Editoriale

 

Lavoro dentro: dividere il niente tra tutti

o dare a pochi qualcosa di più?

 

Quando abbiamo deciso di dedicare al tema del lavoro per i detenuti una Giornata di studi, quella che si è tenuta il 9 maggio nella Casa di Reclusione di Padova, abbiamo pensato di sintetizzare nello slogan "Carcere: Non lavorare stanca" il senso di quella Giornata: l’idea cioè che un detenuto non ha neppure il diritto di provare la fatica del lavoro, e stancarsi anche, e odiare a volte quel lavoro, come fa la maggior parte delle persone che ha una vita "normale" fuori. Il lavoro in carcere infatti è talmente poco, che in questo numero speciale del nostro giornale pubblichiamo il punto di vista di un detenuto, che chiede che siano assegnati a rotazione tutti i lavori "dentro", e non solo quelli "poveri" come lo scopino, e il punto di vista opposto di un altro detenuto, appartenente all’"aristocrazia" di chi è impegnato in un’attività lavorativa dignitosamente retribuita in galera, che sostiene invece che ci sono lavori che, se affidati continuamente a persone diverse, darebbero risultati inaccettabili dal punto di vista della qualità e della produttività. Hanno tutti e due le loro ragioni: quando ci sono da spartirsi "briciole lavorative", non si sa mai se ha più senso dividere il niente tra tutti o dare a pochi qualcosa di più. Le notizie che ci giungono dal Dipartimento di Amministrazione Penitenziaria ci fanno pensare che le cose vadano sempre più o meno nello stesso modo: pare infatti che le mercedi, dopo anni di "immobilità totale", finalmente aumenteranno, solo che i fondi per questo capitolo di spesa resteranno gli stessi, e quindi ci saranno meno posti di lavoro, ma siccome i detenuti sono invece sempre di più, è probabile che i servizi per tutti gli "utenti" delle galere peggioreranno e cresceranno gli "straordinari" non pagati.

Ma non è che "fuori" le cose vadano molto meglio, anche se da tutto il nostro faticoso reperimento di informazioni (che sono in pochissimi a far circolare in modo decente) si nota un maggior coinvolgimento degli enti locali sulla questione del reinserimento. Il fatto è che i lavori che un detenuto può trovare raramente sono di quelli che soddisfano e danno un senso alle giornate, e per una persona che spesso non ha nient’altro diventa un’impresa non da poco "rigare dritto". Ed è difficile farsi aiutare, perché dopo anni di vita sotto controllo non si accetta facilmente di avere anche fuori chi ti sta appresso, pur se con le migliori intenzioni. E ben lo dimostra, questo sentimento di paura di nuovi controlli, l’accanita discussione sulla figura del tutor che pubblichiamo.

Il "rientro" in società (o il primo ingresso, per chi dentro non c’è mai stato) assomiglia a una specie di complesso puzzle, dove ti sembra che ti manchi sempre il pezzo fondamentale. L’unica certezza che abbiamo è che i pezzi sono tanti, e che il lavoro è solo uno di quelli. Poi c’è la casa, ci sono gli affetti, una rete di relazioni sociali decente, il superamento degli ostacoli che ti si parano davanti anche a fine pena, il bisogno di avere qualche gratificazione. Agitare lo spettro del ritorno in galera non serve a nulla, la galera, come tutti i grandi dolori e lutti, in qualche modo si dimentica, e anche in fretta. Serve di più la consapevolezza della complessità dei problemi del "dopo" e la voglia di aggredirli da tutti i lati, anche da parte di chi si occupa di queste questioni come operatore o volontario, e avrebbe voglia di illudersi che "il lavoro è tutto".

 

La redazione

 

 

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