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Le
tante possibili forme della mediazione È
importante che chi ha fatto del male possa vedere il dolore che ha causato Alcune riflessioni in redazione con Silvia Giralucci e Benedetta Tobagi su come “rompere la catena del male” anche attraverso l’incontro tra vittime e
autori di reato a cura della redazione Benedetta
Tobagi e Silvia Giralucci erano bambine quando le Brigate Rosse uccisero loro il
padre, ora sono persone adulte, e quel dolore resta lì, come un macigno.
Eppure, la voglia di confrontarsi, di parlare, di far capire che una sofferenza
così neppure dopo trent’anni trova tregua le ha portate in carcere, a
incontrare la redazione di Ristretti Orizzonti. Non abbiamo registrato
l’incontro, perché abbiamo deciso insieme che il dialogo doveva essere libero
e senza condizionamenti, ma poi in redazione di quell’incontro abbiamo voluto
discutere, per fissare alcuni momenti e alcune riflessioni, che proponiamo ai
nostri lettori. Maurizio Bertani:
Mi ha colpito nell’intervento di Silvia Giralucci il fatto che lei affermi di
non volere avere nessun tipo di rapporto con gli autori dell’omicidio del
padre, che è una posizione comunque comprensibile e accettabile. Ricordo anche
che al convegno Silvia ha espresso un punto di vista critico verso quella parte
di società che a suo dire ha avuto più a cuore gli interessi degli autori di
reato che delle vittime. È una critica da parte di una vittima giustificabile,
ma entrare in una stanza come questa, dove vi sono anche sei o sette persone
condannate per reati di sangue, e dialogare e confrontarsi con queste persone,
significa in qualche modo accettare che queste persone hanno avuto delle vittime
come lei, che potrebbero esprimere la stessa opinione che lei ha espresso al
convegno, cioè rifiutarsi di parlare con i diretti autori del reato che hanno
subito. In
ogni caso, il passo che vedo anch’io più fattibile, se i reati sono pesanti,
è un incontro tra vittime e autori di reati simili a quelli che hanno subito,
ma non i “loro” autori di reato, le persone che hanno fatto del male proprio
a loro. Poi capisco benissimo che il tema è molto delicato, che forse ci vuole
tempo, noi qui non è molto che stiamo cercando di capire e imparare come ci si
possa muovere in questo contesto senza ferire e senza offendere nessuno, ma
credo che per loro, per le vittime, sia tutt’altro che facile affrontare i
propri “mostri”, le proprie angosce, il rancore a volte, l’ansia. Penso
comunque che questa strada vada portata avanti, anche se sicuramente ci vorrà
del tempo per arrivare ad accettarla completamente come idea di mediazione. Di
certo io ho capito soprattutto il fatto che l’incontro, quando e se mai ci
potrà essere, tra vittima e autore di reato, non ha nulla a che vedere con il
perdono. Milan Grgic:
Io avrei voluto fare una domanda, e invece non ci sono riuscito, avrei voluto
chiedere che cosa pensano loro dell’omicidio politico, perché un omicidio
politico è comunque una decisione collettiva di un gruppo, e a me sarebbe
piaciuto sapere quanta responsabilità loro attribuiscono alla collettività,
dal momento che gli esecutori materiali molto spesso non hanno fatto che
eseguire un incarico affidatogli dai mandanti, e pertanto non è giusto ritenere
solo loro responsabili, è importante anche individuare altre responsabilità.
Io non sono riuscito a capire che cosa pensassero le nostre due ospiti rispetto
agli autori materiali dell’omicidio del loro padre, e i possibili responsabili
politici. Sandro Calderoni:
Quello che ha colpito me, in riferimento alla mediazione, è proprio il concetto
che abbiamo affrontato insieme a Benedetta Tobagi e Silvia Giralucci, che
incontri di questo tipo sono forse una specie di mediazione “con terze
persone”, come possiamo essere noi, che abbiamo commesso reati simili ma non
siamo gli autori dei reati che loro hanno subito. Questo mi ha fatto pensare che
fare una mediazione diretta sia un problema che a volte è impossibile
risolvere, forse una mediazione indiretta può essere più tollerabile dalle
vittime. Marino Occhipinti:
Io ho notato che le persone che hanno subito un reato grave, se si parla in
generale sono spesso davvero e sinceramente molto aperte, ma quando si va sul
loro personale dolore allora sembrano chiudersi a riccio. Però capisco che, per
Silvia e Benedetta, ci sono trent’anni di sofferenza in cui non c’è stata
la possibilità di confrontarsi, mentre il confronto avvenuto con noi, secondo
me molto schietto, forse è diverso da quello a cui sono sempre state abituate.
Sicuramente incontri di questo tipo mettono un po’ in crisi le certezze da
entrambe le parti: finito l’incontro ad esempio, eravamo lì io e Silvia, e
lei mi ha motivato il suo rifiuto nei confronti della mediazione diretta
spiegandomi che lei si porta dietro il suo cappotto di dolore, e quindi non è
giusto che gli assassini di suo padre in un’ora di mediazione si tolgano il
cappotto, liberandosi del suo peso. Io le ho risposto che forse c’è un errore
proprio di fondo, io penso che se chi le ha fatto del male, chi ha ucciso suo
padre, parlasse con lei, vedesse il suo dolore, forse il cappotto di dolore non
se lo toglierebbe, ma se ne metterebbe uno più pesante. Per questo credo sia
importante che chi ha fatto del male possa vedere il dolore che ha causato. A
questo punto lei si è fermata e mi ha detto che ne dobbiamo riparlare. Questo
dimostra che persone come lei sono anche disposte a mettersi in discussione.
Anzi, lei pensa proprio che sia estremamente necessario un momento di confronto,
di dialogo, dove ci si parla, perché altrimenti loro arrivano qui e se ne vanno
sempre con le stesse idee. Quando io a Benedetta Tobagi e Silvia Girlucci ho
raccontato della figlia della mia vittima, probabilmente ho voluto anche dire:
“Ma guarda che forse chi ha ucciso tuo padre pensa anche a te”. Questa
considerazione poteva diventare antipatica, però è importante provare a
esprimere anche il nostro punto di vista, in modo che loro si rendano conto che
non si può dare per scontato che chi ha ucciso il loro padre viva una vita
normale. Daniele Barosco: Una
cosa che ho notato è il fatto che non sopportano, hanno proprio il fastidio
fisico nei confronti delle persone responsabili dell’uccisione del loro padre.
Quindi non c’è l’accettazione dell’altro come di una persona che ti ha
fatto un danno, un torto irreparabile, e che però esiste, c’è la
cancellazione dell’altro dalla propria vita.
Elvin Pupi: Io so che volevo parlare con loro, innanzi tutto perché mi dispiace di
tutto quello che gli è successo, e vorrei che si convincessero che noi,
nonostante i nostri reati, rimaniamo delle persone. Io sono stato troppo male,
anche se loro non sono le mie vittime dirette, a sentirle raccontare la loro
storia; mi faceva venire in mente per esempio i familiari della persona che ho
ucciso. Quello che voglio dire è che noi soffriamo di più quando incontriamo
loro che quando scontiamo la nostra pena in galera. In due giorni, il giorno del
convegno e quello dell’incontro con loro, sono stato male più che in quattro
anni di galera. Bruno De Matteis:
Secondo me loro vivono il loro dolore in modo particolarmente pesante perché si
parla molto spesso dei loro genitori, e ogni volta che si dice perché sono
stati ammazzati, loro rivivono nuovamente il loro dramma. Quando è successa la
tragedia erano piccole e se avessero potuto andare a vivere in un altro paese e
non sentir continuamente parlare del loro papà e delle altre vittime del
terrorismo, avrebbero affrontato probabilmente con più serenità la loro
condizione. Elton Kalica:
A me è dispiaciuto molto non poter registrare le riflessioni di Benedetta e
Silvia, perché sarebbe venuta fuori una testimonianza utilissima per noi, visto
che loro si sono espresse in modo molto aperto e umano sui grandi temi che ci
interessano. Benedetta per esempio ha raccontato l’episodio di quei tre
detenuti che ha incontrato a Opera, dove loro lavoravano a fare le scansioni
degli atti processuali della strage di Brescia, e quindi ha fatto delle
considerazioni utili e belle a proposito del lavoro in carcere. Per quanto
riguarda la separazione delle due questioni, cioè il rapporto individuale con
chi ha ucciso i loro padri da un lato e il rapporto con il carcere e i detenuti
in generale, io la considero importante. Se Benedetta e Silvia sono venute in
redazione, hanno detto le cose che hanno detto e hanno una certa visione del
carcere, questo è proprio perché il loro punto di partenza è quello di non
identificare in noi l’assassino del proprio padre. Per poter fare un
ragionamento di giustizia nei confronti dei detenuti e del carcere in generale,
è necessario operare questa divisione, che io considero quindi un fatto
positivo. Prince Obayangbon:
Io penso che serve molta cautela, specialmente per intervenire in situazioni così
pesanti, io non mi azzarderei mai a dare giudizi su come le vittime reagiscono
di fronte alla perdita di un proprio caro. Qualche volta chi non ha conosciuto
il proprio padre soffre di più di chi invece ha vissuto con lui prima che
morisse. Questo dipende da come ognuno reagisce nella propria intimità, non è
un sentimento che uno dal di fuori possa giudicare. Io ho visto una sofferenza
forte, e mi ritengo incapace di proporre una soluzione su come si possano
affrontare questi argomenti, ma penso sia molto importante riuscire a trovare il
modo perché possa realizzarsi una mediazione. Credo
poi che da parte nostra qualche volta ci sia troppo egoismo nel voler essere in
qualche modo perdonati, e chi ha causato un danno deve anche trovare una via per
compensarlo, per ripararlo almeno in parte. Questo è mancato a Benedetta e
Silvia, e loro si sono dimostrate arrabbiate, ma non hanno avuto un
atteggiamento vendicativo, il punto è che non c’è niente che ha compensato
la loro perdita. Questo forse è il problema. Adnene El Barrak:
Io all’incontro ho visto due persone diverse, l’esperienza che hanno in
comune è la perdita del papà, però Benedetta Tobagi aveva tanta voglia di
parlare, di comunicare, Silvia invece aveva la curiosità di capire. Non
volevano sentire la parola “perdono” però volevano capire il perché di
certi comportamenti, altrimenti cosa sarebbero venute a fare qui? E poi se uno
le ascoltava attentamente non poteva non dar loro ragione, perché i loro padri
sono stati uccisi in modo assurdo, non per loro stessi, ma in quanto
“simboli”. Non è come noi che abbiamo compiuto un reato “comune”, da
quello che ho capito loro hanno a che fare con gente che ha ucciso il loro padre
ma poteva uccidere un altro, contava solo che erano, appunto, dei simboli, e
questo è ancora più difficile da accettare. Non sono disposte a incontrare gli
assassini del loro padre, però vogliono fare un passo alla volta, nel senso che
hanno accettato di incontrare detenuti comuni, vogliono capire di più. Milan Grgic:
Io mi considero una persona razionale, e faccio una riflessione a voce alta: che
cos’è che loro hanno di più, rabbia o dolore dopo tanti anni dalla perdita
del padre? Capisco quanta sofferenza provoca la perdita dei genitori, io per
esempio negli ultimi anni ho perso entrambi i genitori e non ho avuto occasione
di mandargli neanche un fiore, ma dopo trent’anni mi sembra esagerato. Ci sono
state le guerre, ci sono stati feriti, ci sono state molte vittime, ogni perdita
di un genitore, di un figlio per una persona è un dolore, e lo è di più
ovviamente se la morte non è naturale, ma che si tratti di un omicidio
politico, o di un semplice operaio che muore in un incidente, o di una persona
che muore di malasanità, non credo si debba dare più importanza ad una vittima
che all’altra, il dolore è dolore. Loro non vogliono o non sono in grado di
perdonare, però io penso anche che dopo trent’anni noi sappiamo quante
vittime ci sono state durante la seconda guerra mondiale, eppure Francia e
Germania hanno fatto insieme all’Italia la scelta di creare una Europa unita
anche se hanno combattuto guerre su fronti opposti. Mi sembra un po’ questa la
scelta appropriata per una vittima, non so cosa ne pensiate voi. Marino Occhipinti:
Io non voglio pensare a paragoni tra un dolore e un altro. Tu Milan hai perso i
genitori mentre eri in carcere e io, per carità, non ho nulla da dire, però
perdere i genitori alla fine di una vita non è certo come essere cresciuti
senza i genitori. Il dolore è grande, non mi fraintendere, però non possiamo
paragonare le due cose e tanto meno lo possiamo fare se uno un genitore lo perde
perché gli viene ucciso. Iovica Labus:
La mia opinione è che il dolore è inevitabile che duri così a lungo in
questioni di questo genere, ma dopo trent’anni l’unico modo è quello di
guardare avanti, e nello stesso tempo di cercare di confrontarsi con il passato,
e forse anche con gli assassini, con le persone che hanno ucciso il loro padre. Dritan Iberisha:
Io ho la mia esperienza nella vita, mi ricordo che vedevo mia zia piangere ogni
giorno per anni ed anni per il figlio morto, questo vuol dire che non significa
nulla venti, trenta o cinquant’anni, dipende dalla persona, dal suo carattere
e dalla sua sensibilità. Quando dicevano “non li perdoniamo”, io ci credo
poco, io credo che loro vogliano vedere anche come si comportano quelli che gli
hanno ucciso il padre, come si comporteranno in futuro, cosa faranno di
importante. L’idea di perdono in Italia non ha lo stesso significato che ha
nel mio paese, l’Albania. Da noi dire “ti perdoniamo” vuol dire “non ti
uccidiamo” e basta, certo non vuol dire che non ti odio più o che puoi
ritornare a camminare con la testa alta davanti a casa mia. Ornella Favero:
Bisogna intendersi sul discorso del perdono, io non lo so se perdonerei, perché
ci sono dei gesti forse imperdonabili, il che non vuol dire che io non cercherei
di capire, non accetterei che uno si reinserisca. Io non mi fermerei tanto su
questo concetto di perdono. Secondo me qualcuno di voi ha semplificato il
discorso nel dire, “dopo trent’ anni…”, oppure “se uno al posto di
essere in Italia fosse stato da un’altra parte…”, ma in realtà non è che
ad una persona questo tipo di omicidio glielo ricorda il mondo esterno, per cui
bastava stare in Germania per non accorgersene. Un bambino a cui a tre anni
uccidono il padre, vive comunque con una madre che ha vissuto sempre accanto a
quell’uomo: la madre di Silvia, certo con l’idea di farle meno male, le ha
nascosto per anni la verità, lei viveva in questo mistero che è anche peggio,
e credeva di essere stata abbandonata dal padre; oppure ci sono situazioni come
quelle di Benedetta Tobagi, suo padre era un grande giornalista e immagino che
perderlo nella vita della madre sia stata una esperienza terribile. Quindi un
bambino, anche se non ha conosciuto direttamente quel padre o non se lo ricorda,
vive immerso nel dolore. Milan
Grgic:
Ma bisogna anche vivere nel domani. Ornella Favero:
Sì, bisognerebbe vivere non proiettati tutti verso il passato, ma ci sono dei
lutti irrisolti che forse non lo permettono. Non si possono, secondo me, fare
dei paragoni fra un lutto derivante da una malattia, da un incidente, e il lutto
derivante dall’uccisione di una persona, che è certamente molto più
difficile da rielaborare. Una
cosa interessante che sta emergendo da queste discussioni e dal convegno è la
possibilità di intraprendere una mediazione “indiretta”, quando magari una
persona non se la sente di affrontare direttamente l’autore del reato che la
riguarda. Silvia e Benedetta hanno fatto un ragionamento che a me sembra
fondamentale per dare un senso a tutto questo percorso che stiamo facendo: “Io
non voglio parlare di perdono, però mi interessa tutto quello che può spezzare
la catena del male”, avete presente questa frase di Benedetta? Loro parlano
con voi che non gli avete ucciso il padre, però portando questo loro dolore
fanno capire che questi lutti non si rielaborano mai, non si chiudono mai, e
costringono tante persone a riflettere in modo diverso sul loro reato. Quando
si è rivolta a noi, attraverso il nostro sito, una persona che aveva subito
molti furti, non è che qui c’erano i ladri che gli hanno svaligiato la casa,
così come quando abbiamo incontrato l’insegnante, presa in ostaggio durante
una rapina, non è che ha trovato qui il rapinatore che l’ha presa in
ostaggio. E quando è venuta in redazione Olga D’Antona, o le vittime che sono
intervenute al convegno, nessuno è venuto qui ad incontrare “il suo autore di
reato”, questo è stato un percorso in cui le vittime hanno accettato di
mettere la loro sofferenza a disposizione di tutti per “spezzare la catena del
male”. Io penso che la catena del male si potrà spezzare davvero quando in
carcere ci sarà la possibilità di pensare meno alla propria sofferenza, e più
a quella dell’altro. Questo percorso mi pare che sia interessante, perché
potrebbe aprire nelle carceri una prospettiva di mediazione non necessariamente
individuale, cioè una forma di mediazione in qualche modo collettiva. Bruno De Matteis: Io
volevo comunque solo dire che se non avessero sentito tutti i giorni dalle
televisioni e dai giornali parlare del loro padre ucciso dalle Brigate Rosse, e
soprattutto non avessero sentito che il terrorista che lo ha ucciso è uscito e
si è rifatto una vita, forse in un contesto diverso sarebbe stato diverso il
loro dolore. Inoltre occorre anche considerare che i terroristi nell’uccidere
Tobagi hanno voluto colpire quello che lui rappresentava, un simbolo di un
giornalismo che voleva capire, non l’uomo Tobagi Elton Kalica:
Ma Benedetta Tobagi ha proprio detto che a lei dava più fastidio e più dolore
pensare che i brigatisti avessero cancellato il fatto che avevano ucciso un
uomo, e invece si riferissero ad un simbolo, per me allora è il contrario, non
è come dici tu che loro dovrebbero capire che non ce l’avevano con il loro
padre, ma ce l’avevano con una idea. Quello
che a noi interessa davvero è ascoltare queste persone, comunicare con loro,
per conoscere, per capire cosa significa stare dall’altra parte della pistola,
visto che noi le pistole le abbiamo usate, e nello stesso tempo parlare con
loro, per far capire cosa significa stare in carcere, cosa significa farsi tutta
la galera, cosa significa portarsi dentro il peso del male fatto, perché a me
è sembrato significativo quello che diceva Benedetta “Io fino a poco tempo fa
pensavo che nessuno restasse a lungo in carcere, perché chi ha ucciso mio padre
poi è uscito quasi subito, e io non sapevo che c’era gente che si faceva
venti, trent’anni di galera, adesso lo so”. Alessandro
Busi (tirocinante, laureato in Psicologia): Mi ha molto colpito quello
che ha detto Benedetta sulla questione del carcere, sulla necessità che la pena
possa servire a “dare peso” all’accaduto, spiegando quanta sofferenza
abbia provocato in lei il fatto che gli assassini di suo padre praticamente
abbiano passato pochissimo tempo in carcere. A
me poi interessa la questione della mediazione penale: la mediazione collettiva
secondo me può essere un’ottima prospettiva sociale, perché veramente ti dà
un punto di vista completamente diverso da quello del muro contro muro, con il
quale siamo abituati a ragionare, e può essere magari anche un primo passo. Penso
anche che Susanna Ronconi rappresenti per Silvia Giralucci una sorta di fantasma
del male, ovviamente lo è, le ha ucciso il padre, però io credo che per
riuscire ad umanizzare il male, diciamo così, forse l’unico modo potrebbe
essere davvero l’incontro diretto. La mediazione collettiva può essere una
crescita incredibile a livello sociale, questo è un primo passo per le vittime,
però per riuscire a risolvere davvero il problema, o meglio per riuscire a
riconoscere l’umanità nell’altra persona, credo che solo l’incontro
diretto può essere davvero utile. Giacomo (studente,
sta facendo uno stage presso la redazione): Loro mi sono sembrate due donne
molto forti e molto coraggiose, da ammirare assolutamente, anche semplicemente
per aver intrapreso questa esperienza di “mediazione collettiva”, o comunque
di incontro e confronto, che è stata fatta qui. Per me però un omicidio delle
Brigate Rosse è impossibile da perdonare, e rispetto a questo una mediazione
penale diretta credo che sia improponibile. Marino Occhipinti:
Non sono d’accordo con te quando dici che è impossibile una mediazione
diretta per i delitti politici o terroristici, perché io invece credo che non
sia impossibile, e che comunque non si debba mai generalizzare. Così come non
si deve generalizzare quando si parla del dolore provocato da un lutto: se
quando sono andato a fare rapine mi avessero ucciso il dolore di mia mamma non
sarebbe stato forse diverso da quello della mamma di Walter Tobagi, sempre suo
figlio sono, il problema è che forse mia mamma se ne sarebbe fatta una ragione,
credo che la differenza stia qui, perché avrebbe comunque dovuto dire “È
andato a fare rapine, ed è morto”, mentre Tobagi tornava tranquillamente a
casa dal lavoro e l’hanno ammazzato. Sandro Calderoni:
Io però vorrei ribadire il concetto, che mi sembra fondamentale, che la
mediazione penale non ha nulla a che fare con il perdono, ma forse potrebbe
proprio aiutare a “farsene una ragione”, e quindi io penso che se uno vuole
parlare con la vittima, il punto importante è il confronto con lei, e non la
necessità o meno di perdonare. Elton Kalica:
Anch’io sono d’accordo con Sandro, io credo che questa parola la dobbiamo
mettere da parte e ragionare sul resto, se loro vogliono perdonare o non
vogliono perdonare a noi non deve interessare, anche perché io sono convinto
che per loro sia lecito anche portare un certo rancore. Come diceva Dritan
prima, la gente istintivamente è portata a vendicarsi, se mi uccidi qualcuno
sono portato a vendicarmi e a ucciderti, allora se loro non lo fanno, e non
passa proprio nella loro mente di vendicarsi, perché hanno una grande cultura
che non glielo permette, però si devono pur tenere qualcosa, e quello che loro
si possono tenere è il rancore verso queste persone. Il professor Ceretti ci ha
detto però che l’odio, che il rancore è un veleno che si beve lentamente
aspettando che muoia l’altro, allora noi faremo di tutto per ragionare sul
fatto che l’odio fa male a chi lo prova, non fa invece un gran male a chi è
causa di quell’odio. Maurizio Bertani:
A me pare che questa situazione, questo confronto con le vittime, pur essendo
complicato, sia molto importante anche per quanto riguarda l’assunzione di
responsabilità da parte nostra, allora però terrei lontano da questo anche
l’aspetto dei benefici penitenziari. Su ogni discussione tra vittime e autori
di reato proprio questi due aspetti, perdono e benefici, li bandirei, perché il
confronto non deve minimamente essere intaccato dall’eventualità di un
interesse personale. Per cui non vedo cosa c’entri inserire un discorso sui
benefici, se devo discutere di benefici li discuterò con il giudice di
sorveglianza senza tirare dentro il discorso delle vittime. Marino Occhipinti:
Secondo me, e lo capisco benissimo, della mediazione Silvia e Benedetta hanno
anche un po’ paura, non so neanche io bene il perché, ma credo che sia un
argomento che un po’ le spaventa, e forse neanche loro stesse vogliono
liberarsi di questa rabbia che hanno, forse gli serve anche questa per
sopravvivere. Quando Silvia Giralucci ha detto “Io non posso perdonare perchè
mio padre non avrebbe perdonato”, a quel punto non ho detto niente, ma avrei
voluto dirle “Sei così certa che tuo padre non avrebbe voluto che tu
perdonassi?”. Io non so se suo padre avrebbe voluto così o avrebbe voluto che
lei fosse capace di perdonare.
Ornella Favero:
È comunque difficile, perché loro hanno giustamente detto “Noi siamo
innocenti”. È un po’ quello che hai detto tu, Marino: se mi avessero ucciso
durante una rapina certamente il dolore di mia madre non sarebbe paragonabile
con il dolore della mamma della persona che ho ucciso io, anche se come intensità
poteva essere più forte perché magari il mio legame con mia madre era più
forte, e invece l’altra madre vedeva il figlio una volta al mese. Allora
è inutile che facciamo le graduatorie sul dolore mio e il dolore degli altri,
ragioniamo piuttosto su un dolore che è quello più duro da accettare, che è
quello di una persona innocente a cui fanno qualcosa come uccidere un padre,
perché lì, rispetto a tutti i dolori del mondo, c’è un colpevole, non c’è
la “natura” come per una malattia, e c’è uno stato di innocenza da parte
loro, è questo che fa la differenza, è questo che non permette di farsene una
ragione. Certo anche le persone che stanno in carcere soffrono, io non sarei qui
se non pensassi che la condizione della detenzione è una condizione di
sofferenza, a volte anche “non giustificata” nel senso che c’è un di più
di sofferenza “inutile”, ma questa sofferenza non può certo
“compensare” la sofferenza vera che avete provocato. Invece
sul fatto che Benedetta e Silvia non vogliano incontrare gli autori
dell’uccisione di loro padre, io credo che noi non possiamo dire nulla, punto
e basta. Nessuno può immaginare come reagirebbe in una situazione simile,
quando alcuni ragazzi negli incontri nelle scuole in modo provocatorio dicono a
me, che sono la volontaria che viene in carcere, “Vorrei vedere se capitasse a
te di subire un reato!”, io ho sempre cercato di rispondere “Guardate, io
non so se capitasse a me come reagirei, non lo so, so che sto facendo un
allenamento per cercare, se mai dovessi essere io a subire un grave reato, di
non odiare o odiare meno”. Allora io credo che Benedetta e Silvia abbiano
fatto uno straordinario passo, che è quello, al di là della loro sofferenza,
di confrontarsi con delle persone tra cui ci sono molte che hanno ucciso, ma
questo non c’entra niente con l’incontrare o meno l’assassino del loro
padre. Maurizio Bertani:
Io ho solo detto che trovo contraddittorio che Silvia Giralucci dica che non
vuole incontrare gli autori del reato che la riguarda, e critichi la società o
quella parte della società che tende ad avere più protezione verso chi ha
commesso il reato che verso chi l’ha subito, e poi però sia disponibile ad
incontrare un gruppo di detenuti che a loro volta hanno fatto delle vittime come
lei. Paradossalmente, quello che lei ha detto criticando la società che ha più
attenzione per gli autori che per le vittime, le può essere in un certo senso
contestato da quelle vittime i cui autori di reato lei ha incontrato. Marino Occhipinti:
In realtà Silvia Giralucci lamenta il fatto che qualcuno abbia “coccolato”
i brigatisti, e soprattutto che le istituzioni abbiano dato più attenzione ai
terroristi che alle loro vittime. Ornella Favero:
Ma loro hanno criticato non tanto il reinserimento di queste persone, quanto
l’eccessiva visibilità, il protagonismo. Nel nostro Paese poi c’è stato un
terrorismo ancora più difficile da capire, perché non ha neppure agito come
faceva il terrorismo russo che cercava di uccidere lo zar, il simbolo dello
sfruttamento dell’uomo sugli altri uomini, della servitù della gleba, qui
c’è stato un terrorismo che ha ucciso spesso gli uomini più democratici, i
più aperti, i più disponibili al dialogo, quindi il dolore è ancora più
inaccettabile per la figlia di un giornalista illuminato come Tobagi. Tornando
invece al discorso della mediazione, io sono d’accordo che questo percorso di
mediazione comunque non significa semplicemente ascoltare le vittime, perché
sono convinta che anche loro abbiano bisogno del confronto, non del puro
ascolto, mi sembra ipocrita qualche volta chi dice che le vittime possono dire
qualsiasi cosa, secondo me ci deve essere un confronto aperto e senza ipocrisie,
che però deve avvenire partendo dai loro bisogni. Mi
sembra poi importante il discorso di Benedetta Tobagi sulla necessità di
spezzare la catena del male, il fatto che lei voglia parlare, voglia
confrontarsi, perché si rende conto che bisogna comunque spezzarla, questa
catena. Ed è vero, loro possono dire qualcosa di grande con la loro sofferenza,
perché vengono a parlare con voi, forse non hanno la forza, o il desiderio di
andare a parlare con chi gli ha ucciso il padre, ma parlano con voi, che magari
vedendo la loro sofferenza potete avere una maggior consapevolezza nel ripensare
al male che avete fatto. E proprio Benedetta Tobagi ha ribadito il concetto del
senso della responsabilità, cioè di guardarsi nello specchio e ragionare sul
male fatto. Marino Occhipinti:
Credo comunque che anche loro abbiano bisogno di un confronto, magari per
mettere in crisi qualche certezza. Quando per esempio Benedetta Tobagi ha detto
“Gli assassini di mio padre fanno una vita normale”, io mi sono sentito di
doverglielo dire che forse non era proprio così, chi lo dice che fanno una vita
normale? E poi io credo che su 1000 terroristi 20 hanno scritto libri, avuto
visibilità, mentre magari gli altri 980 se ne sono stati nell’ombra e fanno
una vita più che normale, magari fanno gli stradini e vanno a tagliare l’erba
per qualche cooperativa in silenzio senza fiatare, e quando gli viene chiesta
qualche intervista dicono no grazie, questo forse bisogna ricordarlo, che ci
sono anche queste persone, perché loro magari vedono quei dieci terroristi che
appaiono in televisione, e che scrivono libri raccontando la loro verità,
mentre tutti gli altri credo siano tutt’altro che “coccolati”. Ornella Favero:
Infatti un discorso di mediazione con autori di reati simili a quelli che hanno
subito loro, può avere un senso, perché così semini dei dubbi, ragioni. Daniele Barosco:
Io mi sono chiesto però come mai lo Stato non si sia mai posto in questi
trent’anni il problema della mediazione e della riconciliazione e abbia sempre
invece perseguito la logica del muro contro muro, che ha favorito la nascita
delle associazioni delle vittime. Secondo me in questo c’è stata una
posizione alla Ponzio Pilato, un lavarsene le mani da parte delle istituzioni,
invece di pensare a un tavolo collettivo, qualcosa di più dei tre tavolini qui
di Ristretti, ma con lo stesso spirito, un tavolo collettivo dove si cominci a
ragionare del come prendersi cura delle vittime, e farle parlare di quello che
loro veramente vogliono, non di quello che vuole il giudice di sorveglianza. Sandro Calderoni:
Io però penso che il rischio sia proprio quello che il rapporto tra autori e
vittime di reato venga istituzionalizzato, nel senso che possa diventare quasi
un obbligo, perché noi sappiamo che così prevarrebbe quasi sicuramente una
questione opportunistica, e invece incontrare le vittime deve significare solo
la possibilità di una vera presa di coscienza.
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