Editoriale

 

La fatica, la passione, la sofferenza

di un percorso di “mediazione collettiva”

 

di Ornella Favero

 

Quando abbiamo iniziato, anni fa, a parlare di mediazione, non immaginavamo certo di intraprendere un percorso così duro e così denso di sofferenza, come poi si è rivelato. La prima volta che abbiamo avuto la percezione di quanto ognuno di noi, volontari e detenuti, doveva imparare a mettersi in gioco è stata nel progetto con le scuole: a lungo, quando gli studenti chiedevano “Ma tu, perché sei dentro?”, abbiamo pensato che fosse giusto che le persone detenute non parlassero del proprio reato, però poi, un po’ alla volta, è diventato invece un momento fondamentale di confronto con la società proprio il racconto del reato, ma non certo per rispondere a una curiosità morbosa, quanto piuttosto per ragionare sui percorsi che portano a uscire dalla legalità, su quello che succede nella testa di una persona che perde il senso del limite fino ad arrivare anche a sentirsi padrona della vita di un altro essere umano. È stato come prendere le proprie esperienze più negative e metterle a disposizione di tutti, con l’idea che quella sofferenza poteva forse diventare utile a evitarne altre, inducendo i ragazzi a riflettere sui comportamenti a rischio, sul mito della trasgressione, sulla responsabilità di fronte ai propri comportamenti.

Quello che è successo il 23 maggio nel carcere di Padova è un percorso in qualche modo stranamente “speculare”: a mettere, in un certo senso, “a disposizione” di tutti la propria sofferenza questa volta sono state le vittime di reato. E nel fare questo hanno aperto la strada a un confronto fra chi ha subito un reato e chi lo ha commesso, che speriamo possa essere sempre più ampio e coinvolgente, perché un confronto così “taglia le gambe” all’odio, e toglie anche alla società, oggi così incattivita e ossessionata dalla sicurezza, l’alibi per continuare a rifugiarsi dietro formule tipo “metteteli dentro e buttate la chiave”.

No, buttare la chiave non serve a nulla, non crea sicurezza e noi pensiamo che non soddisfi neppure il desiderio di giustizia delle vittime: bisogna invece ricominciare a ragionare sul senso che deve avere la pena, e allora ci si è allargato il cuore a leggere che persone come Olga D’Antona, Silvia Giralucci, Manlio Milani hanno dato la loro disponibilità a sostenere, con noi, la difesa della legge Gozzini. È un segnale importante, perché significa che queste persone, che hanno subito reati gravissimi e potrebbero farsi scudo del loro dolore per chiedere solo durezza e afflizione per chi sta in carcere, hanno invece la voglia di approfondire con noi la riflessione sulle pene, di non banalizzare il loro bisogno di giustizia, di farsi carico, proprio loro, di ricucire lo strappo tra la società e chi, commettendo reati, ne è stato escluso.

Ci piace pensare che questa specie di “mediazione collettiva” che è stata la giornata di studi “Sto imparando a non odiare”, che ha coinvolto anche emotivamente tantissime persone, dentro e fuori del carcere, abbia altre tappe, altri momenti, di studio, di lavoro, di approfondimento: noi siamo naturalmente disponibili, abbiamo già dedicato ore e ore a discutere di quella giornata, e i frutti si vedranno nel prossimo numero di Ristretti Orizzonti, la seconda “puntata” dedicata al 23 maggio, con tante riflessioni di detenuti e di operatori che hanno partecipato a quel confronto e hanno mandato un loro contributo. Ci piace pensare che il nostro giornale, che ha appena compiuto dieci anni, abbia ora la maturità per fare del rapporto tra vittime e autori di reato uno dei temi più importanti della sua attività: quindi chiediamo ai nostri lettori di restare con noi dentro questo “percorso”, di scriverci, di mandarci un loro contributo, di ripensare alle parole-chiave che sono state al centro delle nostre riflessioni, come odio, perdono, riconciliazione, bisogno di verità e di giustizia, per fare in modo che anche nella società “libera” se ne torni a parlare fuori dagli schemi e dalle semplificazioni.

 

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