Parliamone

 

Il diritto del lavoro e il carcere non sono due entità così separate

Con Monica Vitali, Giudice del lavoro,

abbiamo discusso di tutela dei diritti dei detenuti-lavoratori

 

Monica Vitali, Giudice del lavoro, l’abbiamo "conosciuta" prima di tutto attraverso il suo libro, "Il lavoro penitenziario", che per noi è una fonte continua di informazioni, quando non riusciamo a districarci in qualche complessa questione che riguarda la tutela dei diritti dei detenuti. Poi è venuta nella nostra redazione, e ha risposto direttamente alle nostre domande.

 

Monica Vitali, così come si è presentata alla redazione

 

Ho fatto il Magistrato di Sorveglianza a Milano per sette anni, appena entrata in vigore la legge "Gozzini". Nel dicembre del ‘92 ho lasciato l’Ufficio di Sorveglianza e sono andata a fare il Giudice del lavoro, ruolo più consono alla mia formazione, perché le mie basi sono civiliste, essendomi laureata in Diritto processuale civile; ora sono più di 10 anni che ricopro questo ruolo. Ma c’è stato un periodo in cui, colta probabilmente da un pizzico di follia, mi sono dedicata anche al volontariato a San Vittore, all’interno di un progetto chiamato "Ekotonos". In particolare il mio apporto, essendo fresca di esperienza come Magistrato di Sorveglianza, era fare delle lezioni a donne e tossicodipendenti, due tipologie di detenuti particolarmente bisognose d’informazione, all’interno di un corso che si chiamava "Uso della città", in cui era previsto che intervenissero esperti di vari settori, politica del lavoro, tossicodipendenza, Diritto penitenziario.

Facendo il Giudice del lavoro, mi è venuta un’altra idea, in collaborazione con Agesol, che è l’Agenzia di Solidarietà per il Lavoro che ha realizzato una serie di iniziative nelle realtà carcerarie milanesi: ho praticamente messo insieme le due cose, quello che faccio adesso con quello che fondamentalmente non ho mai smesso di fare. In questi anni, infatti, ho visto molte prigioni, non più italiane, ma in giro per l’Europa, e ho notato che nessuno si è mai preso la briga di mettere insieme il Diritto del lavoro ed il Diritto penitenziario. Forse perché di solito chi si occupa di Diritto penitenziario sono i penalisti, che ragionano in termini penali e non da giudici civili o da studiosi del Diritto civile. Io, avendo avuto questo strano percorso professionale, con radici da civilista ed esperienza professionale nella Magistratura di Sorveglianza, ritornando poi come giudice al settore civile ed in particolare al Diritto del lavoro, ritengo che in realtà il Diritto del lavoro e il carcere non sono due entità così separate. Vengono separate, ma non lo dovrebbero essere se si tiene conto dei principi cardine del nostro ordinamento. Basta leggere l’articolo 27 della Costituzione, che viene richiamato a proposito della funzione di reinserimento della pena, dimenticando che il reinserimento ha dei passaggi, secondo me focali, e uno di questi è il lavoro.

 

bisogna capire che cosa uno si aspetta dal lavoro penitenziario

 

Francesco Morelli (Ristretti Orizzonti): Ma qual è l’idea di base del suo libro?

Monica Vitali: Quella che vorrei far passare come idea di base è che bisogna capire che cosa uno si aspetta dal lavoro penitenziario, chiarendo prima di tutto se ci si attende che il lavoro funzioni come modo per passare le ore, come riempitivo del tempo del carcere, che, per carità può andare anche bene, perché si imparano regole, meccanismi, rispetto di orari, o se, invece, ci si pone il problema del lavoro inteso come rieducazione, reinserimento, e allora bisogna dare ad esso un significato poi spendibile all’esterno, farlo diventare un’occasione in più, questo secondo me è il primo nodo che va sciolto.

Parlando poi da Giudice del lavoro, devo dire che il rispetto dei diritti non è un’esperienza così normale nell’ambito del mondo del lavoro; il fatto che ci sia un contenzioso enorme in materia di lavoro significa che ci sono moltissime persone che ritengono di essere state lese nei loro diritti e per questa ragione si rivolgono al giudice. Chi parte dal punto di vista del penalista ha in mente essenzialmente come unico valore la tutela della collettività nei confronti di coloro che hanno commesso dei reati, mentre i civilisti hanno un approccio completamente diverso: il diritto non serve solo a tutelare la società da chi commette un reato, ma anche a tutelare gli individui che fanno parte della società dalla violazione dei loro diritti ad opera di altri individui o ad opera dello Stato. Questo cambiamento di approccio sembra banale, ma è rivoluzionario: se si prende in mano il tema del lavoro penitenziario dal punto di vista della sicurezza e della custodia, è un discorso, se lo si prende dal punto di vista della tutela dei diritti si rovescia la prospettiva.

In realtà, la prospettiva della tutela dei diritti era inizialmente quella attribuita al Magistrato di Sorveglianza, che in origine era nato proprio come un giudice con funzioni di garante dei diritti dei detenuti.

 

Il difensore civico per le carceri nasce proprio dalla considerazione che la Magistratura di Sorveglianza non è riuscita ad assolvere il suo compito

 

Francesco Morelli: Mi sembra che su questo sia intervenuto spesso Alessandro Margara.

 

Monica Vitali: Esatto, anche perché lui è stato uno dei "padri" della riforma e di noi Giudici di Sorveglianza giovani all’epoca dell’entrata in vigore della Gozzini. Questa era originariamente la funzione della Magistratura di Sorveglianza, e se voi andate a scorrere le norme sull’Ordinamento Penitenziario, vedrete che in realtà non ci sono solo le misure alternative nell’elenco dei compiti di questo giudice, ma c’è anche la sorveglianza dell’esecuzione delle pene, perché l’altra parte delle funzioni del Giudice di Sorveglianza è quella di andare a controllare se tutti i diritti che sono riconosciuti nella legge e dettagliati nel regolamento sono correttamente applicati verso i detenuti; se non è così, allora interviene lo strumento del reclamo. I reclami al Magistrato di Sorveglianza servono a questo, al controllo sul corretto esercizio di quei poteri che nella vita quotidiana interna incidono sulla soglia di diritti che sono riconosciuti ai detenuti in quanto tali. Il progetto di legge che è stato presentato recentemente sul difensore civico per le carceri nasce proprio dalla considerazione che, dal punto di vista della tutela dei diritti all’interno del carcere, la Magistratura di Sorveglianza non è riuscita ad assolvere o, meglio, non riesce più ad assolvere il suo compito.

Tornando al mio discorso originario, se si parte dal punto di vista che i detenuti che lavorano sono dei lavoratori a tutti gli effetti, allora si tratta, da una parte, di prendere in mano i diritti dei lavoratori e, dall’altra, di prendere in mano l’Ordinamento Penitenziario, metterli insieme e vedere cosa succede.

 

il detenuto è anche un soggetto di diritti

 

Sandro Calderoni (Ristretti Orizzonti): Ma sono due cose che si contrappongono.

Monica Vitali: Sì, per forza, perché comunque in un rapporto di lavoro comune i due soggetti sono liberi, mentre nel lavoro penitenziario può capitare che un soggetto sia la stessa Amministrazione Penitenziaria, che già di per sé è un’anomalia, oppure, nel caso che il soggetto datore di lavoro sia una qualunque società o cooperativa, sempre il lavoratore è anche un detenuto e deve sottostare anche alle regole interne del carcere, che a volte entrano in contraddizione con quelle del lavoro. Però, più che una contraddizione, secondo me, vi è un problema culturale, che implica uno sforzo da parte di chi applica queste norme, nel senso di pensare che il detenuto è anche un soggetto di diritti, in quanto lavoratore, e vedere quali sono i diritti, riconosciuti ai lavoratori, che possono essere riconosciuti senza difficoltà anche all’interno del carcere.

 

Francesco Morelli: Lei ha parlato di approccio di tipo culturale, ma mentre due soggetti liberi vanno al dibattimento, perché una delle parti si ritiene danneggiata nei suoi diritti, e ambedue le parti sono rappresentate, in una controversia di lavoro mossa da noi detenuti, abbiamo solo il reclamo al Magistrato di Sorveglianza, e non possiamo partecipare come parte al momento decisionale, nemmeno, mi sembra, nei confronti dell’Amministrazione Penitenziaria.

 

Monica Vitali: Ma è perché scegliete lo strumento sbagliato, usate il reclamo, invece della causa ordinaria di lavoro. Questo è un punto fondamentale, nel quale vorrei distinguere i due casi: uno riguarda il rapporto di lavoro con l’Amministrazione, per cui lo strumento è il reclamo; l’altro è la situazione di chi lavora per una cooperativa o per una società; se ha da lamentarsi verso il suo datore di lavoro deve intentare la causa non davanti ad un Magistrato di Sorveglianza, bensì davanti al Giudice del lavoro del Tribunale in cui è detenuto.

 

bisogna rompere in qualche modo le acque stagnanti

 

Francesco Morelli: Bisogna dire però che questa possibilità è poco conosciuta, e la vedo anche poco realizzabile.

Monica Vitali: E’ realizzabilissima invece! Se qualcuno di voi facesse una causa di lavoro potrebbe benissimo chiedere di partecipare al suo processo di lavoro, esattamente come ad un processo penale. In realtà, la difficoltà potrebbe essere collegata alla necessità della difesa tecnica, che in un processo civile è fondamentale. Bisogna però ricordare che il gratuito patrocinio è stato recentemente introdotto anche per le cause civili.

Voi dovete tenere presente che bisogna rompere in qualche modo le acque stagnanti, e se nessuno fa cause non è possibile farlo. A Milano abbiamo avuto ricorsi di lavoro fatti dai detenuti semiliberi che lavoravano per delle società e naturalmente non c’era nessuna differenza rispetto alla posizione di un lavoratore libero. Semmai, il vero problema è di andare a verificare se il contrasto è tra lavoratore e datore di lavoro oppure si tratta di una conseguenza dell’interferenza della situazione penale sul rapporto di lavoro.

 

...non dimentichiamoci mai che l’ammissione alle misure alternative è fatta sulla basedi un giudizio prognostico

 

Francesco Morelli: A questo riguardo, proprio nel suo intervento al convegno di Padova sul lavoro, lei ha parlato dei cosiddetti lavori atipici, e neanche a farlo apposta, nei giorni scorsi è venuta fuori la questione di una cooperativa, che aveva tre posti di lavoro a termine, ed è andata a cercare tre detenuti nel carcere della sua città. Pare che il direttore abbia detto di non sentirsela di mandarli in articolo 21 a termine e il Magistrato di Sorveglianza pure lui non se la sia sentita di mandarli in semilibertà a termine, perché poi dovrebbe, una volta terminato il lavoro, revocargli la semilibertà. Quindi si presenta un grosso problema, sia dal punto di vista dei lavori a termine, sia da quello della formazione al lavoro. Adesso sta partendo, è la prima volta a Padova, un corso di formazione lavoro all’esterno, con delle persone che vengono appositamente ammesse alla semilibertà per partecipare a questa esperienza. Ci potrebbe suggerire ulteriori approfondimenti sul lavoro a termine?

 

Monica Vitali: Ritorno a quello che dicevo prima: anche con riferimento ai lavori atipici si tratta di un problema culturale, perché non c’è scritto in nessuna norma che il lavoro a termine non possa giustificare l’ammissione ad una misura alternativa. Diciamo che ci sono due diversi elementi da considerare: il primo è la valutazione della adeguatezza di un lavoro a termine ai fini del requisito del reinserimento, il secondo è la valutazione della personalità del detenuto in rapporto a quel tipo di lavoro, ma questa è una valutazione che si fa sempre, per qualunque misura alternativa e per qualunque tipo di lavoro.

Alcuni passi avanti in questa direzione sono stati fatti, ma in questo momento, secondo me, il problema più grave è il rapido cambiamento del mondo del lavoro rispetto all’approccio al lavoro del mondo penitenziario, perché il lavoro penitenziario inteso come extramurario è ancora un lavoro che deve essere caratterizzato dal tempo indeterminato, da un lato, e dalla subordinazione, dall’altro. Il mondo del lavoro invece sta facendo ormai passi da gigante in una prospettiva in cui il contratto a tempo indeterminato è un lavoro in via di estinzione, perché la parola più usata ora, e che fino a dieci anni fa non usava nessuno, è flessibilità, che si accompagna ormai alla precarizzazione. Voi vi rendete conto che l’idea della subordinazione a tempo indeterminato è quanto di più lontano dal lavoro flessibile e precario si possa immaginare, perché significa una situazione di lavoro inamovibile, si presume a vita o sino alla pensione. Ma ormai il lavoro sicuro e stabile per la vita non esiste più neanche nel pubblico impiego, perché anche i pubblici dipendenti possono essere licenziati .

Per questo sostengo che è un problema culturale, perché quando mi si dice che un Magistrato di Sorveglianza o un direttore non se la sentono di concedere una misura alternativa o un articolo 21 per un lavoro a termine, bisogna chiarire la ragione di questo diniego, perché potrebbe basarsi su una valutazione personale del detenuto, e non dimentichiamoci mai che l’ammissione alle misure alternative è fatta sulla base di un giudizio prognostico, oppure su una valutazione dell’adeguatezza del lavoro a termine proposto. Perché il lavoro, per come viene delineato dalla riforma Biagi, diventerà in realtà una serie di lavori a termine che si susseguono, una serie di contratti precari, perché, per esempio, il primo a termine dura sei mesi, poi finisce e c’è il vuoto per un certo periodo, poi c’è un altro contratto, per tre mesi, e poi ne capiterà uno a chiamata e così via. Questo è il mercato del lavoro che già esiste e che si prospetta in misura sempre più massiccia per il futuro, e per questo si parla di precarizzazione del lavoro. Ecco lo scontro con il lavoro penitenziario: i tempi di ammissione ad una misura alternativa fanno sì che il contratto di lavoro atipico, quando arriva la concessione della misura, non c’è più, perché è legato ad una richiesta contingente, a una stagionalità o a una commessa che è finita mentre il detenuto è ancora lì che sta aspettando che venga valutata la sua richiesta. Vedete, questo non è un problema legislativo, è uno scontro di realtà fra mondi diversi.

 

Ornella Favero (Ristretti Orizzonti): Mettiamo che venga concessa la semilibertà con un lavoro a termine, se il lasso di tempo tra la fine di questo lavoro e il reperimento di un altro è di qualche mese, non vi è un modo di "congelare" la semilibertà finché il detenuto non trova un’altra occupazione?

Monica Vitali: Questo è un problema assolutamente analogo a quando si ha un rapporto di lavoro a tempo indeterminato e il semilibero viene licenziato, non cambia nulla dal punto di vista legislativo. Si tratta di verificare se, in quel caso, l’équipe trattamentale ritenga opportuno proporre un programma di trattamento provvisorio, cioè a termine anch’esso, magari non con gli stessi ampi ambiti spaziali e temporali concessi quando il detenuto lavora, al fine di reperire un’altra attività lavorativa. Nella mia esperienza a Milano, quando facevo il Magistrato di Sorveglianza, era un sistema assolutamente normale, lo si faceva di solito per 15 giorni, che poi potevano venir prorogati se l’équipe riceveva un’offerta di lavoro e la doveva vagliare prima di fare la proposta del nuovo programma di trattamento. Si tratta di un modo di operare non vietato da nessuna norma, che fa parte della personalizzazione delle misure alternative.

 

non si forma una giurisprudenza nè la giurisprudenza formata si evolve, se non si creano dei casi

 

Francesco Morelli: Ma nel momento in cui ci viene respinta una richiesta di ammissione alla semilibertà, proprio con la motivazione che il lavoro a termine non è adeguato, possiamo fare un ricorso, e basandoci su quali elementi?

Monica Vitali: Il provvedimento di sorveglianza è ricorribile in Cassazione. Ho già detto che non è scritto da nessuna parte che il lavoro per la semilibertà deve essere a tempo indeterminato, ma si tratta di una valutazione in termini di adeguatezza ai fini del reinserimento.

Apro una parentesi che si ricollega al discorso di prima sui reclami e le cause ordinarie di lavoro: non si forma una giurisprudenza né la giurisprudenza formata si evolve, se non si creano dei casi. La Cassazione ha bisogno di essere investita di casi per formare una giurisprudenza. La tutela dei diritti è un’attività che si esercita in pratica attraverso la proposizione di cause e quindi attraverso ricorsi in Cassazione contro delle decisioni, altrimenti la giurisprudenza non fa passi avanti. Il problema culturale è suscitare una riflessione all’interno della magistratura, perché la magistratura opera in un solo modo, cioè attraverso le sue decisioni, e se queste non vengono suscitate non è che può farlo il giudice, alzandosi la mattina e dicendo: "Ah caspita! È entrata in vigore la legge delega 14 Febbraio 2003 n° 30, allora mi pongo il problema di quanto sono compatibili questi lavori con la posizione di detenuto". No, il sistema non funziona così, ma agisce su casi concreti che vengono posti all’attenzione del giudice, si creano una serie di decisioni omogenee, intese come un orientamento giurisprudenziale, in un senso o in un altro e in questo modo si arriva a quel famoso dibattito, quantomeno culturale, a cui accennavo prima, che però deve essere presente anche all’interno dei meccanismi giurisdizionali di tutela dei diritti e non solo nei convegni.

Tutte le giurisprudenze si formano attraverso il tempo, tutte le leggi nuove hanno bisogno di una elaborazione pratica, la stessa legge Gozzini l’ha avuta, non è che il primo giorno che è entrata in vigore tutti sono usciti in permesso premio, tanto per citare l’esempio di una grandissima novità per i detenuti all’epoca.

Uno degli appunti più significativi che i detenuti muovono alla Magistratura di Sorveglianza è l’estrema diversità di decisioni da un distretto all’altro, che vuol dire disomogeneità della giurisprudenza dei Magistrati e dei Tribunali di Sorveglianza. La mia risposta da giurista è che esiste un unico modo, che in una certa misura permette l’omogeneità della giurisprudenza: si tratta di muoversi verso l’alto del vertice della piramide della magistratura e quindi permettere che si formi una giurisprudenza della Corte di Cassazione. Non esiste altro meccanismo, e non solo in ambito penitenziario, ma in qualunque ambito del diritto.

 

Ornella Favero: A noi sembra però che la condizione del detenuto sia comunque estremamente "bloccata". Nel suo libro lei parla di diritto di sciopero, e, almeno per chi lavora fuori, lei dice che è un diritto anche per un lavoratore detenuto. Il problema è che per esercitare questo diritto il detenuto dovrebbe rimanere in carcere, col rischio di farsi chiudere dalla misura alternativa.

 

Monica Vitali: Siccome esiste un principio nel nostro ordinamento che si chiama gerarchia delle fonti ed è piramidale, in cima vi è la Costituzione e le leggi costituzionali, poi più in basso ci sono le leggi ordinarie, e ancora più sotto i regolamenti. Così mi risulta difficile comprendere come in ambito giuridico si possa sostenere che una disposizione regolamentare vieta l’esercizio di un diritto costituzionale, e questo è il senso del contenzioso, che è l’unico strumento di affermazione concreta dei diritti.

 

le affermazioni di un diritto sono anche una vittoria morale e una vittoria per il futuro

 

Graziano Scialpi (Ristretti Orizzonti): Sono d’accordo, la questione è però che per noi i contenziosi possono risolversi in tante vittorie di Pirro, perché se anche alla fine mi danno ragione, magari c’è poi una direzione che a sua discrezione mi può far trasferire da un’altra parte, dove forse il lavoro non c’è, dove forse non è possibile avere i benefici di legge, per cui alla fine la nostra rischia di essere solo una vittoria morale.

 

Monica Vitali: Potrei rispondere che in realtà quasi tutte le affermazioni di un diritto sono anche una vittoria morale e una vittoria per il futuro. Mi rendo conto che, dal punto di vista individuale, questo è un discorso molto pesante da sopportare, però da un punto di vista del sistema è l’unico discorso che esiste. Non voglio teorizzare il sacrificio di qualcuno per molti, però si tratta di un processo evolutivo, il primo che avanza il riconoscimento di un certo diritto forse non riuscirà a goderne, ma certo è che se nessuno comincia, nulla può cambiare.

 

Graziano Scialpi: E’ che si rischia di finire a Canicattì, trasferiti a mille chilometri dai famigliari.

 

Monica Vitali: Fuori, nel mondo del lavoro libero, il rischio è di non avere i soldi per dar da mangiare ai propri figli. Scusate la brutalità, ma siccome in questo periodo ho tra le mani continuamente cause di licenziamento, mi rendo conto che ciascuno ha davanti a sé il suo mondo, però purtroppo i mondi sono tanti, spesso e volentieri in conflitto tra di loro in guerre tra poveri. Moltissime persone perdono il lavoro, non ne trovano un altro, oppure lo trovano con delle modalità che non consentono di sopravvivere, ed allora cosa fanno? Non chiedono la tutela dei loro diritti, perché in questo modo si fanno la fama di quelli che fanno le cause e quindi nessun altro gli darà un lavoro? Ricordiamoci che se la persona che ha fatto la causa contro il licenziamento illegittimo la vince, recupera il suo posto, visto che l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori esiste ancora.

Bisogna dire comunque che le categorie del diritto del lavoro non sono semplici, mentre l’approccio dei non addetti ai lavori tende a semplificare; invece, gli spazi per la tutela dei diritti nascono se si utilizzano gli strumenti del diritto del lavoro in modo estremamente tecnico. Io prima ho detto che se la persona che ha fatto sciopero viene chiusa, è facile fare e vincere un reclamo contro questa decisione, perché in base al principio della gerarchia delle fonti, non ci può essere la negazione di un diritto costituzionale sulla base di un provvedimento della direzione. Quello che voglio dire è che non ci sarà mai nessun provvedimento che motiverà la fine della misura alternativa con la partecipazione del detenuto allo sciopero. La pratica, però, è molto più complessa, e cercherò di fare un esempio che chiarisce il problema: nel caso di licenziamento incolpevole, a una persona libera semplicemente si pone la questione di come guadagnare per dare da mangiare ai figli, quando ha finito i risparmi. Un detenuto che viene licenziato senza colpa, oltre ai problemi di un normale lavoratore, deve affrontare anche quelli connessi alla sua condizione di detenuto ammesso ad una misura alternativa. Ma i due piani non possono essere confusi e questo presuppone una capacità tecnico-giuridica di chi deve valutare la situazione, compresi gli avvocati, che in questi nostri discorsi di oggi sono i grandi assenti. La funzione dell’avvocato è di occuparsi della tutela dei diritti, perché il nostro sistema non funziona con il giudice che a una persona incontrata per strada che gli riferisce di essere stata licenziata, può proporre: "Domani vieni in udienza, che ti faccio il processo". Sul tavolo del giudice deve arrivare un atto di qualcuno che si lamenta di qualcosa. Per questa ragione io prima dicevo che è un problema culturale, perché riguarda non solo la Magistratura di Sorveglianza, ma anche l’avvocatura. E non è solo un problema di soldi, ma anche di capacità tecniche dell’avvocato, che a volte è già in difficoltà sull’Ordinamento penitenziario, figuriamoci quando si tratta di capire come mettere insieme Ordinamento Penitenziario e diritti dei lavoratori!

 

Francesco Morelli: In ogni caso io non credo che i detenuti siano particolarmente tutelati quando lavorano, sia all’interno che all’esterno, per un semplice motivo, che si trovano in difficoltà nel momento della richiesta del riconoscimento di un diritto perché temono all’interno di perdere il posto di lavoro, che è già una rara conquista, e all’esterno una serie di altre ripercussioni come la chiusura dalla misura alternativa. Quindi non è semplicissimo parlare di diritti, e anche la sicurezza sui posti di lavoro a volte non è affatto rispettata. I detenuti spesso hanno a che fare con dei lavori malsani, e forse se fossero persone diverse ci sarebbe nei loro confronti una maggiore attenzione, nel timore di un ricorso o una denuncia.

 

Monica Vitali: Lei parla da detenuto, io ho visto in certe aziende come lavorano i non detenuti e ho visto, per esempio, in quali condizioni vengono messi a lavorare gli immigrati extracomunitari.

 

la soglia della tutela dei diritti si è abbassata per tutti

 

Francesco Morelli: Lo so, c’è chi probabilmente è in condizioni peggiori, ma qui stiamo trattando il problema del lavoro ai detenuti e secondo me non si può dire che i detenuti siano particolarmente tutelati, la condizione di detenuti rende molto più difficile il fatto di poter rivendicare il diritto a un lavoro sicuro e giustamente remunerato.

 

Ornella Favero: Ho capito il ragionamento di Francesco, perché per esempio qualche giorno fa si discuteva del lavoro domestico all’interno del carcere, e si diceva che quasi tutti lavorano più ore di quello che vengono pagati e tutti accettano di farlo perché hanno paura di perdere il posto. C’è però anche l’altro aspetto del problema, credo culturale, e cioè che i detenuti spesso hanno il vizio di non misurarsi mai con la realtà fuori, dove c’è ugualmente gente che fa un sacco di ore di straordinario, non pagate, pur di non rischiare di perdere il lavoro.

 

Monica Vitali: Vorrei dire due cose, prima sulla sicurezza sui posti di lavoro e poi, più in generale, sulla tutela dei diritti, che, secondo me, si legano anche al tema delle modifiche del mercato del lavoro, perché nel futuro, io credo, la situazione non migliorerà. Quanto alla sicurezza sul posto di lavoro, gli infortuni stanno aumentando per effetto della precarizzazione: siccome le misure antinfortunistiche costano, questo è un momento in cui si sta abbassando pesantemente la tutela per tutti, e ribadisco per tutti, perché voi avete la percezione della vostra situazione, io per esempio ho la percezione della situazione dei lavoratori extracomunitari, che vengono messi a fare lavori che nessun italiano accetta di fare, con orari e condizioni spesso impossibili, e ai quali spesso manca addirittura la consapevolezza di essere soggetti con dei diritti. Più in generale, cominciamo a renderci conto che la soglia della tutela dei diritti si è abbassata per tutti; con questo non voglio entrare nella polemica se i detenuti abbiano una soglia di tutela più elevata o meno rispetto al lavoratore che sta fuori. Vorrei però che fosse chiaro come in questo momento il livello di tutela si sta abbassando per tutti. E l’evoluzione del mercato del lavoro con la diffusione dei contratti atipici, di breve durata, che presuppongono grande intercambiabilità tra le persone, perché comunque le professionalità sono basse, non mi induce a sperare in un innalzamento del livello delle tutele. Ecco perché bisogna misurarsi in concreto con questa realtà fuori, e non limitarsi ad un dibattito centrato esclusivamente sul lavoro dei detenuti.

Tra controllo e sostegno

Punti di vista diversi sulla figura del tutor

 

La figura del tutor, sempre più presente nei percorsi di reinserimento, suscita reazioni contrastanti nei detenuti: dalla consapevolezza di avere bisogno di un sostegno nel difficile impatto con il mondo esterno, alla paura di trovarsi un altro controllore, dopo i tanti già presenti in carcere. Pubblichiamo due brevi interventi in materia, uno di Sabrina Gaiera, operatrice del Consorzio Sol.Co. di Varese, l’altro di Licia Roselli, dell’Agenzia di Solidarietà per il lavoro di Milano. E poi una accesa discussione nella nostra redazione, che i temi più spinosi li affronta sempre di petto.

 

La figura del tutor come la vede Sabrina Gaiera, del Consorzio Sol.Co. di Varese...

 

Colgo personalmente l’occasione per rilanciare il nodo dei percorsi di accompagnamento e tutoring nel lavoro all’esterno. Nella nostra esperienza questa opportunità supera (senza evitare) il limite del puro controllo e vuole offrire alle persone un’occasione per poter analizzare ciò che non va (e quindi raddrizzare il tiro) ma anche tutto quello che va bene e funziona, per sostenere percorsi positivi e costruire con le persone coinvolte occasioni di rilettura e approfondimento di ciò che avviene nel luogo di lavoro, che potranno poi riprendere da soli o con altri, in contesti diversi e da persone libere, e serviranno per sostenere anche momenti non più controllati ma a volte ugualmente difficili.

Il tutor aiuta la rilettura dell’esperienza, sostiene la capacità di raccontarsi e rivalutare i tanti aspetti del lavoro che non sono solo l’esecuzione precisa della mansione, ma soprattutto il rapporto con le regole aziendali, il rapporto con i colleghi e con i superiori (relazioni con il gruppo dei pari e con la "gerarchia"), la crescita dello status di lavoratore con il giusto rapporto nella rivendicazione dei diritti e nell’assolvimento dei doveri all’interno del mondo del lavoro.

Penso che a tutti noi piacerebbe poter confrontare ciò che succede nel difficile incontro quotidiano con il nostro "luogo di lavoro" e reputo questa opportunità una ricchezza per le persone inserite... Il tutor si pone inoltre come mediatore tra "l’azienda" e la persona inserita e dal suo essere nel "mezzo" offre possibilità di incontro migliore tra esigenze e aspettative a volte differenti. Non si costruiscono altre gabbie, probabilmente si vuole sostenere anche con il lavoro la lenta ricostruzione di possibilità, per evitare situazioni di recidive sempre tanto difficili o a volte insostenibili.

 

... e come invece la vede Licia Roselli dell’Agenzia di Solidarietà per il Lavoro

 

La funzione del tutor è quella di accompagnamento a tutto tondo. Il tutor agisce su due fronti, quello aziendale e quello verso il detenuto, su tutte le problematiche che insorgono nei due versanti per facilitare al meglio l’inserimento. Perché, a parte le cooperative che possono conoscere bene la situazione dei detenuti, le aziende invece non sanno prendersi in carico uno che ha orari rigidissimi, regole imposte, controlli della polizia, e hanno bisogno di essere aiutate ad occuparsi di tutte queste pratiche. E il detenuto ha tempi e modalità diversi di adattamento al posto di lavoro.

Il tutor per esempio si presenta al lavoro, contatta l’imprenditore e il lavoratore, verifica l’andamento del percorso e agisce per rimuovere qualsiasi ostacolo o impedimento; sia l’imprenditore che il detenuto lavoratore possono contattare il tutor per qualsiasi cosa, per informazioni o per problemi. Un piccolissimo esempio, che ci è capitato recentemente, è di una persona che si trovava in carcere da diversi anni, e se non ci fosse stato il tutor ad accompagnarlo sul posto di lavoro si sarebbe perso: non sapeva che mezzi pubblici prendere, gli euro non li aveva mai visti, era totalmente disorientato, anche ad affrontare cose che sembrano banali!

 

I detenuti e il tutor

Una discussione "accesa" nella nostra redazione

 

La funzione del tutor è quella di accompagnamento a tutto tondo. Il tutor agisce su due fronti, quello aziendale e quello verso il detenuto, su tutte le problematiche che insorgono nei due versanti per facilitare al meglio l’inserimento. Perché, a parte le cooperative che possono conoscere bene la situazione dei detenuti, le aziende invece non sanno prendersi in carico uno che ha orari rigidissimi, regole imposte, controlli della polizia, e hanno bisogno di essere aiutate ad occuparsi di tutte queste pratiche. E il detenuto ha tempi e modalità diversi di adattamento al posto di lavoro.

Il tutor per esempio si presenta al lavoro, contatta l’imprenditore e il lavoratore, verifica l’andamento del percorso e agisce per rimuovere qualsiasi ostacolo o impedimento; sia l’imprenditore che il detenuto lavoratore possono contattare il tutor per qualsiasi cosa, per informazioni o per problemi. Un piccolissimo esempio, che ci è capitato recentemente, è di una persona che si trovava in carcere da diversi anni, e se non ci fosse stato il tutor ad accompagnarlo sul posto di lavoro si sarebbe perso: non sapeva che mezzi pubblici prendere, gli euro non li aveva mai visti, era totalmente disorientato, anche ad affrontare cose che sembrano banali!

 

Nicola Sansonna: La mia prima perplessità sul tutor è che lo vedo come un’altra figura di controllo che si va ad aggiungere alle tante che stanno intorno ad un detenuto, anche se le intenzioni di chi ha pensato a questa figura è di dare un sostegno, un aiuto a chi ne ha bisogno.

Può darsi che io faccia un discorso fondato su un pregiudizio, ma io penso che ci sarà qualcuno che gli darà delle disposizioni e dei compiti ben precisi, e tra questi ci sarà il compito di relazionare al magistrato o alle autorità, ed ecco che nasce un ruolo di controllo sul detenuto. Già ci sono gli assistenti sociali, ci sono i carabinieri, gli agenti di polizia penitenziaria, c’è il datore di lavoro, a casa mia c’è pure mia sorella, se poi ci mettiamo anche il tutor!!!

E poi… vedere un detenuto come un bambino che ha bisogno di essere sempre portato per mano, io su questo non sono d’accordo!

 

Ornella Favero (volontaria): Intanto viene fuori una prima domanda: il tutor ha l’obbligo di relazionare a qualcuno?

Marino Occhipinti: Io penso che basta leggere le finalità di quelli che lo fanno veramente, per capire il suo ruolo. Se poi invece lo si vuole vedere in chiave negativa, io posso pensare anche che tu, che sei una volontaria, potresti costituire una forma di controllo, potresti riferire che oggi mi sono comportato male.

 

Elton Kalica: A prescindere dal fatto, se il tutor ha la funzione di controllo o meno, io quello che penso è che si tratta di una figura importante, fondamentale per il detenuto, perché a mio avviso anche il lavoro che Ornella sta facendo è da un certo punto di vista da tutor, perché sta aiutando tutti noi ad avere un collegamento con il mondo esterno, e quindi se Ornella va bene perché un altro tutor non dovrebbe andare bene?

Questo è dal punto di vista dell’aiuto, poi c’è da considerare un’altra cosa, che la maggior parte dei detenuti, tra i quali anche il sottoscritto, non sarebbe capace una volta fuori di orientarsi in questa città, tra uffici, strade, mezzi di trasporto, quindi una persona che mi prenda per mano, come un bambino, come dice Nicola, io non la disprezzerei, anzi ne avrei veramente bisogno.

Un altro timore che ho, per esempio, interessa ancora questa figura: vai a lavorare in una fabbrica e vedi che c’è un ambiente ostile, i lavoratori vanno dal datore di lavoro e si lamentano perché c’è un detenuto tra di loro, tu cosa fai? Chiami il tutor, gli spieghi la faccenda e lui a sua volta che cosa fa? Cercherà di fare un lavoro di mediazione o chiamerà il giudice dicendo che la persona non è gradita? queste sono le domande che io mi pongo, non è se il tutor va bene o no, perché a me va bene qualsiasi persona esterna che venga a dare una mano ai detenuti, anche se poi ha una situazione di controllo, io non ho problemi, se non faccio niente di male lui può controllare quello che vuole.

 

Graziano Scialpi: In realtà secondo me nelle definizioni del tutor c’è la tesi della necessità del controllo sociale del detenuto o ex e l’antitesi del detenuto o ex che non vorrebbe essere controllato, e poi si vorrebbe trovare la mirabile sintesi del tutor che supera queste due cose conservandole. Quindi in pratica cos’hai? Hai il detenuto che innegabilmente ha bisogno di un aiuto per i documenti, e allora io gli offro la "carota" con questo aiuto, ma non è che gli insegno a sbrigarsela da solo, a diventare cittadino a tempo pieno, perché gliele sbrigo io le cose, in cambio però lui si tiene anche il "bastone" del controllo.

 

Francesco Morelli: Io mi pongo un’altra domanda: posso sceglierlo io, il tutor? Perché può darsi che ne trovo uno bravissimo, ma con cui non vado d’accordo, e io invece vorrei avere uno con cui andare d’accordo, perché ritengo fondamentale capire e definire quali sono le sue competenze riguardo a me e mettermi d’accordo prima, fin dove può aiutarmi, fin dove mi controlla.

 

Ornella Favero: C’è una domanda da porsi prima di tutto: avere un tutor è una scelta del detenuto, così come può essere una scelta usufruire dei servizi di uno psicologo? La cosa non è così semplice, perché potrebbe essere la ditta o la cooperativa dove uno lavora a ritenere di avere bisogno di una figura così.

Faccio un esempio: c’è una cooperativa che, ad un certo punto, sta per perdere una commessa di lavoro perché c’è un detenuto che lavora male e questo crea delle difficoltà con la ditta che commissiona questo lavoro, per cui la figura del tutor in quel caso te la possano imporre e può essere una figura che lavora per la cooperativa e che segue anche i problemi legati alla qualità del lavoro.

 

Francesco Morelli: Il problema è questo, se il controllo si limita nell’ambito del lavoro o si allarga a tutto il contesto del tuo spazio fuori dal carcere.

 

Franco Prosperi: Vorrei anch’io dire la mia, visto che ho avuto un’esperienza diretta, ho lavorato un anno per una cooperativa dove avevo una funzione analoga, portavo gli operai sul posto di lavoro, quasi tutti stranieri, a me spiegavano il lavoro e io lo spiegavo a loro. Però la contestazione del dipendente da parte dell’azienda che assume un operaio della cooperativa tante volte non è sulla qualità ma sulla quantità, sono quasi tutti lavori che vertono sul numero dei pezzi da fare, più che sulla qualità, figuriamoci poi le contestazioni nel caso di un detenuto. Per cui penso che la figura del tutor non sia negativa e serva per valutare veramente il lavoro della persona, e in certi casi dire che non si può pretendere la luna da questo dipendente.

 

Ornella Favero: Un’altra osservazione, che faceva prima Elton, riguarda il fatto che puoi capitare in un ambiente di lavoro ostile; questo ruolo di mediazione, tra l’altro io l’ho proprio visto a Venezia, dove gli operai della nettezza urbana, volevano addirittura le docce ed i bagni separati tra loro e la squadra dei detenuti. Quindi il problema di una mediazione sul posto di lavoro esiste.

 

Kaiss Jousef: Questo tutor può venire all’interno del carcere e fare un colloquio con te e trovarti un lavoro, può dare una garanzia per te?

Ornella Favero: Questo è un problema diverso, lo Sportello lavoro dovrebbe fare questa attività che dici tu, cioè aiutarti a fare un bilancio delle competenze che hai, orientarti su una possibilità di lavoro, metterti in contatto con una cooperativa. A quel punto, quando tu hai un percorso ben preciso, viene fuori la figura del tutor, che dovrebbe accompagnarti da questo possibile datore di lavoro per un colloquio, poi seguirti se devi farti dei documenti e nel primo periodo di avvio al lavoro se ti assumono.

 

Francesco Morelli: L’approccio che motiva chi ha questo ruolo è comunque spesso un po’ idealistico, ma l’idealismo da parte nostra è più difficile da digerire, io preferirei senz’altro uno che affronta in maniera più pragmatica il lavoro.

Quando poi vai a confrontarti con le questioni pratiche ti accorgi che l’atteggiamento romantico non funziona, perché genera delle aspettative che contrastano con l’attività, a volte molto poco esaltante, del tutor. La sua presenza poi non deve diventare un obbligo, nel momento in cui sei obbligato al confronto con il tutor cade tutto il suo valore, perché tu allora fingi e ti metti a recitare la commedia.

 

Elton Kalica: Io invece credo nella caratteristica di chi fa questo lavoro con un pizzico di idealismo, il che non significa che manchi di pragmatismo e che non sia capace di fare il suo mestiere.Tornando sull’esperienza personale, io sto studiando all’Università, e avrei immediato bisogno di un tutor, non potendo frequentare le lezioni e arrangiarmi da solo.

 

Francesco Morelli: Ascoltami Elton, io credo che siamo tutti d’accordo sull’utilità in ambiti come quello dello studio, le perplessità nascono quando si cerca di capire dove si ferma il suo ruolo, se posso sceglierlo io o se è lui che sceglie me. Certo se devo fare un colloquio di lavoro, se devo fare dei documenti, il tutor può aiutarmi, ma non è chiaro dove si fermano le sue competenze.

 

Graziano Scialpi: Scusate un secondo, ma qui mi viene un’immagine del detenuto come una specie di handicappato mentale. Il problema di orientarsi all’Università, per esempio, ce l’hanno tutti gli studenti che arrivano da altre città, devi imparare a muoverti da solo, questi sono problemi di tutti.

 

Elton Kalica: Se tu ti senti abbastanza abile a gestire ogni situazione, è una tua dote, ma non puoi considerare che tutti abbiano questa tua qualità, o presunta tale, specie dopo anni di galera, perché qui stiamo parlando di detenuti che non sempre sono residenti nella città dell’Istituto di detenzione, e anche le scarse conoscenze dei luoghi e della lingua sono handicap che una persona si ritrova, se ha alle spalle anni di carcere. Tu dici che non siamo degli handicappati, io dico che lo siamo, perché dopo una lunga permanenza in carcere si diventa tali, per certi aspetti.

 

Ornella Favero: Ha ragione Elton, un detenuto non è come uno studente o un lavoratore fuori, parte da una serie di svantaggi e non è affatto paragonabile ad una persona comune, se no Alessandro Margara (N.d.R.: Margara è uno dei padri della riforma penitenziaria) non avrebbe parlato di "percorso ad ostacoli" proprio quando uno inizia ad uscire in misura alternativa e poi a fine pena. Faccio un’altra considerazione personale. Ci sono persone intelligenti, che quando cominciano ad uscire in permesso a volte perdono completamente il senso della realtà. Si abituano in fretta alla libertà e sottovalutano che comunque sono sempre persone detenute, e magari si giocano la libertà per una stupidaggine. Secondo me servirebbe essere meno presuntuosi nel dire "non siamo bambini", nessuno dice questo, però è un segno di maturità ammettere di partire con molti handicap e sbalestrati dopo anni e anni di carcere, ed essere consapevoli che forse si ha bisogno di confrontarsi con qualcuno e ritrovare un po’ l’orientamento. E infatti nessuno propone un tutoraggio a vita.

 

Elton Kalica: Lasciamo stare allora se uno va all’Università e parliamo di uno che va in fabbrica, che è stato per 10/15 anni in carcere, poi esce e va in questa fabbrica, e gli operai presenti o il datore di lavoro fanno sapere a tutti che sei in galera per un determinato reato.

Che cosa fai se l’operaio che viene a conoscenza, per esempio, che uno è stato in carcere per omicidio, va dal datore di lavoro dicendogli che vicino a questa persona non ci vuole stare? C’è, quindi, il bisogno che una persona faccia un’opera di intermediazione in tali situazioni.

 

Francesco Morelli: Non penso che il tutor ti possa risolvere un problema così complesso, tu lo stai caricando di un’infinità di compiti ai quali secondo me non può far fronte, non devi idealizzarlo, pensare che ti risolva i contrasti nel posto di lavoro, che tratti con il Magistrato, non fa tutto questo.

 

Graziano Scialpi: In ogni caso, se crei problemi in un ambiente di lavoro, il datore non licenzia gli operai che ha da anni, licenzia te e non c’è tutor che tenga.

 

Ornella Favero: Scusa Graziano, ma sei sempre estremista. Ti faccio un esempio, i sindaci che nei loro paesi, come a Limena e Galliera, hanno assunto detenuti, si sono ritrovati o no di fronte un rifiuto iniziale da parte di tutta la comunità? poi qualcuno ha fatto la funzione di tutoraggio, non mi interessa se il tutor o un’altra figura, comunque qualcuno ha fatto un’opera di mediazione. E poi scusate, voi in carcere vi guardate attorno? Secondo voi avete a che fare con persone tutte autonome, con carattere sicuro e idee chiare per il loro futuro?

 

Nicola Sansonna: Io penso che il tutor possa servire a tante persone che possono avere dei limiti e delle paure, e giustamente, dopo tanti anni di galera.

Io ringrazio il cielo, la mia caparbietà, la mia voglia di non inaridirmi se sono ancora abbastanza lucido ed equilibrato, però riconosco che ci sono delle persone che hanno dei problemi.

La figura del tutor per me non è in discussione per la sua possibile utilità, io dico soltanto: non è che con un sorriso e una carezza alla fine mi trovo un poliziotto aggiuntivo? E poi, a chi riferisce? Quando mi risponderanno a queste domande ritirerò tutte le mie perplessità.

Gli stessi dubbi li avevo quando con la riforma hanno istituito la figura dell’educatore, e io all’epoca ero già in carcere: allora ci si chiedeva chi erano questi educatori, con chi stavano, se erano persone che venivano per sapere qualcosa, gente mandata dal ministero per sentire, riferire ecc., e nell’educatore forse c’era un po’ tutto questo, ma c’era anche la persona che cercava di aiutarti, e alla fine il mio parere sugli educatori è buono, non ho niente da ridire.

Il parere sul tutor diventerà buono, forse, quando io saprò cos’è, in questo momento io vedo soltanto delle persone che prendono dei fondi che potrebbero essere stanziati per i detenuti, e che accompagnano persone che probabilmente non hanno voglia di essere accompagnate, o non ne hanno bisogno. Se qualcuno ne avesse invece bisogno, sarebbero soldi ben spesi, però che non diventi una cosa troppo strumentale solo per prendere dei finanziamenti.

 

Claudio Darra: Questa figura di tutor, c’è chi la vede in modo drastico come un controllore, chi in modo romantico come una specie di angelo custode, alla fine mi sembra di tornare negli anni settanta quando nelle fabbriche c’erano i sociologi che facevano da tramite con il datore di lavoro perché il funzionamento della fabbrica procedesse nel migliore dei modi, però ben presto si è scoperto che l’interesse prevalente era quello del datore di lavoro e non quello degli operai.

 

Francesco Morelli: Se questo ruolo fosse ricoperto in maniera informale da qualcuno, un amico, una persona che è già dentro al luogo di lavoro, dal volontario, lo vedrei molto meglio, così c’è il rischio che venga strumentalizzato per creare posti di lavoro, come succede in tanti corsi di formazione, che non creano lavoro per i detenuti, ma fanno guadagnare solo quelli che vengono a fare i formatori. E poi c’è un altro problema, tu sei abituato da poco o da tanto ad avere una compressione estrema dei tuoi spazi di libertà, quei pochi residui che ci sono non vuoi che nessuno te li tocchi.

 

Ornella Favero: Dipende da come lo vedi, il tutor, se ti tocca il tuo esiguo spazio di libertà o se ti dà una mano ad averne di più, proprio aiutandoti ad avere meno rogne. Quanto al fatto che sia una figura informale, non puoi pensare di trovare sempre gente che abbia una professionalità elevata e lavori gratuitamente.

 

Francesco Morelli: Tornando all’esperienza che ho nella cooperativa di Venezia dove vado in permesso, vedo tutti i problemi delle persone lì, sono problemi innanzitutto di natura legale, perché anche fuori servono istanze e anche lì non so quanto il tutor possa risolvere questi problemi e quanto possa avere delle competenze di tal tipo.

Spessissimo passano in ufficio delle persone semilibere che, terminato il lavoro, hanno qualche ora a disposizione e vengono a chiedere qualche consiglio o documento. Lì se ci fosse uno, che più che seguire la persona sia un punto di riferimento, cioè che la persona vada da lui, ecco in quel momento ne vedo l’utilità, quindi se ci fosse un ufficio del tutor, più che il tutor che ti "segue", questo mi sembrerebbe un buon meccanismo, vai là e sai che c’è.

 

Ornella Favero: Non dimentichiamoci comunque che l’urgenza di dire "non ho bisogno di nessuno" l’ho sentita più spesso proprio nelle persone che poi hanno dimostrato di avere una estrema necessità di essere aiutate.

I lavoratori - detenuti hanno davvero delle tutele?

Ci sono, ma spesso è impossibile reclamarle

 

di Francesco Morelli

 

Più mi confronto con persone che si occupano, in varie maniere, del reinserimento dei detenuti e più mi rendo conto di quanto sia difficile comunicare con loro in maniera soddisfacente, anche se magari perseguiamo gli stessi obiettivi, con la stessa buona volontà…

Gli operatori esterni all’istituzione, per esperti che siano, non possono capire bene cos’è il "vivere in carcere", quello che accade (o non accade) ogni giorno e, soprattutto, le ragioni che determinano questi accadimenti: spesso si tratta di ragioni così connaturate nell’ambiente carcerario che nemmeno noi detenuti le sappiamo isolare e descrivere.

Gli operatori dell’istituzione, invece, dovrebbero vedere e capire tutto, il problema è che lo valutano da un punto di vista differente dal nostro. E qui non si tratta di stabilire chi ha ragione e chi ha torto, il fatto è che, da prospettive diverse, si hanno ovviamente delle visuali diverse.

Preparando la giornata di studi "Carcere: non lavorare stanca" (e anche a seguito di questa) abbiamo parlato tanto del lavoro, dentro e fuori del carcere, delle prassi migliori per dare un’occupazione ai detenuti, degli strumenti normativi al riguardo, e via dicendo.

Una questione è rimasta un po’ in secondo piano: come sono trattati i lavoratori-detenuti? Il fatto che non si lamentino (quasi) mai vuol dire che sono contenti del loro lavoro, oppure che non possono lamentarsi?

È vero che pure i lavoratori non detenuti hanno sempre meno "convenienza" a lamentarsi, che il lavoro è sempre più precario e "flessibile", che sul mercato della manodopera ci sono tanti immigrati disposti (o costretti?) a lavorare in qualsiasi condizione, e noi detenuti dovremmo solo starcene zitti, anche perché c’è già chi pensa al nostro bene…

Però ho notato che le varie ricerche sul lavoro penitenziario hanno dei "buchi" proprio nel passaggio tra le leggi, necessariamente astratte, e la loro concreta applicazione. In questo caso particolare, tra l’enunciazione dei diritti dei lavoratori-detenuti e il loro effettivo esercizio. L’analisi, quando c’è, si arresta di fronte ad una doppia constatazione:

1. Manca il lavoro, quindi il solo fatto di uscire dalla cella è già una conquista;

2. Tra i detenuti manca la necessaria consapevolezza dei propri diritti.

Entrambe queste ragioni sono condivisibili e, allo stesso tempo, presentano dei limiti evidenti. Prima cosa, va detto che il lavoro penitenziario non può essere valutato solo in termini economici: è uno degli elementi del trattamento, quindi dovrebbe insegnarci (o non farci dimenticare) cosa voglia dire "guadagnarsi onestamente da vivere".

Questo concetto, però, lo metabolizzi meglio quando ti sono riconosciuti alcuni diritti basilari, perché se il lavoro diventa una forma di asservimento, se sei ricattabile da ogni punto di vista e quindi devi sempre dire di sì, non ti rieduchi affatto, semmai impari a tenere i nervi sotto controllo, in attesa del momento giusto per prenderti la tua rivincita…

In carcere il lavoro è un dovere, perché se lo rifiuti senza avere un valido motivo (es. per problemi di salute) c’è una sanzione disciplinare, ma non è un diritto: "…salvo casi di impossibilità, al condannato e all’internato è assicurato il lavoro", recita l’articolo 15 della legge penitenziaria. Meno di un quarto dei detenuti lavora (13.474, di cui 11.213 alle dipendenze dell’Amministrazione Penitenziaria e 2.261 per cooperative, etc. – Fonte: Ministero della Giustizia), quindi l’eccezione è diventata la regola e, naturalmente, i posti disponibili sono quanto mai preziosi.

 

Niente contratto per chi lavora per l’Amministrazione Penitenziaria

 

La condizione di chi lavora per l’Amministrazione Penitenziaria è di non avere un contratto, quindi di poter essere "licenziati" in ogni momento (in gergo si dice, significativamente, essere "chiusi"), cosa che avviene di solito per motivi disciplinari, anche indipendenti dal comportamento sul posto di lavoro.

Assieme al possibile rilievo disciplinare, l’altro assillo di chi lavora è il trasferimento in un altro carcere, che può arrivare per tanti motivi… a volte anche di difficile comprensione.

Il compenso percepito dal lavoratore-detenuto si chiama "mercede" e, per legge, dovrebbe essere "non inferiore ai due terzi del trattamento economico previsto dai contratti collettivi di lavoro" (art. 22 O.P.): la misura di questi compensi è ferma a circa 12 anni fa e, attualmente, arriva sì e no, al netto dei contributi, ai 3 euro l’ora, dai quali vengono ancora detratte le quote per il mantenimento (circa 52 euro al mese, il costo dei pasti che ci passa l’Amministrazione).

Va anche detto che nel 1992, dovendo fare economie, l’Amministrazione ridusse gli orari di lavoro di molti addetti ai servizi domestici: gli "scopini", che prima lavoravano sei ore e mezza, ora lavorano tre ore e quaranta minuti. Gli addetti alla cucina, che prima lavoravano otto ore, ora fanno sei ore e quaranta minuti. Ma c’è anche chi, nei posti a rotazione mensile (che sono la maggior parte), ha un orario di lavoro limitato ad un’ora e mezza.

Quindi, oggi, i posti di lavoro sono gli stessi del 1992 e per di più con orari sensibilmente ridotti, mentre i detenuti che usufruiscono dei servizi (prestati dai loro stessi compagni), sono quasi il doppio. Ne consegue che la qualità dei servizi domestici è peggiorata per forza: le pulizie delle sezioni più frettolose, la preparazione dei pasti meno curata, e via di seguito.

Qualche rimedio, per fare fronte alla quotidiana emergenza, nel corso degli anni è stato escogitato: di solito consiste nel far lavorare (gratis) i detenuti oltre l’orario previsto, nella pausa pranzo, etc… ma senza che nessuno sia esplicitamente costretto a farlo, s’intende.

È successo anche a me, quindi posso descrivere l’esperienza diretta. Funziona così: vai in un posto, che può essere la cucina, il sopravvitto, etc., e ti rendi subito conto che la mole di lavoro è sproporzionata, rispetto alle persone e agli orari ufficiali che ci sono. Quindi, per essere benvoluto dai responsabili, cominci a fare un po’ di "volontariato", come peraltro vedi fare ai compagni che stanno lì da più tempo. "Qui è come una grande famiglia", ti dicono… "tu aiuti noi e noi aiutiamo te".

Ci sarebbe di che fare reclamo al Magistrato di Sorveglianza (art. 69 O.P.), però non è pensabile mettersi contro l’Amministrazione, quando dipendi da lei in tutto e per tutto. Se questo sarebbe un caso nel quale avere facilmente ragione (il problema è solo… a quale prezzo), ancora più ardua è l’eventuale rivendicazione di altri probabili diritti, sui quali la legge non è esplicita e che dovrebbero essere "conquistati" attraverso cause civili, davanti al Giudice del Lavoro, o alla Corte di Cassazione.

La legge Smuraglia (n° 193/2000) definisce il lavoro penitenziario "lavoro in senso stretto", però l’art. 20 O.P., al sedicesimo comma, riconosce ai detenuti solo il riposo settimanale, la tutela previdenziale e assicurativa e una durata massima dell’orario di lavoro. Non si parla, ad esempio, di iscrizione al sindacato, di Trattamento di Fine Rapporto, di licenziamento per giusta causa, di sciopero, etc. Sarebbero diritti inconciliabili con lo stato di detenzione? Forse sì, o forse no.

Ad esempio, nel 2001 c’è stata un’importante sentenza della Corte costituzionale (n° 158), con la quale si è stabilito che anche i lavoratori-detenuti hanno diritto al riposo annuale pagato (le ferie). Le cooperative che hanno dei laboratori all’interno delle carceri pagano le ferie e la tredicesima ai detenuti alle loro dipendenze. L’Amministrazione Penitenziaria, da quel che mi risulta, non si è ancora adeguata e, anche su questo, servirebbe un ricorso al Giudice del lavoro…

Quindi la tutela del lavoro, all’interno delle carceri, è molto problematica, ma nell’area penale esterna non è molto migliore, perché anche lì il lavoratore semilibero, o affidato, è in una posizione di grande debolezza contrattuale, di fronte al datore di lavoro. Perdere l’occupazione per lui significa tornare in carcere, suscitare antipatie o malcontenti, vuol dire che, prima o poi, al magistrato arriva una nota negativa e chissà come la prende…

Chi assume i detenuti in misura alternativa spesso si meraviglia di quanto sono bravi: arrivano al lavoro anche se hanno la febbre, non si lamentano mai, e via di questo passo. Finché reggono… perché ogni tanto qualcuno combina un disastro e, anche dopo tutto quello che ho visto a proposito della tutela del lavoro, certi episodi non mi meravigliano più.

La scelta di tornare all’illegalità deriva, in larga parte, da quello che hai provato durante la detenzione, quindi dal tempo trascorso sentendoti totalmente nelle mani degli altri, nell’incertezza sul tuo futuro. Il carcere è scuola di criminalità soprattutto in questo senso, perché il rapporto con tutte le altre componenti dell’istituzione, dai giudici agli agenti, è di dipendenza assoluta: tu stai sotto tutti, una relazione verticale che facilmente riprodurrai appena sarai libero, naturalmente cercando di ribaltare le posizioni… spesso con qualsiasi mezzo.

 

 

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