare in Europa,
per costruire il mio futuro e aiutare la mia famiglia, però le cose non sono
andate bene perché dopo pochi giorni dal mio arrivo in Italia mi sono
trasformato in un’altra persona. Sono entrato nella strada della criminalità
e mi sono messo a spacciare da solo. Ma in quella zona vi erano parecchi che
facevano lo stesso lavoro, e la mia presenza cominciò a disturbarli finché una
notte, senza alcun preavviso, mi hanno fatto un agguato, ho preso due coltellate
e sono caduto a terra. Allora uno di loro si è chinato sopra di me e mi ha
sfregiato, ordinandomi di lasciare il posto. Il
taglio era profondo e ha deturpato irrimediabilmente il mio viso. Da quel giorno
la mia vita, che già stava andando su un binario sbagliato, è cambiata ancora
in peggio: non ero più io, mi sono lasciato andare al bere, alla rabbia e
all’odio accumulati giorno dopo giorno verso l’uomo che mi aveva sfregiato.
A lungo ho sperato che i miei aggressori avessero capito il loro errore e
cercassero di rimediare con me per aggiustare le cose, speravo che venissero a
chiedermi scusa perché sinceramente non avevo l’intenzione di fare la guerra
con loro. Devo dire che immaginavo che, se non si risolveva la questione, prima
o poi andava a finire male, ed è quello che tragicamente è successo, e cioè
ho ucciso la persona che mi aveva rovinato tagliandomi la faccia. Confesso
che negli anni subito dopo il mio crimine ero convinto di aver fatto la cosa
giusta. Tutti quelli che conoscevo e sapevano come erano andate le cose mi
dicevano che avevo fatto bene, e qui in carcere ho trovato l’approvazione
anche di qualche agente. Non so se siete d’accordo con me ma anch’io credo
di essere stato, almeno in parte, una vittima, per quello sfregio che ho subito
che mi ha rovinato la faccia e la vita, e anche la mia famiglia lo è stata, e
lo è anche adesso, però oggi sono consapevole che il male che ho causato alla
madre della persona che ho ucciso e al resto della famiglia è molto più
elevato di quello che ho vissuto e sto vivendo io. Quando
infatti ho iniziato a frequentare la redazione di Ristretti Orizzonti e sono
entrato in quel clima di confronto che ci ha poi portati a discutere del nostro
rapporto con le vittime, ho cominciato a ragionare, e mentre prima non me ne
fregava niente della persona che ho ucciso e della sua famiglia, proprio per le
ragioni che ho già detto, adesso, anche grazie a Ornella che ci bacchetta ogni
giorno, mi sono convinto che non sono io la vittima, ma che le vere vittime sono
i famigliari della persona che ho ucciso. Da
lì ho cambiato atteggiamento e ho cominciato a vedere quello che ho fatto con
più serietà e con responsabilità. Ecco perché, con serenità, avevo preso
l’iniziativa di scrivere un articolo, che poi è stato pubblicato sulla nostra
rivista, dove parlavo di questo mio cambiamento, che mi ha anche fatto ricevere
un sacco di complimenti dai miei compagni per il coraggio di averlo messo nero
su bianco. Poi l’incontro con la signora Olga D’Antona ha lasciato il segno
in tutti noi e ricordo che un mio paesano si è messo a piangere, perché ha
visto in quella signora la madre del ragazzo che ha ucciso, e mi sono commosso
anch’io. Riusciremo
a buttar giù il muro che ci separa dalle persone che odiamo? Oggi
invece non sono del tutto sereno mentre vi scrivo questa lettera, anzi lo sto
facendo proprio perché l’incontro con voi mi ha sollevato delle perplessità.
Come dire, mi sono un po’ spaventato quando, a un certo punto della
discussione, si è parlato di mediazione e voi da quello che ho capito, siete
contrarie e non solo, non volete neanche discutere soprattutto con le persone
che hanno ucciso i vostri padri. Io
non so se sono la persona adatta per esprimere un parere, ma voglio lo stesso
dire una cosa, e cioè che spero che diventi naturale, arrivati a un certo punto
della vita, buttare giù il muro che ci separa dalle persone che odiamo, o che
comunque ci hanno fatto del male. Vivere con delle pareti stanca, e a un certo
punto viene istintivo uscire fuori e cercare di vedere in faccia le persone che
quel muro ha tenuto lontane per anni e anni. Faccio
questa riflessione perché l’incontro in redazione con voi mi ha aperto un
mondo nuovo, perché ho avuto tante risposte alle domande che mi facevo da anni.
Io da qualche mese ho iniziato ad andare in permesso premio, e devo confessare
che ascoltando prima le discussioni in redazione, e il confronto con Olga D’Antona,
e adesso anche le vostre testimonianze, ho deciso di farmi avanti per contattare
la famiglia della persona che ho ucciso e chiedere scusa. Così, appena sono
uscito in permesso ho parlato con un mio amico che conosce i famigliari della
mia vittima, che sono anche loro come me tunisini, e gli ho chiesto di fare da
mediatore. Lui in qualche modo ha iniziato a parlare con il fratello della
vittima per vedere se c’era la possibilità di fare questa mediazione e mi ha
fatto sapere che le cose stanno andando bene, e adesso la speranza è che, al
prossimo permesso, io possa per la prima volta comunicare telefonicamente con
loro. Non
sarà facile per me, ma immagino che sarà una cosa ancor più difficile per
loro, però in qualche modo bisogna iniziare per arrivare ad una
riappacificazione, e poi magari ad una vera riconciliazione e ad un incontro
faccia a faccia, perché io sono convinto che solo così loro potranno vivere più
sereni senza avere intorno il muro dell’odio che li soffoca da dieci anni. Non
so come andrà a finire questa cosa, ma comunque vada vi voglio bene per quel
che mi avete insegnato e per il coraggio che mi avete dato.
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