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Una
riflessione sul concetto di responsabilità Un
modo diverso di pensare la pena È importante parlare di una pena che non si calcoli in anni di galera e basta,
ma
significhi piuttosto assumersi la responsabilità del male fatto di
Ornella Favero volontaria,
direttore di Ristretti Orizzonti Oggi
sono davvero emozionata, e lo dico perché è importante spiegare quanto poco
“rituale” è questa Giornata, e quanto invece densa di emozioni, paure,
ansia. Vorrei iniziare allora raccontando brevemente come abbiamo pensato questo
convegno, e vorrei che due detenuti della redazione spiegassero molto
rapidamente come siamo arrivati a questa giornata, perché non è che sia stata
proprio una cosa facile, e non è che abbiamo deciso “Bene, adesso parliamo
anche delle vittime”, no, è stato un percorso faticosissimo. In realtà, la
preparazione di questo convegno è da un anno e mezzo che è iniziata, da quando
è venuta nella nostra redazione Olga D’Antona. Ecco, credo che sia stata una
grande fatica, e dico la verità, non so che cosa ne verrà fuori, non so se
rispetteremo la scaletta, non so che cosa diranno le persone, perché credo che
non sia possibile procedere come negli altri convegni, dove si affronta un tema
preciso di cui si può parlare in modo freddo, tecnico, distaccato, no questo è
un tema che ci fa stare male, deve farci stare male, credo. E
a proposito di star male, vorrei aggiungere che quando è venuta Olga D’Antona
nella nostra redazione ci ha suggerito di leggere un libro, il libro di Giovanni
Fasanella, “I silenzi degli innocenti”. Allora io credo che da quella
lettura sia venuta la percezione chiara che questa giornata non è importante
solo per le persone detenute, per le quali senz’altro confrontarsi con la
propria responsabilità dovrebbe essere un momento fondamentale; no, questa
giornata è importante anche per il volontariato, è importante per tutti noi,
che a volte, venendo in carcere, occupandoci magari di garantire alle persone
detenute una carcerazione dignitosa, dimentichiamo che cosa vuol dire subire un
reato. Per me è stato sconvolgente, oltre alla lettura del libro di Giovanni
Fasanella, anche parlare con le persone che avevano subito un lutto per reati di
sangue per invitarle a venire qui, e per spiegare loro questa giornata, e a
questo proposito devo ringraziare in particolare Silvia Giralucci, perché mi ha
fatto capire una cosa fondamentale: che ci sono dolori che non passano, ci sono
lutti che non si chiudono dopo venti o trent’anni, e quando parli con lei, o
con Benedetta Tobagi, o con Antonia Custra, ti accorgi che è come se tutto
fosse successo ieri, capisci che un lutto dovuto a una morte violenta non si
rielabora mai, non si chiude, non passa. Allora
prendere consapevolezza di cosa vuol dire subire un reato ci ha fatto ragionare
anche sulle parole, “le parole per dirlo”, per ragionare su questi temi. Mi
colpisce in particolare, e credo che le persone detenute debbano fare i conti
con questa questione, una frase che sento dire spesso, “abbiamo pagato il
nostro debito con la giustizia”. Ecco, io credo che il debito con la giustizia
è una cosa, il male e la responsabilità rispetto al male è un’altra. Allora
chi mi conosce sa che io non voglio pene più lunghe, al contrario penso che le
pene nel nostro Paese siano anche troppo pesanti, però una assunzione di
responsabilità rispetto al dolore provocato, questo mi sembra importante. Perché
la pena di Silvia, o di Olga D’Antona o di tanti altri non si esaurisce, uno
non può dire “ho chiuso, ho finito di soffrire”, e credo che questa
consapevolezza debba restare anche in chi il reato lo ha commesso, e quella
frase non dovrebbe dirla. Penso allora che oggi ne parleremo, sarà uno degli
argomenti di cui credo dovremo parlare: il fatto che bisogna scegliere anche le
parole per capire che assumersi la responsabilità del male fatto va al di là
degli anni di pena scontati. Ritengo che questa sia una delle riflessioni che
dobbiamo portare avanti in questa giornata. E, lo ripeto, penso che sia
importante che lo facciamo anche noi volontari, a volte distratti, troppo
distratti rispetto a questa questione. Più
il carcere è aperto al confronto, più costringe a riflettere su se stessi Una
seconda osservazione che vorrei fare riguarda ancora le parole: quando noi
incontriamo le scuole, centinaia di studenti che entrano in carcere in piccoli
gruppi di una o due classi, questi incontri credo siano momenti importantissimi
perché le persone che stanno in carcere comincino a capire che cosa vuol dire
la responsabilità, a capire che cosa produce il reato nella vita di chi lo
subisce. I ragazzi delle scuole e gli insegnanti tante volte pongono veramente
delle domande forti, chiedono di raccontare il reato, e come si può arrivare a
commetterlo. Io so che è faticoso farlo, però credo che sia importante farlo,
ed é importante anche capire come si parla del proprio reato: io invito proprio
a fermarsi a riflettere su ogni parola. Ho sentito per esempio dire “è
successa una rissa, c’è scappato il morto”. No guardate, non si può usare
le parole così, se una persona guida una macchina ubriaco, se una persona gira
con un coltello, e poi succede qualcosa, non si può dire che c’è scappato il
morto. Allora assumersi la propria responsabilità significa capire che ci sono
dei comportamenti, e ci sono delle conseguenze di quei comportamenti, e sono
conseguenze con cui io credo che le persone debbano fare i conti: se guidi
ubriaco e provochi un incidente e qualcuno muore, non c’è “scappato il
morto”, no, hai ucciso una persona. Vorrei
concludere con una riflessione sul carcere e sul senso della pena: io credo che
questo carcere sia un esempio che il carcere chiuso, chiudere una persona in
carcere e buttare la chiave come si vorrebbe tante volte oggi, non serve a
niente. Un carcere aperto invece significa il confronto, significa anche
imparare ad assumersi le proprie responsabilità, perché se una insegnante, che
oggi tra l’altro è presente qui, racconta, durante uno di questi incontri tra
scuole e detenuti, cosa vuol dire essere stata presa in ostaggio durante una
rapina, e lo racconta con grande coraggio, la persona che sta qui e sa di avere
tante volte minacciato con un’arma non può trincerarsi dietro al discorso
“Ma io non ho mai sparato, ma io non ho mai fatto del male”, no, perché la
paura, l’angoscia di un’arma puntata alla tempia uno non se la dimentica
cinque minuti dopo, quando esce dalla banca. Ecco io credo che più il carcere
è aperto al confronto, più costringe a riflettere su se stessi: la pena allora
da una parte è anche più dura, perché assumersi la responsabilità del male
fatto è una fatica credo, ma dall’altra è più importante e più
significativa. C’è
un’ultima riflessione che voglio fare: ci sono anche altre vittime di cui
dobbiamo parlare oggi, che sono i famigliari dei detenuti. Io credo che ci sia
un legame, un piccolo filo sottile che unisce chi ha subito un reato, e le
famiglie di chi questo reato lo ha commesso, e anche di questo bisognerà tener
conto, perché i famigliari vivono una condizione molto simile a quella dei loro
cari detenuti, e però sono quasi sempre innocenti come le vittime. Io
non so come finirà questa giornata, però vorrei invitare a pensare ad altri
momenti, ad altre occasioni di confronto, perché questa non può essere una
giornata che si chiude qui, non possiamo sentirci soddisfatti perché per una
volta abbiamo parlato delle vittime: no, io penso che oggi debba essere anche un
inizio di un modo diverso di pensare alla pena. Abbiamo
dato al convegno questo titolo, “Sto imparando a non odiare”, anche per
questo, perché in una società in cui c’è una continua istigazione
all’odio, ci hanno colpito le parole di Olga D’Antona, quando ha esordito
nella nostra redazione dicendo “Io ho una fortuna, non sono capace di
odiare”; ecco, io credo che le persone che hanno subito un reato hanno anche
il diritto di odiare, però noi che non abbiamo dentro questa sofferenza
dovremmo avere la capacità di lavorare per spezzare la catena dell’odio. Finisco
con una piccola dedica di questa giornata a Stefano, un detenuto della redazione
che non c’è più, che ci ha insegnato tante cose sulla sofferenza, perché
non dimentichiamolo, anche qui dentro c’è sofferenza forte, perché il
carcere è comunque luogo di solitudine, dolore, paura. Stefano era
tossicodipendente e ci ha fatto capire che dovremmo imparare di più a
rispettare la sofferenza, che non bisogna avere paura della sofferenza, bisogna
parlarne, bisogna dialogare, bisogna imparare a non voltarci dall’altra parte. Solo
con il dialogo si può sperare di ricucire un legame spezzato Qualsiasi
reato lascia dolore e distruzione nella vita di qualcuno Ecco
perché il convegno sulle vittime è diventato il convegno di ascolto delle
vittime di
Marino Occhipinti detenuto
della redazione di Ristretti Orizzonti Grazie
a tutti per essere qui. Se era emozionata Ornella, figuriamoci noi che i reati
li abbiamo commessi. L’argomento è delicato e veramente, almeno da parte mia,
c’è molta paura che anche solo una virgola o una frase detta male o il tono
di voce possa ferire qualcuno, e quindi è tutto molto, molto difficile. Il
nostro intervento, il mio e quello di Elton, non erano neanche previsti, perché
volevamo lasciare il massimo spazio agli ospiti, però poi abbiamo pensato che
fosse necessaria la nostra introduzione per spiegare almeno come siamo arrivati
a questa giornata, dove nasce e anche dove vorrebbe portare. In
carcere non sempre è facile riflettere e ripensare ai propri reati Per
quanto riguarda la nostra storia, ma per nostra storia intendo di Ristretti
Orizzonti, indipendentemente dai percorsi di ognuno, questa giornata non nasce
all’improvviso, ma fonda le sue radici almeno tre o quattro anni fa,
nell’ambito di tutte le attività che facciamo: infatti, il primo contatto
vero che abbiamo avuto con una vittima di reato, sempre parlando come redazione,
è stato quando Alberto mandò un messaggio sul nostro sito, dicendo “Egregio
signor ladro (proprio queste parole, egregio signor ladro) io sono già stato
derubato quattro volte, e vorrei parlare un po’ con te per capire meglio”.
Ecco questa forse è stata la prima volta che ci siamo trovati a dialogare con
una vittima, e ne è nata una corrispondenza, tanto che Alberto viene a tutti i
nostri convegni, è venuto in redazione ed è presente anche oggi. Poi
c’è stato il progetto con le scuole, ragazzi che ci mettono di fronte alle
nostre responsabilità, ragazzi che non fanno tanti complimenti, ed è giusto
così perché ci obbligano a confrontarci non solo con loro ma anche con noi
stessi, e nell’ambito di questi incontri ci sono stati due episodi importanti:
uno, di una studentessa vittima di un furto in casa che ci ha spiegato come la
sua vita fosse cambiata enormemente dopo quel fatto, di come da allora non
avesse solo la paura di uscire alla sera, ma anche di rientrare in casa, in
quello che era il suo luogo di sicurezza per eccellenza, e poi c’è stato il
racconto di una insegnante, anche lei è qui oggi, che ci ha spiegato cosa vuol
dire trovarsi ostaggio di una rapina in banca. Se leggete l’ultimo Ristretti
troverete una sua lettera, e oltre alla sua testimonianza la risposta di due
detenuti, che dicono “Io non avevo mai pensato che facendo una rapina in banca
potevo poi creare tutto questo, credevo che la rapina si risolvesse in cinque
minuti di paura per tutti quanti, invece adesso mi rendo conto che nella vita
delle persone, nelle vittime queste cose non passano in fretta”. Queste
testimonianze ci hanno portato con forza a riflettere su come certi gesti
segnano la vita delle persone, dunque anche chi aveva delle difficoltà a
capirlo ha dovuto arrendersi di fronte al fatto che qualsiasi reato lascia dei
segni indelebili nella vita di qualcuno, spesso lascia il dolore, la
distruzione, quindi siamo stati costretti a fare queste riflessioni. Infine
c’è stato un incontro fondamentale senza il quale noi oggi non saremmo qui,
in questa giornata, che è stato quello con Olga D’Antona, il 4 gennaio
dell’anno scorso. Olga D’Antona è venuta con un coraggio incredibile, con
una sofferenza forte che ci ha trasmesso e ci ha lasciato, e questo è stato un
punto di svolta, un punto di svolta delle attività della redazione, perché noi
prima avevamo organizzato il convegno sugli affetti, il convegno sulle misure
alternative, il convegno sulla riforma del Codice penale, ma nelle discussioni
successive all’incontro con Olga D’Antona abbiamo deciso che era ora di
organizzare un convegno sulle vittime, poi però i ragionamenti sono andati
avanti, il convegno sulle vittime è diventato il convegno con le vittime, fino
a diventare il convegno di ascolto delle vittime, quindi crediamo che questo sia
un percorso in fondo coraggioso anche da parte nostra, di tutti i componenti
della redazione e di chi ha partecipato a queste attività. È stato davvero
l’incontro con Olga D’Antona lo snodo cruciale, ha cambiato davvero qualcosa
questo incontro, è stato fondamentale. In
conclusione vorrei soltanto citare una poesia che non ho scelto io, ma che ho
trovato in un articolo di Federica Brunelli su Dignitas del 2003, è una poesia
di Biagio Marin del 1968, quindi quarant’anni fa, che spiega come solo con il
dialogo si può sperare di ricucire un legame altrimenti irrimediabilmente
spezzato: “La parola non detta lascia in aria il vuoto, è difetto di vita,
non fa nessun nodo. Non c’è realtà senza parole, hanno battezzato la pietra,
le donne più dolci, il mattino e la sera, la parola dà un viso anche a chi non
ce l’ha, fa nascere il fiordaliso, appena fa estate. Il silenzio che tace è
solo un deserto, senz’albero né case, solo di morte esperto”. Credo che
questa poesia racchiuda veramente il significato di questa giornata. In
carcere si impara subito a non parlare delle vittime Il
muro di cinta ci impedisce anche di vedere le sofferenze che abbiamo causato di
Elton Kalica detenuto
della Redazione di Ristretti Orizzonti È
motivo di orgoglio per noi essere qui oggi, e vedere quanta strada abbiamo
fatto, strada di cambiamento, perché siamo qui desiderosi di ascoltarvi, siamo
qui pronti ad ascoltare le vostre storie, di vite che forse abbiamo distrutto
noi, siamo qui ad ascoltare e vedere le vostre sofferenze, perché è proprio
quello che ci manca qui, vedere le vostre sofferenze. Quando si finisce in
carcere, io ci sono finito che ero giovanissimo, avevo poco più di vent’anni,
l’assurdo del carcere è che, da qualsiasi ambiente si provenga, si impara
subito a non parlare delle vittime. In carcere, all’aria, in cella, si parla
di processi, si parla di condanne, si parla dei nostri problemi, delle nostre
famiglie distrutte, ma delle vittime non si parla mai, mentre là fuori, nella
società libera, a scuola, a casa si parla delle vittime, perché
quotidianamente quando si va per le strade, nei negozi, si incontrano le
vittime, si incontrano i famigliari delle vittime e si parla con loro, si parla
di loro, si pensa a loro. Io
mi trovo qui dentro da undici anni, e la lezione che ho tratto da questa
esperienza è che quel muro di cinta che ci circonda, oltre ad impedirci di
scappare da qui, ci impedisce di vedere le sofferenze, di vedere il dolore, quel
muro ci divide anche dal dolore, quindi per noi è difficile, da qui dentro,
vedere le sofferenze che spesso abbiamo causato. Ecco io credo che sia una cosa
unica, che sia la prima volta che dal carcere emerge questa forte necessità di
dialogo, e questo è stato possibile perché noi qui siamo fortunati ad avere un
volontariato capace di educarci al dialogo, capace di insegnarci a parlare, a
confrontarci, qui abbiamo avuto prima Ornella Favero che è venuta dentro e ci
ha tirato fuori dalle celle e ci ha detto “Dai parliamone, ragioniamoci su”,
poi lei ci ha portato Olga D’Antona, che è venuta a raccontarci che cosa vuol
dire essere vittima di un reato, e così anche noi abbiamo cominciato a
conoscere, a vedere da vicino che cosa significa la sofferenza. La
speranza che abbiamo noi della redazione è che questa giornata di dialogo non
rimanga un episodio isolato, un caso eccezionale, ma abbia una continuità,
perché proprio questo dovrebbero fare i mediatori penali, insomma le persone
competenti, perché noi dentro e voi fuori ci siamo barricati dentro le nostre
sofferenze, allora i mediatori penali, secondo noi, dovrebbero andare a tirare
fuori dai gusci del proprio dolore le persone che hanno subito reati,
convincerle a venire qui dentro a raccontare le proprie storie, raccontarle ai
detenuti per far vedere, per far conoscere la loro sofferenza, perché solo così
il detenuto può prendere coscienza del male fatto e assumersi le proprie
responsabilità. Io, o meglio noi speriamo che ci sia una continuità in questa
direzione, perché il processo che viene fatto in tribunale, una volta che la
giustizia ha punito il colpevole, è finito lì, ma è dopo che si dovrebbe
cominciare a parlare, si dovrebbe cominciare a dialogare con le vittime, perché
soltanto così si può arrivare a capire che cosa significa davvero misurarsi
con le proprie responsabilità e conoscere da vicino la sofferenza che abbiamo
provocato. Quella
frattura creata dal reato Dobbiamo
passare dall’attenzione al soggetto che deve scontare una pena, a una
dimensione relazionale dove il detenuto ha il “diritto” di essere
incoraggiato a riflettere sul danno provocato a un altro, alla vittima di
Maria Pia Giuffrida Dirigente
del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria
e presidente della Commissione di studio sulla
mediazione penale e la giustizia riparativa Vorrei
iniziare con un grazie al direttore, dottor Salvatore Pirruccio, che mi ha
subito contattato, per invitarmi a partecipare a questo convegno e un grazie a
Ornella Favero, che ha avuto il coraggio di lanciarsi in questa avventura, e di
lanciare tutti noi in questa avventura, perché non ha lanciato solo se stessa
ma tutti noi in questa avventura. Io
credo che oggi sia una giornata molto particolare, ho sentito molta emozione in
tutti quelli che hanno parlato prima di me, e non vi nascondo che anche io, che
sono sufficientemente abituata a parlare ormai nell’Amministrazione
penitenziaria, anche di questa tematica, ho qualche difficoltà a intervenire
perché credo di sentire come tutti, una altissima tensione emotiva. Oggi
parliamo di significati profondi, di emozioni profonde, che ci hanno visti
contrapposti troppe volte, e quindi credo che bisogna cercare di entrare nel
vivo del convegno veramente in punta di piedi, con molta delicatezza, nel
rispetto del sentire di tutti. Vi
porto il saluto del capo del Dipartimento che ha confermato gli obbiettivi della
Commissione da me presieduta, e della prospettiva che l’Amministrazione
penitenziaria vuole oggi darsi con l’affermare che la mediazione è possibile,
ma che la mediazione deve essere resa possibile concretamente, soltanto avendo
la certezza del rispetto dei diritti di ciascuno: del reo e della vittima. È
su queste tematiche che ormai dal 2000-2002 la Commissione si è avventurata in
una serie di riflessioni sulla giustizia riparativa. Vedete, io sono
nell’Amministrazione penitenziaria dal ‘79, quindi sono tra i primi
“operatori del trattamento” entrati con la legge penitenziaria del ‘75, e
credo di poter affermare che il problema dell’Amministrazione penitenziaria è
in qualche modo quello di non aver saputo gestire appieno il mandato
trattamentale. Mi interrogo su questo giornalmente e cerco risposte che ci
aiutino a dare attuazione al dettato normativo. Credo che tutti gli operatori
penitenziari ma anche tutti coloro che ci aiutano come comunità esterna si
interroghino sul trattamento, e su quale è stato il limite del trattamento, sul
perché l’Amministrazione non è riuscita a dimostrare il valore della norma
penitenziaria che, accanto al modello retributivo, inseriva con il paradigma
trattamentale questa spinta al reinserimento del condannato, obiettivo sancito
dalla nostra Costituzione all’articolo 27. Riflettere
sulla giustizia riparativa ci ha portato a capire che forse nei primi
trent’anni noi abbiamo trascurato una parte, anzi senza forse, nei primi
trent’anni l’Amministrazione penitenziaria ha trascurato un soggetto, la
vittima. Noi
operatori del trattamento, entrando nel ‘79, abbiamo avuto il compito di
parlare con il detenuto, per trattarlo, per risolvere i problemi che avevano
causato il reato, e per rimuovere gli ostacoli a un reinserimento. Una posizione
che oggi mi sento di definire retroattiva, difensiva, sicuramente di significato
per il detenuto, ma che non risolveva quella frattura creata dal reato, quella
frattura che vedeva dall’altro lato un soggetto vittima, e in qualche maniera,
scusatemi la franchezza, noi operatori penitenziari, io stessa ho contribuito
alla “cancellazione della vittima” durante il tempo della pena. Noi
infatti non abbiamo parlato molto spesso con i detenuti della vittima, abbiamo
avuto un pudore, una incapacità, un senso di impotenza, ma forse il limite dei
percorsi di vita nuovi, socialmente accettabili che avremmo voluto contribuire a
far fare al detenuto è proprio quello. Il
detenuto ha il diritto di essere incoraggiato a riflettere sul danno provocato a
un altro Noi
operatori dell’Amministrazione penitenziaria dobbiamo oggi prendere nelle
nostre mani il compito che è stato ben ridefinito dall’articolo 27 del nuovo
regolamento di esecuzione che, rinnovando il significato dell’osservazione e
trattamento, ci richiama tutti a “sostenere” il condannato durante il
percorso di osservazione e trattamento in una “riflessione sulle condotte
antigiuridiche poste in essere, sulle motivazioni e conseguenze negative delle
stesse per l’interessato medesimo, e sulle possibile azioni di riparazione
delle conseguenze del reato, incluso il risarcimento delle persone offese”. Quindi
in realtà c’è una norma nel nostro Ordinamento penitenziario in cui è oggi
ben chiara la prospettiva riparativa, che sposta il focus da una attenzione
rivolta soltanto al soggetto che deve scontare una pena attenendosi a delle
regole penitenziarie e deve essere aiutato a fare un progetto di vita per sé,
all’attenzione a una dimensione relazionale dove il detenuto ha diritto,
passatemi il termine forte, ha il diritto di essere incoraggiato a riflettere
sul danno provocato a un altro, alla vittima. Senza questo pezzo di strada che
gli operatori devono fare, io credo che non avremo risposto a quanto la norma
affida come compito all’Amministrazione penitenziaria. Qui
si aprono due problemi, perché se è vero da un lato che la vittima deve essere
presa in considerazione, se è vero che l’operatore deve con il detenuto fare
una rivisitazione del percorso criminale, e deve pertanto porsi nella
prospettiva di rendere di nuovo “visibile” la vittima, di far rifletter il
reo sul dolore della vittima, questo non significa che la vittima deve essere
compulsata, per far fare un percorso significativo al reo. In
questi ultimi anni abbiamo, ahimè, assistito invece anche a delle situazioni
che, malgrado la spinta positiva che si voleva dare con il dedicare una nuova
attenzione a quest’altro soggetto, hanno però imposto nei fatti, attraverso
le prescrizioni dell’affidamento in prova al servizio sociale, alla vittima di
essere compulsata – suo malgrado – nel percorso di reintegrazione del reo. Molti
di voi sapranno che l’affidamento al servizio sociale all’articolo 27 comma
7, impone all’affidato di “riparare – ove possibile – nei confronti
della vittima, e adempiere agli obblighi di assistenza familiare”. Alcuni
Tribunali di Sorveglianza hanno prodotto – direi coraggiosamente – ipotesi
di applicazione di tale prescrizione, talvolta però senza pensare, che di fatto
coinvolgevano un terzo soggetto, la vittima. Imponendo al reo di riparare, di
risarcire il danno, di fatto implicitamente o esplicitamente hanno agito una
forma di “imposizione” nei confronti della vittima che per far fare al reo
un’azione di valenza riparatoria, veniva improvvisamente chiamata in causa. Va
detto peraltro che la riparazione “prescritta” al reo perde di fatto il suo
significato e diviene strumentale all’ottenimento o mantenimento dei benefici
di legge e la declaratoria di fine affidamento. Non
posso non richiamare a questo punto come prima di pensare ad ogni altro aspetto
lo Stato italiano deve compiere un atto di assoluta necessità, sul quale le
Nazioni Unite hanno peraltro recentemente ammonito il nostro governo. La
risoluzione internazionale del 2006 invita gli stati membri a contribuire a
sensibilizzare l’opinione pubblica riguardo ai bisogni della vittima, e
lavorare per la comprensione e il riconoscimento degli effetti dei reati, in
maniera tale da prevenire la vittimizzazione secondaria, e facilitare il
reinserimento delle vittime. È
vero noi dobbiamo aiutare il reo a comprendere il danno fatto, il dolore
provocato, le ferite inferte, l’odio che ha suscitato, occorre che il
Ministero della Giustizia, il governo italiano porti avanti una legge, che
recepisca la risoluzione internazionale del 2006, e definisca la vittima come
soggetto, non di bisogni ma di diritti. Io credo che questo sia un passaggio
importantissimo che non possiamo eludere e sul quale la nostra Commissione sta
lavorando con il Dipartimento Affari di Giustizia, e con il Dipartimento per la
Giustizia minorile. C’è
un disegno di legge – come molti di voi sanno – in Parlamento, presentato da
un gruppo di associazioni delle vittime, e che secondo me va ripreso e va
attualizzato alla luce della risoluzione del 2006. La vittima ha diritto
all’informazione, ha diritto ad una protezione ed assistenza adeguata, ha
diritto a un risarcimento che è l’unico aspetto al momento valorizzato dalle
leggi già emanate in Italia: mi riferisco alle leggi sulle vittime del
terrorismo e del reato di usura. La vittima ha diritto alle informazioni
relative al proprio procedimento giudiziario, ha diritto all’integrità fisica
e psicologica, ha diritto alla tutela contro la vittimizzazione ripetuta, ha
diritto alla tutela della vita privata. Perché la vittima, questo soggetto
senza voce se non nel momento degli attacchi mediatici, e uso attacchi non a
caso, sappiamo tutti che non viene tutelata rispetto alla propria privacy, non
può dire di no, e questa si chiama vittimizzazione secondaria. La vittima ha
diritto alla riservatezza, ha diritto di poter dare o rifiutare il suo consenso
per gli atti e le azioni, che altri vogliono compiere anche in suo favore. La
vittima ha il diritto anche a ricevere proposte di mediazione Se
un reo vuole riparare deve chiedere il permesso prima alla vittima, se la
magistratura impone ai condannati di attivarsi in un percorso riparatorio,
bisogna chiedere il permesso alla vittima. Se è vero – come oggi qui diciamo
– che tutti dovremmo imparare a non odiare, è vero anche che la vittima deve
avere uno spazio di parola, la vittima deve avere la possibilità, se vuole, di
vedere in faccia il reo che l’ha ferita, ma tutto questo non può accadere in
maniera così assolutamente improvvisata, perché provocherebbe una sorta, anzi
una sicura vittimizzazione secondaria. La
vittima ha diritto di avere servizi sul territorio, e mi permetto di dire ha il
diritto anche a ricevere proposte di mediazione, secondo modalità però che
vanno scritte, e procedure di garanzia e di tutela della vita privata e dei dati
sensibili, che stiamo cercando lentamente di rendere chiare, di ipotizzare e di
condividere con gruppi di vittime. Nessuno,
né l’Amministrazione penitenziaria né la Magistratura, né il semplice
cittadino, né l’avvocato del condannato, né il volontario può usare i dati
delle vittime, anche se a fin di bene, senza un chiaro riferimento di cornice di
regole che garantisca le vittime. Questo è un punto su cui la Commissione ha
voluto rendersi garante, frenando nel far questo tutte le iniziative
estemporanee, ma cercando nel contempo di avviare delle sperimentazioni caute,
attentamente monitorate, perché lo sviluppo sperimentale del paradigma
riparativo, perché la spinta verso un cambiamento di prospettiva per i detenuti
avvenga nel pieno rispetto delle vittime. Ecco, queste sono le cose che in questa mia introduzione al convegno, a nome mio e dell’Amministrazione penitenziaria, ritenevo di dirvi. Prima di lasciare spazio a tutti coloro che devono parlare, voglio dire un grazie a quelle vittime che oggi sono qui con noi, a tutti coloro che si sentono vittime e che sono disposti a mettere in gioco con noi queste prospettive. E credo che tutto quello che ho detto presume necessariamente un percorso di riflessione critica dell’Amministrazione penitenziaria, che deve farsi carico di far compiere ai condannati un percorso di responsabilizzazione vera, non un percorso di assunzione di buoni comportamenti strumentali all’ottenimento dei benefici, ma una riflessione sulla propria responsabilità, verso di sé, verso i propri famigliari, verso la vittima e verso la comunità. Per
finire vorrei dare anche un senso di prospettiva. Questo è un momento
importante, vede riunito un grande numero di persone, ed io almeno dal mio
osservatorio ho la certezza che non è stato l’unico momento, né sarà
l’ultimo, ci sono tante storie, tante esperienze, che come Commissione veniamo
a conoscere, monitoriamo, anzi chi fa iniziative in questo ambito ce le porti a
conoscenza, perché possiamo creare dei percorsi, possiamo veramente creare una
casistica, possiamo monitorare quelle situazioni più delicate. Accade già oggi
che un condannato, o una vittima, ci chieda un incontro, e questo già lo
facciamo a piccoli e prudenti passi, con delle sperimentazioni molto attente,
singolarmente ponderate in varie realtà, come qui a Padova e con la
Magistratura di Sorveglianza di Milano. Abbiamo
realizzato anche tante iniziative riparatorie cosiddette “indirette”: là
dove il condannato non può incontrare la vittima, ci sono tante iniziative,
condivise con il volontariato, promosse con gli enti locali, ci sono
investimenti seri ed importanti di alcuni soggetti in esecuzione di pena in
azioni di significato riparatorio nei confronti della collettività. Il
dato di prospettiva è che la Commissione, nel continuare a lavorare su queste
tematiche, nel tenere in vita questo osservatorio sempre più attento, nel
muoversi anche sul piano delle proposte normative, ha inteso recentemente
lanciare un appello a tutti i mediatori d’Italia a dare all’Amministrazione
penitenziaria la disponibilità a collaborare “gratuitamente” alle caute
sperimentazioni che intendiamo continuare. Abbiamo già avuto 167 risposte di
persone che offrono spontaneamente e gratuitamente la loro collaborazione e
questo ci sostiene nell’impegno di continuare. Non
so se tali percorsi porteranno a incontri tra rei e vittima, so comunque che
avremo fatto un pezzo di strada insieme, ancora nella prospettiva di una
diffusione della cultura della riparazione, della cultura di pace.
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