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È
necessaria una rielaborazione del reato commesso, non una sua rimozione Cronaca
di una giornata speciale Abbiamo sentito parole equilibrate, ma forti, che hanno sempre posto al centro il discorso della responsabilità, una responsabilità che non si esaurisce con
l’espiazione della condanna di
Lorena Orazi Responsabile
dell’Area pedagogica della
Casa di reclusione di Padova 23
maggio 2008. Tutto è pronto per il convegno: la palestra è stata dipinta,
pulita e allestita con sedie, tavoli, striscioni e alcuni stand a cura del
Centro di documentazione. Vi ha lavorato nei giorni precedenti un folto gruppo
di detenuti, fianco a fianco con gli agenti di Polizia penitenziaria, affinché
l’ambiente che anche quest’anno avrebbe accolto alcune centinaia di persone
venute dall’esterno e un centinaio di ospiti detenuti dell’istituto fosse
ordinato e accogliente. L’impianto
di amplificazione arriva alle 06.00 del mattino e grazie ad alcuni volontari e
agli agenti è funzionante nel giro di un paio di ore. I tavoli per
l’identificazione e il personale addetto all’accoglienza sono pronti per
rendere il più fluido possibile l’ingresso delle persone… sono attese
trecento, forse quattrocento o cinquecento persone che arriveranno a Padova con
mezzi propri o alla stazione e poi in carcere con i pullman
dell’Amministrazione penitenziaria. Nelle
settimane precedenti abbiamo lavorato alacremente perché l’organizzazione
fosse la più funzionale possibile, coinvolgendo il personale tutto, dalla
Polizia penitenziaria al personale amministrativo, dai detenuti ai volontari, al
personale della cucina detenuti. L’obiettivo era di creare le condizioni perché
l’incontro si svolgesse in modo ordinato, nel segno del rispetto per le
persone che avrebbero parlato. Non esperti, non politici, non personaggi di
governo, ma persone che avevano accettato di venire a raccontare la propria
storia, sotto il titolo del convegno: “Sto imparando a non odiare”. Gli
ospiti principali sono vittime dirette o indirette di reati molto gravi (una
strage, un sequestro di persona a scopo di estorsione, moglie e figli di persone
uccise da gruppi terroristici). Dall’ingresso
dell’istituto, lungo il percorso fino alla palestra, si respira nell’aria
una forte tensione emotiva sia da parte degli ospiti, molti dei quali non si
conoscono personalmente, sia tra i detenuti. Sono emozionati e tesi coloro che
apriranno il convegno spiegando il percorso che ha portato alla giornata
odierna; sono un po’ preoccupati coloro che si siedono sugli spalti a
rappresentanza dei detenuti dell’Istituto, persone che abbiamo incontrato nei
giorni precedenti spiegando e discutendo con loro la delicatezza del tema
trattato e chiedendo di avere un atteggiamento di ascolto attivo e partecipante,
in poche parole “rispettoso silenzio”. Risultato: molti sguardi e poche
parole. La
mattinata è costellata da racconti forti che lasciano il segno tra le persone
che ascoltano e tengono alta la tensione e l’attenzione. Vengono rievocati
fatti e vicende che per molte persone del pubblico rappresentano pezzi di vita
vissuti con drammaticità, per molti altri, i più giovani, quelli nati negli
anni 70 e dopo, rappresentano pezzi di storia del nostro paese forse studiati a
scuola all’ultimo anno delle superiori. Ma le persone che ne parlano riportano
quei terribili episodi a una dimensione di struggente realtà perché ognuno di
loro è lì in carne ed ossa, davanti a noi, a raccontare di qualcuno che non
c’è più, oppure di quello che ha pensato nell’essere completamente in balìa
di altri uomini per centinaia di giorni, della paura di non tornare a casa,
oppure della ricerca di una verità come per i morti di Piazza della Loggia a
Brescia. La
strada per il dialogo è forse aperta Nelle
parole che ho ascoltato non ho sentito rancore o risentimento. Ho sentito
pensieri e posizioni differenti che non hanno dato per scontato la “bontà”
dell’incontro tra vittima e autore di reato. Ho sentito la richiesta di
“essere lasciati in pace” e la richiesta di un’attenzione a non essere
offese di nuovo dalla superficialità o dal silenzio distratto della società.
Ho sentito parole equilibrate, ma forti, che hanno sempre posto al centro il
discorso della responsabilità, una responsabilità che non si esaurisce con
l’espiazione della condanna. E’
un concetto quello della responsabilità che nasce dalla consapevolezza e
dall’accettazione di un legame con il fatto compiuto, il reato, e con tutti
gli eventi e le persone che da quel momento vi rimangono legati per sempre. Per
chi compie un reato, in misura proporzionale alla gravità dell’atto, non
basta espiare una pena per non essere più un ex detenuto, un ex qualcosa che,
pur nella migliore delle riabilitazioni possibili, è legato a un evento che
cambia la vita e la costringe: se non si fosse compiuto quel fatto non sarebbero
successe tante altre cose. Parallelamente qualcun altro vive, suo malgrado, una
continuità esistenziale segnata dallo stesso fatto, vissuto in termini passivi.
Non basta la pena scontata dai responsabili a far diventare una vittima non più
vittima. In questo parallelismo si crea, a mio modo di vedere, un legame, una
sorta di confine delimitato dall’evento, entro il quale risiedono in modo più
o meno consapevole, in modo più o meno esplicito, autori e vittime. In
questo senso la responsabilità diventa un concetto chiave che va esplorato con
le persone detenute, responsabilità verso gli altri e verso se stessi per
provare a ricostruire un rapporto con la società, che si fondi su una
rielaborazione di quanto commesso e non su una sua rimozione. Un percorso di
elaborazione e non di rimozione può essere proposto anche alle persone che
hanno subìto un reato, un percorso che forse non sazierà la loro rabbia, non
le ripagherà del torto piccolo o grande che sia, ma può rappresentare un luogo
dove essere ascoltati, dove iniziare una riflessione e forse un dialogo. Credo
che l’incontro del 23 maggio sia stato una importante giornata di ascolto.
Credo che tutti quelli che vi hanno partecipato continueranno a riflettere su ciò
che hanno ascoltato. La strada per il dialogo è forse aperta. Non
servono muri, steccati o ghetti La
mano che mi trema ogni volta che giro la chiave nella toppa Anch’io sono stata molte volte vittima, ma penso che solo la conoscenza, il dialogo, la
mente e il cuore aperti possano aiutare gli autori di reati a rientrare nella
società civile di
Maria Grazia De Vivo insegnante,
ha partecipato al
progetto carcere-scuole Solo
quando, nel silenzio, le “vittime” hanno iniziato a parlare, mi sono resa
conto dell’impatto emotivo che le loro parole avevano su di me. Perché,
improvvisamente, ho rivissuto momenti che avevo sepolto in un profondo buio.
Perché, semplicemente, avevo dimenticato – dimenticato? – le tante volte
che ero stata vittima anch’io. Flash sul passato, dolori brucianti. Di
colpo il clima degli anni Settanta. Di notte un botto, noi alla finestra mentre
guardiamo, con stupore, la nostra mitica cinquecento bianca che brucia nel
cortile sotto casa. Incredulità. Mio padre nei giorni seguenti con la scorta,
gli agenti che lo aspettano per portarlo all’Università. Mio padre che con la
sua solita ironia minimizza. Mio padre, partigiano, ex detenuto di palazzo
Giusti, e proprio per questo strenuo difensore, sempre, della legalità, che si
esponeva e parlava ai suoi studenti della facoltà di Magistero e non accettava
la furia delle occupazioni, della violenza, lui che aveva combattuto e aveva
sofferto per far trionfare la democrazia… Altro
flash. Sposata da poco, torno a casa verso sera. Nel buio dell’ingresso una
strana sensazione, di aria fredda… In camera è tutto sottosopra, la finestra
è aperta, un nodo alla gola, paura, le mani mi tremano. Poi le telefonate, io
che mi rifugio a casa dei miei e poi… scoprire che non ho più nessuno dei
piccoli gioielli che mi avevano lasciato le nonne, nessuno dei ricordi della
cresima, del matrimonio, piccole tappe della mia vita. La mia vita che sento
violata, l’intimità della mia casa turbata da una presenza che non conosco,
la paura, la mano che mi trema ogni volta che giro la chiave nella toppa, mio
padre che con pazienza mi accompagna ogni sera e aspetta con me mentre faccio il
giro delle stanze, il ribrezzo che provo nell’aprire i cassetti che altre mani
hanno aperto, mani che non conosco… E
ancora un altro flash. Una domenica d’estate, un’ora di pausa per andare a
trovare mia suocera, il ritorno, un altro furto, il furto di tutto quello che
avevano lasciato i ladri precedenti. Strano
come mi ritorni la bocca secca, il buco nello stomaco, il senso di nausea. E
ancora un ricordo, forse più doloroso. Mio padre, anziano, che mi telefona con
voce tremante, lui sempre così forte e sicuro. La corsa a casa sua, la
serratura forzata, gli occhi smarriti suoi e di mia madre, increduli. Tutti i
gioielli spariti. Non ho più niente, ora, da mettere al polso, al collo, di mia
madre, di mia nonna. Il valore che avrebbero per me quelle poche cose non è
economico, è un valore di passato, di senso di continuità, di famiglia, di
affetti. E
poi il furto più odioso. La necessità di una badante che aiuti i miei nelle
sempre maggiori difficoltà, perché la mamma sta male. Una brava ragazza, per
un anno. Papà scende per una breve passeggiata. Quando torna la ragazza che
assiste la mamma non c’è più. Non c’è la pensione di papà appena
ritirata, non ci sono le vecchie pellicce di mamma. Costernazione. Senso di
impotenza. Rabbia, sì, anche rabbia. Ma non odio, mai. È
vero, anch’io, molte volte vittima, ho avvertito quella “perdita di un senso
di fiducia nei confronti del mondo” di cui parlava il professor Ceretti. Ma
l’ho recuperato. Perché la fiducia, comunque, nella bontà dell’uomo mi è
stata trasmessa fin da piccola e io l’ho insegnata alle mie figlie. Perché
ho trovato altre badanti bravissime, serie, che hanno lasciato nei loro paesi
figli e affetti. Perché
credo nella possibilità di una società migliore. Perché sono convinta che non
servano muri o steccati o ghetti, ma solo una maggiore giustizia ed equità
sociale. Perché mio padre mi ha insegnato ad avere paura dei rigurgiti xenofobi
di una società chiusa in se stessa e arroccata nella difesa dei suoi molti
privilegi. Perché credo – l’ho toccata con mano nel progetto che fa
incontrare studenti e detenuti – nella giustizia riparativa. Anch’io sono stata molte
volte vittima, ma penso che solo la conoscenza, il dialogo, la mente e il cuore
aperti possano aiutare gli autori di reati a rientrare nella società civile. La
presenza dell’“altro dolore” nel carcere è importante È importante che entri il dolore delle vittime, senza il quale il carcere appare assurdo e induce più di qualche detenuto a sentirsi un perseguitato di
Alberto Verra lettore
di Ristretti pluriderubato, autore
della lettera “Egregio signor ladro” Tra
i convegni organizzati da Ristretti a cui ho assistito sicuramente quello del 23
maggio di quest’anno è stato il più speciale. Sin dall’ingresso ho notato
un’atmosfera diversa, gli agenti quasi si scusavano di dover espletare le
solite pur necessarie formalità burocratiche di accesso in un carcere e
l’atmosfera cordiale con la quale accoglievano le persone ricordava la
professionalità degli operatori turistici, evidentemente anche loro sentivano
questo congresso in modo particolare. Abituati come sono al senso di solitudine
e di marginalità che devono sentire data la disattenzione verso la loro opera
da parte di istituzioni e popolazione, in quel giorno immagino abbiano trovato
nella partecipazione di vittime di gravi reati al convegno nel carcere dove loro
operano, uno sbocco concreto del loro lavoro. Anche durante i lavori
l’atmosfera era diversa e i discorsi introduttivi confermavano che stava
avvenendo un qualcosa che fino ad allora era stato un fatto solo auspicato. Non
deve essere stato facile far convenire in un carcere un certo numero di persone,
che hanno subito un’esperienza che ha marcato così tanto la loro vita, a
parlare della medesima, eppure io ho avuto la sensazione che quella palestra
dove si è svolto il convegno, di fronte a persone che in un modo o in un altro,
tanto o poco, hanno contribuito a quel genere di dolore, è, molto più di
altri, il posto giusto. La
presenza dell’“altro dolore” nel carcere è importante e dovrebbe essere
costante, perché renderebbe più logico un luogo che, visto senza vittime,
appare assurdo e induce più di qualche detenuto a sentirsi un perseguitato, a
non ricordare il passato sminuendolo, a dare tutte le colpe al destino (che pure
esiste) o ad un sistema crudele. Senza
la presenza fisica dell’altro dolore lo spacciatore penserà sempre che lui in
fondo non ha ucciso nessuno e quindi difficilmente comprenderà la dimensione
del suo commercio, allo stesso modo chi ha ucciso tenderà a ridimensionare il
suo gesto relegandolo ad una disgrazia o, per autoassolversi, a dimenticarsi dei
particolari più scomodi, dimenticandosi così di andare ad analizzare gli
schemi mentali o le abitudini di vita che lo hanno portato infine ad essere un
complice attivo del suo destino. Questa presenza che fino ad ora è mancata
all’interno del carcere è non solo necessaria, ma indispensabile affinché il
carcere sia un luogo che abbia un senso ben definito, e mi dispiace che i media
e le istituzioni siano spesso così disattenti e non sappiano cogliere appieno
uno spunto così importante come quello che viene dal convegno del 23 maggio. Da troppi anni in Italia su
questi temi si naviga a vista senza avere una qualsiasi rotta e come è noto non
ci sono buoni venti per chi non ha una rotta, ma io ho fiducia che in futuro
questa esperienza, che oggi appare così miracolosa da renderla una frontiera
nel mondo del carcere, verrà ripresa da qualcuno che questa rotta la possiede e
questo convegno potrà rappresentare per lui un buon vento. Imparare
a capire che cosa tiene unita una società Alcune riflessioni del laboratorio di scrittura di Rebibbia N.C., a partire dalla consapevolezza che il colpevole non dovrebbe essere lasciato da solo in questo
processo di ripensamento e cambiamento di
Luciana Scarcia dell’associazione
“A Roma Insieme”, docente
del Laboratorio di lettura e scrittura della Casa circondariale di Roma Rebibbia Il
convegno del 23 maggio “Sto imparando a non odiare” è stato una
straordinaria occasione di riflessione, utile sia per chi vive o opera in
carcere sia come contributo al dibattito sulla riforma del diritto penale. Ho
voluto perciò riproporre il tema dibattuto a Padova ai detenuti che frequentano
il Laboratorio di scrittura di Rebibbia N.C. Della discussione che ne è nata mi
hanno colpito due cose. Innanzitutto la profondità (dolente) delle loro
considerazioni, a conferma di quanto sia stimolante il tema proposto, poi la
lucida (e amara) consapevolezza che, ragionando sul piano dei destini personali,
i conti con il proprio passato non finiscono mai, anche quando lo Stato pone la
parola fine all’espiazione della pena. Che
cos’è giustizia? - è stata la domanda centrale. La giustizia come idea di
bene da riaffermare non può esaurirsi in quella dei tribunali, ma deve essere
considerata come una visione di rimedio al male fatto o subito e come un ideale
cui tendere. Questo implica – come ha detto e scritto Ornella Favero –
“assunzione di responsabilità” o – se vogliamo usare una parola
pericolosa ma sempre dotata di senso – “pentimento”. Durante il convegno
le parole di Silvia Giralucci “Si può diventare un ex-terrorista ma mai un
ex-assassino” sono risultate particolarmente dure per chi è autenticamente
convinto di aver preso la distanza dal passato di terrorista cambiando
radicalmente vita. Eppure quelle dure parole sono profondamente vere: il male
commesso è irrimediabile – tanto più se si tratta di vite umane – ; né
possono bastare la pena espiata o la convinzione soggettiva di aver pagato con
il dolore. D’altra parte, però, se la società non riconoscesse all’autore
di reato il diritto a rimediare, sarebbe una società dura, improntata alla
logica di vendetta (che non risparmierebbe nessuno, perché non esistono i buoni
da una parte e i cattivi dall’altra). La
faccenda non può essere impostata secondo una logica oppositoria: o il diritto
alla riparazione del reo o il diritto al risarcimento della vittima. Certo, le
parole “irrimediabilità” e “riparazione” sono antitetiche, ma non è
forse tutto il diritto fondato sulla necessità di comporre gli opposti, di
mediare tra bisogni ed esigenze diversi? Quello che serve è lo Stato che, come
terzo, interviene a ristabilire il principio, promuovendo una mediazione tra
diritti opposti. La
carcerazione, con le sue conseguenze, non può essere l’unica risposta che lo
Stato dà per riparare al male commesso: l’espiazione comprende, oltre alla
pena, anche la consapevolezza e l’assunzione di responsabilità (che è poi
l’idea della rieducazione affermata dalla Costituzione). Nella discussione a
Rebibbia è stato detto che forse la giustizia vera non può esistere perché
come si fa a restituire una vita tolta, o cancellare l’offesa materiale e
morale di chi subisce la violenza di una rapina? Ma ci si può avvicinare
all’ideale della giustizia con la riparazione che richiede, all’autore di
reato, consapevolezza, accettazione delle conseguenze delle proprie azioni,
comprensione delle ragioni e intenzione di cambiare. Alla domanda provocatoria:
“Se l’uomo è libero delle proprie scelte e paga il debito con la società
tramite l’espiazione della pena, perché lo Stato deve pretendere il
pentimento?” è stata data una risposta molto netta: “Perché è l’unica
moneta di scambio che può consentire il reinserimento nella collettività”. Però
il colpevole non dovrebbe essere lasciato da solo in questo processo di
ripensamento e cambiamento: non è giusta una società che non provvede ad
accompagnare questo processo di espiazione e assunzione di responsabilità, ma
purtroppo pare che in questi nostri tempi la mentalità comune si stia
allontanando sempre di più da questo compito e che, anzi, il governo vada in
tutt’altra direzione. Nell’interrogarci se sia
davvero l’odio il movente del crimine (ricordando le parole di Casalegno
secondo cui i terroristi che hanno ucciso suo padre non necessariamente odiavano
la vittima, questa era un “obiettivo”) abbiamo concluso che la questione è
molto più complessa, che l’odio spiega molto ma non tutto. È odio verso una
persona quello che spinge il tossicodipendente a rapinarla? E che contorni ha la
vittima del trafficante di droga? Forse il messaggio chiave del convegno “Sto
imparando a non odiare” potrebbe essere declinato in modo diverso: “Sto
imparando a capire che cosa tiene unita una società”. Ho trovato perciò
molto utili le parole di Manlio Milani quando ha detto che, ritornando nella
piazza della strage di Brescia, ha trovato quella solidarietà che esprimeva il
senso dell’impegno contro la violenza, recuperando così il senso della sua
vita. O le parole di Giuseppe Soffiantini che ha ricordato la necessità di
insegnare che la vera libertà è di non fare agli altri quello che non vorresti
fosse fatto a te. Ecco, in queste due testimonianze io ho trovato il senso della
giustizia o, meglio, della riparazione. Restando dentro un carcere si viene allontanati dalle vere conseguenze del reato di
Corrado Ferioli Casa
circondariale di Rebibbia Partendo
dalla concezione che uno Stato è formato da tutti i suoi cittadini e che si
dota di leggi per tutelare la loro sicurezza, si arriva al reato e alla relativa
pena. È naturale che lo stato monetizzi la pena, tra l’altro vi sono anche
pene accessorie in moneta e risarcimenti civili, difficilissimi da pagare; se
non ci fosse la monetizzazione della pena e del reato, il carcere sarebbe
interamente occupato da ergastolani. Questa premessa può aver irritato chi
legge o averlo sviato dal mio personale pensiero, che coincide molto con quanto
scrive quella donna che ha perso il padre per mano criminale (Silvia Giralucci:
“Si può diventare un ex-terrorista ma mai un ex-assassino”) e noterete che
non ho volutamente usato il termine ‘terrorista’, perché un omicidio è
sempre un omicidio e l’etichettarlo non ne riduce la gravità, né gli effetti
terribili in chi subisce una perdita. Personalmente
sono carnefice e vittima al contempo; per molti anni mi hanno definito
“mostro”, perché ho ucciso la mia famiglia e anche se sono consapevole che
un giorno la mia pena finirà, anzi meglio, finirò di scontare la pena
detentiva, rimarrò per tutta la vita un assassino e non potrò mai fare nulla
per sostituire o modificare questa realtà. Non
sono d’accordo con chi dice che, avendo scontato la sua pena, tutto ha
termine, perché restando dentro un carcere si viene allontanati dalle vere
conseguenze del reato, si vive in una sorta di limbo dove se uno vuole cambia la
propria mentalità, però può anche non cambiare nulla e spesso uscire
peggiorato. Avrei preferito aver avuto meno anni di carcere ma più tempo da
trascorrere con i familiari dei miei genitori, rendermi utile per loro, per le
altre persone bisognose. Insomma meno carcere e più utilità sociale e
accettare anche le parole dure, gli sguardi ostili, le sottili ferite
silenziose, perché solo accettando tutto questo si espia veramente. In una
cella, a centinaia di chilometri di distanza, è facile e comodo. Una
volta, in un documentario vidi che presso una tribù amazzonica gli omicidi non
venivano né uccisi né incarcerati, dovevano farsi carico del mantenimento
della famiglia della vittima per tutta la vita. Questo esempio serve per
introdurre un altro argomento: quale ruolo può e deve svolgere la vittima nel
percorso educativo di un reo? Se dev’essere solo vendetta allora è meglio
lasciar perdere; se invece le si vuole riconoscere una parte educativa seria,
importante, allora si avanzino proposte al Parlamento e al Governo. In questo
però si deve anche sensibilizzare la Magistratura di Sorveglianza, spesso
trincerata dietro mille cavilli e paure. Le leggi ci sono e si potrebbero già
applicare in una prospettiva in un certo senso più riabilitante, ma provate a
chiedere a un magistrato di firmare venti articoli 21 per andare a pulire un
paio di strade in un quartiere: di venti persone ne rimangono sì e no 3, per le
altre, anche se volenterose, c’è solo una cella, e allora dove va a finire la
parte riabilitante ed educativa della pena? Personalmente mi sono fatto
veramente carico delle responsabilità morali e penali per i reati commessi,
vorrei però dire che non sempre nel sistema penitenziario questa assunzione di
responsabilità viene presa in considerazione, i criteri che si seguono per la
“relazione” e la “valutazione” sono altri… L’esigenza
di continuare a parlarne, di capire di più È quella che hanno provato tanti volontari dopo il convegno, con la consapevolezza che anche nell’ambito delle associazioni che si occupano di carcere si parla
poco delle vittime di reato e dei loro familiari di
Chiara, volontaria Il
23 maggio, quando i cancelli della Casa di reclusione si sono aperti per
accogliere gli educatori, i volontari, gli avvocati, i vari operatori arrivati lì
per partecipare al convegno “Sto imparando a non odiare”, c’ero anche io
in mezzo a loro. Mi chiamo Chiara e sono arrivata al convegno dopo aver percorso
una strada lunga anni, un cammino fatto di incontri importanti e di vita
condivisa. Il
primo incontro con la realtà del carcere è avvenuto circa dieci anni fa,
quando ancora studiavo all’università. Con alcuni amici, gestivamo una
piccola struttura di prima accoglienza, nella quale offrivamo ospitalità di
breve durata a chiunque ne avesse bisogno. Lì ho conosciuto un uomo che stava
finendo di scontare la sua pena in carcere e ha trascorso da noi qualche giorno
di permessi premio. Mi raccontava di come viveva la sua detenzione e di tutti i
sogni e le speranze che nutriva per il futuro: attendeva la scarcerazione con
gioia e impazienza ed era pieno di progetti. Una
volta uscito, dopo pochi mesi ha tentato il suicidio. Troppo
duro l’impatto con la vita “fuori”, si è ritrovato solo, senza aiuto né
sostegno di nessun tipo e la solitudine, l’angoscia e la paura di non farcela
l’hanno quasi schiacciato. La sua storia mi ha toccato da vicino e mi ha
commossa profondamente. Com’era possibile che la gioia per la libertà
riconquistata si trasformasse in solitudine e disperazione? Cosa non aveva
funzionato? Che pregiudizi, quali vuoti istituzionali, quali deserti affettivi
lo avevano atteso all’uscita dal carcere? Mi
sono resa conto di essere di fronte ad una realtà di cui non sapevo nulla, che
suscitava in me molte domande che in questi anni non solo non hanno trovato
risposte soddisfacenti, ma si sono moltiplicate. E ho deciso che volevo
conoscere meglio la realtà del carcere. Nel
2002 mi sono licenziata e sono entrata a far parte dell’associazione
“Comunità Papa Giovanni XXIII”, che è strutturata in case famiglia. In 5
anni ho vissuto in strutture di vario tipo, ho trascorso lunghi periodi anche in
Toscana e in Emilia Romagna, dove la comunità ha delle case di accoglienza per
detenuti, che all’affidamento in casa famiglia affiancano l’inserimento
lavorativo. Per
due anni sono entrata come volontaria nel carcere circondariale di Padova. Ho
vissuto questa mia esperienza in carcere come una “palestra” che mi esercita
all’ascolto, alla comprensione, al rispetto, in un lavoro interiore costante,
di abbattimento dei pregiudizi e di sospensione del giudizio che riconosca la
persona come più grande del reato che può aver commesso. Un lavoro interiore
che mi ha richiesto una continua modifica di me stessa e del mio modo di pensare
e di guardare anche il mondo esterno al carcere. Questa esperienza mi ha fatto
crescere e mi ha cambiata profondamente… quando vedi e vivi certe cose,
incontri le persone e le loro storie, non puoi più far finta di non aver visto
e fare a meno di coinvolgerti, di metterti in gioco… Ecco perché ho a cuore
la realtà del carcere, anche se sono uscita dalla comunità un anno fa e
attualmente non entro più in carcere come volontaria. Con
tutto questo dentro di me, ho partecipato al convegno del 23 maggio. Sapevo che
sarebbe stata un’esperienza intensa, ma non pensavo che potesse significare
così tanto per me. Ascoltare le testimonianze mi ha dimostrato che non ho
ancora capito molte cose, che invece vanno tenute in considerazione. Innanzitutto,
si parla poco delle vittime di reato, dei loro familiari e dei familiari di chi
il reato lo ha commesso. Credo che dietro a questo ci sia la paura di non
riuscire a farlo in modo equilibrato, il timore di finire con lo
“schierarsi” per forza da una parte o dall’altra senza riuscire a gestire
la cosa con rispetto e con un atteggiamento di ascolto e di accoglienza verso
tutti. Penso che nel convegno il dialogo si sia svolto con molto equilibrio,
nonostante sia stato faticoso e doloroso per ognuno raccontarsi ed ascoltare. È
stato interessante sentire che percorso è stato fatto nella redazione di
Ristretti Orizzonti, sono sicura che il convegno sarà solo l’inizio di un
cammino, sia all’interno della redazione che all’esterno del carcere. Io ne
sono uscita, infatti, con l’esigenza di continuare a parlarne, di capire di più,
di avere nuove occasioni che mi aiutino a confrontarmi con altri
sull’argomento. Sono
molte le cose che mi hanno colpito negli interventi di quella giornata; quella
più importante e significativa per me, è stata la riflessione sui termini
PERDONO e RICONCILIAZIONE. Come volontaria, ho sempre sostenuto la necessità di
“allenarsi al perdono”, per riuscire ad abbattere i miei pregiudizi e vedere
la persona, la sua storia e la sua sofferenza al di là del reato che può aver
commesso. Potete capire cosa ho provato quando Olga D’Antona ha detto che non
conosce il significato della parola perdono, perché non è capace di odiare, e
che preferisce usare il termine “riconciliazione”, perché questo prevede un
reciproco riconoscimento tra vittima e autore di reato, in quella che è la
dignità del singolo, nella sua esperienza e nel suo dolore. Il suo intervento
ha decisamente cambiato molto il mio punto di vista… Questa
ed altre riflessioni hanno provocato in me una serie di sentimenti e di
emozioni, che non ho ancora terminato di digerire e che tuttora “mi stanno
lavorando dentro”. Ringrazio molto Ristretti
Orizzonti per aver organizzato questo convegno, partecipare ha significato tanto
per me. Spero che ci siano altre occasioni simili e che sia soprattutto
possibile continuare a confrontarci… C’è
poca sensibilità verso le vittime di chi distrugge l’ambiente Noi
vittime dei crimini ambientali non siamo proprio nessuno A gran voce vi chiedo di parlare anche di quei reati che sono forse visti come di
minore gravità, ma che invece sono a volte letali di
Alessia Milani Mi
chiamo Alessia Milani, sono una ragazza di 25 anni, ho partecipato al convegno
“Sto imparando a non odiare” non tanto per i miei studi criminologici, ma
per ascoltare la voce di alcune vittime, per le quali il sistema giudiziario non
ha saputo esprimere neppure una sola parola di sostegno. Il
reato che mi ha colpito non rientra nella tipologia abituale. Vi parlo di un
reato ambientale, di un caso d’inquinamento che ha provocato morti e malattie
per ben 30 anni. C’è una zona nell’Alta Padovana dove un facoltoso
industriale ha inquinato le falde con un cancerogeno mortale provocando
l’aumento di patologie tumorali, malformazioni del feto, Alzheimer eccettera. Questo
industriale è stato processato e condannato penalmente, ma grazie all’indulto
non si è fatto neppure un giorno di carcere e non ha risarcito nessuno. Ci
sono vittime di reati di cui non si vuole parlare. Vi
scrivo perché il dolore è tanto. A 17 anni mi hanno incendiato la casa, con me
e la mia famiglia dentro, perché ci eravamo opposti alla distruzione di
un’area verde, a 20 anni ho iniziato a frequentare aule di tribunale per
difendere la salute di molti. Ho pagato una parcella salata, non sono stata
risarcita e il condannato è in libertà senza pentimento. L’ha dichiarato
pure al processo. Ci
sono nuove vittime. Sono
andata più volte in RAI per raccontare e ho scritto un manoscritto fermo giù a
Roma perché contiene troppi nomi politici. Non
reclamo il carcere come pena giusta da infliggere, ma a gran voce vi chiedo di
parlare anche di quei reati che sono forse visti come di minore gravità, ma che
invece sono a volte letali. Parlate anche dei crimini ambientali e delle loro
vittime. So bene che non è semplice, visto che nessuno tra di voi è dentro per
un simile reato, ma vi prego di ricordare che ci sono vittime che subiscono un
reato che viola la loro vita e non sono riconosciute neppure da chi parla di
giustizia riparativa. Noi vittime dei crimini ambientali non siamo proprio
nessuno. Vi prego di comprendere il
tono arrabbiato, ma la mia è solo l’amarezza per un sistema che mi ha tolto
la spensieratezza della gioventù. Cercare
di ricostituire, attraverso l’ascolto, un tessuto di relazioni Solo così si può dare parola alla fatica, alla sofferenza, al dolore, all’odio ma
anche alle infinite possibilità che tutte le vite offrono di
Agnese Solero insegnante,
ha partecipato al progetto carcere-scuole Sento
il bisogno di scrivervi così a caldo per ringraziare dell’occasione di
crescita e arricchimento che siete riusciti a regalarci con il convegno “Sto
imparando a non odiare”. Sono
stata davvero coinvolta e profondamente colpita dagli interventi, soprattutto
per lo sguardo umanistico e laico che essi hanno saputo proporre su temi e
problemi così “forti” anche dal punto di vista dei vissuti delle persone e
dei percorsi di vita di ognuno. Ho
trascritto molte riflessioni, ho cercato di riassumere gli interventi in modo da
poterli riguardare con calma, nella convinzione che sia da questo modo di porre
le questioni, di vedere le cose e di raccontarle che si possa ripartire
nell’immaginare un mondo migliore di quello che stiamo vivendo. Penso
che si possa allargare questo orizzonte per spingersi a lavorare su questi temi
anche nella vita “normale”, sul lavoro, a scuola, per cercare di
ricostituire, attraverso l’ascolto, un tessuto di relazioni che sappia dare
parola alla fatica, alla sofferenza, al dolore, all’odio ma anche alle
infinite possibilità che tutte le vite offrono. Per
imparare a non odiare, ma anche per poter dare parola al proprio sentimento di
odio, se necessario, restituendo dignità agli offesi e a coloro che hanno
offeso in nome dell’appartenenza alla comunità umana (o in nome proprio di
quelle tre bellissime parole che abbiamo rimosso: libertà, uguaglianza,
fraternità). Forse
è questo l’obiettivo che dovrebbe proporsi un laico progressista, dove laico
e progressista significano per me il meglio che si riesca a sognare… Grazie a
tutti e buon lavoro. È
importante puntare sui giovani per la diffusione della mediazione Una mediazione intesa anche come approccio culturale e sociale che rivoluziona gli
schemi con i quali siamo un po’ tutti “abituati” a leggere la realtà di
Barbara Bovelacci Consorzio
Technè Forlì-Cesena Gentile
Redazione, vi scriviamo per esprimervi i nostri apprezzamenti e ringraziamenti
sulla grande iniziativa che siete riusciti a organizzare quest’anno sulla
mediazione penale. Vi
conosciamo e seguiamo ormai da sei anni, facendo tesoro delle nuove conoscenze e
degli stimoli che proponete senza sosta tramite le attività, il sito, i
convegni. Vi abbiamo sempre apprezzato anche, forse soprattutto, per la qualità
e l’attenzione che mettete in ogni cosa… per noi siete fonte continua di
ispirazione e di stimolo a migliorare e a non cedere al “pressappochismo”
diffuso. Per questo ci teniamo a ribadire che l’iniziativa di quest’anno è
stata forse la più alta e qualificata di tutte, ed immaginiamo la “fatica”
e l’impegno che deve esservi costata…
anche perché conosciamo un po’ l’argomento per aver realizzato
l’anno scorso una piccola iniziativa (circa 20 ore di attività formativa
condotte da Mariarosa Mondini, con la partecipazione anche di Federica Brunelli)
destinata a studenti del corso di laurea in scienze criminologiche di Forlì. In
quella occasione abbiamo potuto verificare, con un pizzico di sorpresa, quanto
quei ragazzi fossero interessati ed entusiasti delle nuove prospettive “ideali
e pratiche” che apre il discorso sulla mediazione penale, non solo
nell’ambito penale ma come approccio culturale e sociale in genere (che
rivoluziona gli schemi con i quali siamo un po’ tutti “abituati” a leggere
la realtà…). Se pensiamo che tra loro ci sono i dirigenti di domani
(funzionari pubblici, educatori, magistrati, criminologi, docenti, politici),
crediamo molto importante puntare sulla diffusione della mediazione verso di
loro e per questo stiamo cercando di continuare l’iniziativa. Per
tutto quanto detto, ci teniamo a confermare che siamo più che disponibili a
raccogliere il vostro invito per dare continuità e diffusione al discorso sulla
mediazione e a coordinarci (anche con altri attori del nostro territorio) per
farlo insieme, con una strategia più efficace possibile… e faremo fin da ora
del nostro meglio per trovare e condividere altre possibili risorse utili a fare
delle cose concrete. Per
ora è tutto, restiamo a disposizione per ogni altra proposta e vi facciamo
tantissimi auguri di lunga vita! L’odio
è un sentimento inutile che logora e basta Ma
già la consapevolezza di provarlo può, e deve essere, un punto di partenza di
Silvia Gambolati giornalista
pubblicista Mi
chiamo Silvia, sono una studentessa lavoratrice… Ho già una laurea e sono
giornalista pubblicista, ma mi sono rimessa in gioco per diventare
un’educatrice e tutto il mondo del carcere mi interessa molto. Imparare
a non odiare. Ho letto il titolo del convegno mesi fa e non ci ho pensato su due
volte, mi sono iscritta, senza guardare che giorno fosse, se potevo avere
difficoltà di lavoro. Una mail e via! Perché? Perché anch’io sto
cominciando a non odiare più… e non è facile, è un percorso lungo,
personale, doloroso che dicono poi porti alla serenità… spero di scoprirlo.
Si è parlato come se l’odio fosse un veleno che nuoce a chi lo beve,
sacrosante parole. Un sentimento inutile che non ti riporta indietro, che non fa
del bene, che logora e basta. Ma già la consapevolezza di provarlo può, e deve
essere, un punto di partenza. Sono
stata molto colpita dalle testimonianze sentite, dal coraggio espresso dalle
vittime e dai detenuti. Mi hanno scosso le parole di Olga D’Antona, quando ha
detto che “noi non siamo educati alla sofferenza degli altri”. Credo
abbia perfettamente ragione. Se qualcosa capita a me, alla mia famiglia, allora
ci sono; se capita ad un mio vicino di casa magari anche, ma un po’ più in là…
chissà, poveretti sì, ma in fondo io non posso farci più di tanto. Così non
si partecipa, non si sta attenti alle parole, al dolore dell’altro… Io che
studio per diventare un’educatrice metterò questo tra gli obiettivi primi
della mia professione: far conoscere, far ascoltare, favorire il dialogo, la
comprensione, per rendersi conto che al mondo siamo in tanti, ognuno con le
proprie storie, a volte (spesso) anche storie di sofferenza… e se non si
possono cambiare i destini degli altri, basta poco però per dimostrarsi
sensibili. Un abbraccio (anche verbale) non costa nulla a chi lo dona, e regala
tanto a chi lo riceve. Ho
visto detenuti come persone normali, le cui vite ad un certo punto si sono
spezzate, poteva succedere a me, nemmeno posso giurare ora che non mi succederà
mai. Chi lo sa in fondo? È qualcosa che interrompe la catena dell’amore,
amore per se stessi e per gli altri, che in un momento ti porta via, e porta via
con sé una vita, e non una sola. Perché chi è vittima di un reato ha un prima
e un dopo, così come chi commette un reato… nulla esiste più com’era. E da
lì bisogna avere il coraggio e la forza di ricominciare. Ho visto vittime e
detenuti insieme, volenterosi di parlare e capirsi. Un momento non facile, un
percorso non immediato. Ma tutti a questo mondo abbiamo una seconda possibilità…
dimostrare di meritarcela, ecco cosa ci aspetta nel “dopo”. Superare
le barriere che noi e la nostra mente ci creiamo Sono solo giornate come queste che lo permettono, abbattendo la barriera che separa chi ha commesso reati e chi li ha subiti e facendoci riflettere sulla duplicità
della natura umana, sulla coesistenza in ogni persona del bene e del male di
Elena Baccarin insegnante,
ha partecipato al progetto carcere-scuole È
indubbio che il momento in cui autori di un reato e vittime possono e vogliono
incontrarsi sia raro e per questo prezioso. Ed è di questo che si è trattato
il 23 maggio alla Giornata Nazionale di Studi intitolata “Sto imparando a non
odiare”. Per
me è stata una giornata pregna di emozioni. La prima, entrando in carcere
quando, con mio stupore, al mio passaggio con altri invitati al convegno, non ho
sentito dietro di me chiudersi ad intervalli regolari i cancelli. Si respirava
un’atmosfera di accoglienza mai provata prima. E poi tutto il resto è stato
di una portata notevole, considerando il contesto e le complesse storie
personali di chi ha parlato, sia vittime che autori di reati. È
stata una giornata densa di spunti di riflessione sulla complessità della
natura umana e su sentimenti forti e duri quali odio e rancore Ciò
che a mio avviso, più di ogni altra cosa si è rivelato essere un filo comune,
sotterraneo, invisibile ma che collegava i discorsi di quasi tutti i relatori è
stata la considerazione sulla duplicità della natura umana, sulla coesistenza
in ogni persona del bene e del male, delle due facce. Il male che si insinua
nelle persone “perbene” che cercano di ferire con la curiosità meschina, il
male di chi ha la coscienza a posto e si sente nel giusto e preferisce tacere
quasi negando l’esistenza di un reato che non viene riconosciuto e che ha
quasi annullato l’esistenza di chi lo ha subito. Il bene di chi dice di non
sapere odiare, il bene di chi riesce a immaginare nel suo sequestratore una
persona che ha forse sofferto tanto da diventare quella che è, il bene di chi
ha il coraggio di esporsi, di mettersi in gioco anche se in punta di piedi,
consapevole della propria posizione. Tutte
queste riflessioni hanno portato ancora una volta a pensieri, non miei ma di
scrittori e poeti studiati e insegnati a scuola, pensieri profondi sulla
fragilità della natura umana, così in bilico tra bene e male. L’uomo, ogni
persona mi è apparsa come un acrobata impegnato su una corda tesa, responsabile
in ogni suo passo successivo della caduta o della salvezza ed è così che
stanno le cose per me. C’è
chi riesce per forza di carattere o per gli stimoli che riceve dal contesto in
cui cresce a muovere passi sicuri e chi, invece, sempre a causa del carattere a
volte fragile, malato, amante del rischio, e per ciò che riceve e assimila dal
mondo che ha intorno, cade. Tuttavia, qualcuno di molto più saggio di me mi ha
detto una volta che la vera forza non sta nel non cadere mai ma nel sapersi
rialzare, una volta caduto. Un’altra
parola ricorrente al convegno è stata “perdono”: sapere perdonare, non
riuscirci, non ritenerlo giusto, ritenerlo inutile… Il perdono ha una potenza
che va ben oltre il potere del piccolo uomo, quella parola che a chi la riceve
pesa di più della condanna è più un attributo divino. Come sosteneva
Shakespeare: “La natura del perdono è di non essere costretta. Quale dolce
pioggia del cielo esso piove sulla terra sottostante e, doppiamente, benefica,
santifica colui che lo largisce e colui che lo riceve. Potentissimo tra i
potenti, meglio della corona si addice al monarca in trono… è un attributo
dello stesso Dio. I poteri terreni allora si rivelano più simili ai divini
quando la clemenza mitiga la giustizia”. Solo chi ha sperimentato la potenza
di questo dono può comprenderne pienamente la duplice valenza, ma il perdono è
raro essendo una qualità che eleva l’uomo a livelli divini, non può essere
imposto, richiesto, può solo essere offerto. Questi
sono alcuni degli spunti di riflessione che mi sono rimasti impressi ma
nell’aria, quel giorno, c’era anche molto altro di non esprimibile a parole
ma percepibile nell’atmosfera di condivisione che aleggiava tra i
partecipanti: emozioni forti, intense, da far commuovere. Infine,
il senso di una giornata come quella si può riassumere per quanto mi riguarda
nel calore umano di una persona che ha commesso reati simili a quello di cui
sono stata vittima anche io, che mi ha accolto con sorrisi e stretta di mano, o
potere mangiare delizie preparate dai detenuti insieme a loro: solo giornate
come queste permettono di superare le barriere che noi e la nostra mente ci
creiamo. Uscire
dalla spirale dell’odio è necessario Sapere infatti che i parenti della persona uccisa non odiano più l’uccisore porterà
quasi inevitabilmente quest’ultimo a riflettere ancora di più sul reato
commesso di
Elisabetta Scilironi studentessa
universitaria, ha partecipato al progetto carcere-scuole “Sto
imparando a non odiare”: indubbiamente si tratta di un titolo forte, ma cosa
si intende con questa espressione? Si potrebbe pensare al detenuto che, dopo
anni di reclusione, si rassegna e dice: “Sto imparando a non odiare… la
galera!”, ma andando a un livello più profondo si può pensare alla persona
ristretta che, in seguito a un processo di revisione critica del proprio
passato, capisce la gravità dell’errore commesso, e si rende conto che
commettere un crimine dettato dall’odio non è una soluzione ai propri
problemi, per cui comprende che odiare qualcuno non porta da nessuna parte, e
quindi “sta imparando a non odiare… il prossimo”. Invece
nel caso del convegno chi “sta imparando a non odiare” sono anche le vittime
dei reati e i loro parenti. Vittime che cercano di non odiare gli autori dei
reati. Imparare a non odiare è diverso da perdonare. Il perdono può avvenire
nei casi di furto, sequestro… ma mai, io credo, in caso di omicidio. Questo
perché “il perdono in generale non dovrebbe essere permesso che dalla
parte della stessa vittima. La questione, in quanto tale, del perdono dovrebbe
sorgere solo nel tete-à-tete o nel faccia a faccia tra la vittima e il
colpevole, mai attraverso un terzo per un terzo (…). Non si dovrebbe mai
perdonare nel nome di una vittima, e soprattutto se questa è radicalmente
assente dalla scena del perdono, per esempio se è morta. Non si può domandare
il perdono a viventi, a sopravvissuti, per crimini le cui vittime sono morte”.
(Jacques Derrida, Perdonare, Cortina, Milano 2004). In
caso di omicidio ciò che si può fare è appunto “imparare a non odiare”,
capire che nutrire una sete di vendetta verso chi ci ha fatto soffrire non rende
migliore nessuno: desiderando la morte o sofferenze disumane per chi ci ha fatto
del male ci poniamo nella stessa logica dell’odio di chi ha compiuto
effettivamente il gesto di uccidere. È vero che si dice che fra il dire e il
fare c’è di mezzo il mare, però il desiderio di vedere morta la persona che
ci ha procurato del male ci pone sullo stesso piano di chi il male l’ha fatto
effettivamente, non ci rende migliori. Se questo tipo di reazione è
comprensibile in un primo momento, successivamente dovrebbe subentrare l’idea
di “imparare a non odiare” chi ha commesso un torto nei nostri confronti. Uscire
dalla spirale dell’odio credo ci permetterà di elevarci e di far elevare
anche gli autori dei reati. Sapere infatti che i parenti della persona uccisa
non odiano più l’uccisore porterà quest’ultimo a riflettere ancora di più
sul reato commesso, avrà ancora più rimorsi per quello che ha fatto, si sentirà
sempre peggio. Ma
proprio da qui, da questa assunzione piena delle proprie responsabilità, dalla
comprensione dell’errore commesso, e delle sofferenze causate a persone
innocenti, che nonostante non nascondano il proprio dolore dicono: “Io non ti
odio”, può nascere un uomo migliore. È dunque solo uscendo dalla spirale
dell’odio che può compiersi un cammino di crescita e maturazione sia del reo
sia della vittima. Solo così in futuro potrà esserci un mondo migliore.
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