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Persone, non reati che camminano Ripensare la pena, coinvolgendo la società in un confronto aperto e coraggioso sulla riforma del Codice penale
“Persone, non reati che camminano. Ripensare la pena” è il tema della Giornata di Studi organizzata dalla Casa di reclusione di Padova e dal Centro di Documentazione “Due Palazzi” con la redazione di Ristretti Orizzonti. A Padova il 25 maggio hanno discusso di pene, Codice penale, carcere centinaia di persone provenienti dal mondo “libero”, esperti di diritto penale e di esecuzione della pena, e poi magistrati, avvocati, operatori penitenziari e sociali, docenti, studenti, con più di cento detenuti, che le pene e il carcere li conoscono sulla propria pelle, e già è straordinaria l’idea di un carcere che si apre e mette a confronto mondo libero e mondo recluso. La prima richiesta che è emersa è che per realizzare la riforma del Codice penale, di cui la Commissione Pisapia ha di recente presentato le linee guida, si faccia come in Argentina, dove la scelta del Ministero è stata quella di prevedere, prima del passaggio parlamentare, un confronto con i cittadini, nelle maggiori città, per spiegare correttamente le linee fondanti del nuovo Codice ed evitare strumentalizzazioni di carattere politico. Riusciremo a essere un paese altrettanto democratico dell’Argentina? Si è affrontato poi il tema delle misure alternative, a partire da una domanda precisa: davvero i cittadini sono più a rischio se le persone escono dal carcere prima, in misura alternativa, ma seguite dagli assistenti sociali, controllate, con un percorso chiaro e graduale, rispetto al “che si facciano tutta la galera, non un giorno di meno”? E, parlando di misure alternative, è stata con forza sollevata la questione delle leggi emergenziali, che di fatto, impedendo l’accesso ai benefici penitenziari, cardine della rieducazione, non permettono, a nostro parere, di rispettare l’articolo 27 della Costituzione. Si è parlato anche di dopo indulto per capire come è possibile ora, subito rendere più vivibili e meno “dannose” le carceri, ampliando gli spazi che vanno nel senso di una loro maggiore apertura verso il mondo esterno, e di più umanità nei confronti dei famigliari, che devono poter incontrare i loro cari in condizioni più decenti. Quelli che seguono sono gli interventi con i quali alcuni detenuti hanno presentato la Giornata di Studi
Oggi intere categorie sono escluse da un percorso vero di reinserimento
di Elton Kalica
Si dice che la pena deve tendere alla rieducazione… e poi? Perché è facile dire rieducazione in antitesi alla pura punizione. Su questo credo siano tutti d’accordo. Ma quando noi di Ristretti Orizzonti ci troviamo ad intervistare magistrati, direttori, avvocati, scrittori, docenti universitari, studenti, abbiamo visto che ognuno, secondo la propria interpretazione, assegna dei contenuti diversi alla rieducazione. Non ho però intenzione di parlare delle varie interpretazioni che ci sono oggi circa questo dettato costituzionale, voglio invece ricordare che per noi che stiamo in carcere la rieducazione è soprattutto la legge Gozzini, che prevede un percorso di reinserimento per i detenuti, e secondo noi questo percorso non può non essere fatto di due momenti, un trattamento interno e poi, fondamentale, un trattamento esterno al carcere. E voglio anche ricordare che ci sono delle categorie di persone che sono lasciate fuori da ogni possibilità di reinserimento nella società, e vi sono delle categorie di reati escluse dal percorso trattamentale della legge Gozzini. La categoria di persone di cui parlo è quella degli stranieri. La maggior parte degli stranieri non ha una famiglia qui, e sconta la pena senza alcun aiuto morale o economico. Però, a volte un detenuto straniero riesce ad imparare un mestiere e a trovare un lavoro. Poche settimane fa, a un mio connazionale, dopo quattordici anni di carcere, il direttore ha concesso l’articolo 21, il lavoro esterno, lui adesso esce alla mattina e va a guidare un camion per la raccolta differenziata. Però è triste pensare che fra due anni, quando avrà finito la pena, lui dovrà essere espulso, e ritornare in un paese che non vede da diciotto anni. Poi ci sono anche una minoranza di stranieri la cui famiglia vive e lavora in Italia. Dunque possono sì contare su un aiuto morale ed economico, ma poi, una volta scontata la condanna (uno, cinque, dieci anni di carcere) il condannato deve ugualmente essere espulso, lasciando moglie e figli in Italia: figli nati e cresciuti qui, che non possono seguire il proprio padre in un paese che loro non conoscono. E quindi ci si chiede qual è il senso di una pena dove oltre al carcere si aggiunge un’altra punizione, come l’allontanamento dalla famiglia, o l’interruzione di un percorso positivo di integrazione nel lavoro e nella società. Poi ci sono delle categorie di reati che sono totalmente escluse da quel percorso di trattamento tracciato dalla legge Gozzini. Nel 1992 è stato introdotto l’articolo 4 bis dell’Ordinamento penitenziario. C’era stata l’emergenza terrorismo, poi l’emergenza sequestri di persona, e infine l’emergenza mafia, e allora si è deciso di escludere dal trattamento della legge Gozzini tutti i condannati per terrorismo, mafia, sequestri e già che c’erano hanno incluso anche i condannati per traffico di stupefacenti. Ora, io capisco che questo è uno strumento efficace per combattere la criminalità organizzata, ma non capisco come si accetti di decidere sulla libertà delle persone giudicando solo per categorie di reato. Tutti i magistrati che sono venuti a parlare con noi in redazione concordano sul fatto che la pena e il trattamento detentivo devono essere personalizzati, ma poi di solito concordano anche sul fatto che l’articolo 4 bis impedisce ogni tipo di valutazione individuale. Io potrei anche accettare la tesi che gli affiliati alle cosche mafiose difficilmente cambiano vita, e che per loro il trattamento forse è inutile. Ma chi commette un sequestro o un traffico di droga, non ha un patto da rispettare vita natural-durante, anzi, il legame con il gruppo criminale spesso salta dopo l’arresto. E poi voglio ricordare che i sequestri di persona sono storie molto diverse, ci sono sequestri orribili come quello di Soffiantini, e sequestri molto più lievi, che durano poco tempo e senza uso di armi. E lo stesso si può dire anche del traffico di stupefacenti, dove ci sono traffici organizzati dai cartelli mafiosi, ma ci sono anche traffici meno pesanti, come quelli che coinvolgono le donne sudamericane che vengono in Italia ingoiando ovuli di cocaina, sperando così di uscire dalla miseria in cui vivono. Tutti questi sono reati gravi, ma mi domando che senso ha la pena se da un lato può venir data la possibilità di iniziare un percorso di reinserimento anche a un serial killer, che non è escluso dalla legge Gozzini, e dall’altro a chi ha messo in atto un sequestro o ha trafficato droga, viene tutto precluso. Concludendo, tutti noi di Ristretti Orizzonti pensiamo che è una ingiustizia espellere, a fine pena, il detenuto straniero, soprattutto chi ha iniziato un percorso fuori dal carcere e sta inserendosi con buoni risultati in un ambiente sociale e lavorativo. Così come pensiamo che sia una grande ingiustizia escludere dal percorso di trattamento delle categorie di reato (come il sequestro di persona e il traffico di stupefacenti), senza poter valutare caso per caso il cambiamento delle persone. Allora chiediamo che cambi la legge Bossi-Fini, e sia data un’altra possibilità di regolarizzarsi ai detenuti stranieri che concludono in modo positivo le misure alternative al carcere, e che cambi l’articolo 4 bis dell’Ordinamento penitenziario, dando la possibilità di accedere ad un percorso di reinserimento a tutte le persone condannate. Noi siamo ottimisti che un giorno verrà compiuto anche questo atto di civiltà!
Un sistema penale più armonico ed efficace di quello attuale serve a tutti Di fronte alla prova che un uso accorto dei benefici di legge crea più sicurezza sociale delle politiche del “chiudili dentro e butta la chiave”, ci sembra giusto esortare le forze politiche a non sprecare questa storica occasione di creare un sistema penale più efficace di quello attuale
di Graziano Scialpi
Mi è capitato di confrontarmi con studiosi stranieri sulle problematiche del sistema penale italiano. Quando mi chiedono come mai nel nostro paese le pene sono così alte (eh già… agli altri europei le nostre pene sembrano molto alte…), di solito prendo il nostro Codice penale e faccio leggere loro il frontespizio. Non nego che mi diverto al vedere cascare le loro mascelle quando scoprono sbigottiti che, a 62 anni dalla caduta del fascismo, il nostro Codice è ancora quello firmato da Mussolini negli anni ’30, e pensare che da noi molti lo ritengono troppo tenero e garantista… Quando abbiamo dovuto decidere che tema trattare nella Giornata di Studi all’interno della Casa di reclusione di Padova, ci siamo resi conto che in questo momento in Italia stiamo attraversando una congiuntura storica favorevolissima. C’è la Commissione Pisapia che sta lavorando al nuovo Codice penale; c’è un progetto di nuova legge penitenziaria, presentato da uno dei padri della vecchia Riforma penitenziaria, Alessandro Margara; l’indulto ha riportato a livelli umani la popolazione nelle carceri, consentendo (almeno potenzialmente) di riorganizzare il fondamentale, ma finora quasi assente, settore della rieducazione delle persone detenute. Inoltre ci sono dei dati scientifici, raccolti dal Ministero della Giustizia, sugli effetti concreti delle diverse concezioni della pena. Si è appurato cioè che, per i detenuti che scontano fino all’ultimo giorno la pena dietro le sbarre, la recidiva, la scelta di tornare a commettere reati, si attesta intorno al 70-80%, mentre tra i detenuti che possono contare su un percorso di graduale e controllato reinserimento sociale, attraverso i benefici di legge, solo il 19% torna a commettere reati. Ecco, di fronte alla prova che un uso accorto dei benefici di legge crea più sicurezza sociale delle politiche del “chiudili dentro e butta la chiave”, ci sembra giusto esortare le forze politiche a non sprecare questa storica occasione di creare un sistema penale più efficace di quello attuale, armonizzando il Codice penale con la legge penitenziaria, ed entrambi con la Costituzione che, all’art. 27, recita che la pena “deve tendere alla rieducazione”. Rieducazione che significa fare tutto il possibile perché chi esce dal carcere non commetta più reati, cioè abbattere la recidiva. I dati statistici indicano inequivocabilmente qual è la strada da seguire. Speriamo che, per il bene del Paese, la classe politica questa volta abbia il coraggio di fare la scelta giusta anche se, a causa della cattiva o inesistente informazione, è quella più impopolare.
Quel desiderio forte di essere accettati dalla società Una persona deve sentire che si crede nel suo buon potenziale, che si crede in quel tanto di buono e positivo che c’è nel suo animo come c’è nell’animo di ogni uomo
di Piero Paviola
Renato Zero tratta spesso il tema del disagio. Nella sua canzone GUARISCI, dice: SE SALVO TE… SALVO ANCHE ME. Si riferisce ad un interlocutore preciso, ma l’affermazione è adattabile ad infiniti contesti. Sarebbe bello e carico di speranza poterla adattare ai temi del carcere, come se a pronunciarla fosse la società nei confronti dell’individuo, che si trova in una situazione di sofferenza e di difficoltà. Mi aggancio saldamente al titolo che abbiamo voluto dare al nostro convegno, “Persone e non reati che camminano” per trattare la questione di come porsi davanti alla recidiva. Se quello che conta è il reinserimento dell’individuo nella società, per recuperarlo, e se sono volti a costruire una società migliore gli intenti della gran parte della società stessa, che vuole sentirsi umanamente aperta e attenta, io credo che non ci sia che una via da percorrere: credere nell’individuo e nelle sue capacità, dandogli instancabilmente delle opportunità, così da non trasformarlo in un nemico, o in un mostro, di cui la società avrebbe orrore, e che vorrebbe tenere per sempre lontano da sé e dimenticare. Per recuperare il detenuto, e con questo migliorare la società, penso che sia importante farlo sentire una persona, come a me, che sono appunto un recidivo, dopo anni di carcere è capitato di sentirmi solo ora, in questo carcere, grazie ai volontari di Padova, che mi sono stati particolarmente vicini: è importante sentirsi “nodo paritario” della rete sociale, recuperabile come avviene per i nodi delle reti dei pescatori, che rammendano amorevolmente più e più volte proprio quelle reti, grazie alle quali campano. Ma tutti dovrebbero poter avere dei sostegni così accanto e avere le stesse sollecitazioni e invece sappiamo che questa è una cosa ancora per pochi, che ci sono carceri nelle quali il volontariato quasi non esiste. Una persona deve sentire che si crede nel suo buon potenziale, che si crede in quel tanto di buono e positivo che c’è nel suo animo come c’è nell’animo di ogni uomo, e che si cerca di aiutarla a sviluppare quelle qualità, che ognuno di noi da qualche parte ha. Sarebbe auspicabile concederle questa possibilità di crescita e di graduale reinserimento, attraverso un percorso che comprenda i benefici previsti dalla legge penitenziaria, intesi però non come una fredda elemosina, o come un prestito ipotecario, a un individuo ormai spezzato, avvilito, privato di dignità e robotizzato. Ognuno di noi, in quanto persona dotata anche di sentimenti di autocritica e di coscienza, così si sentirà infinitamente più parte della società. Percependo che essa vuole aiutarlo a migliorarsi, accettandola e volendone venire accettato, sentirà che di essa è bello sentirsi elemento partecipe, anche in misura molto piccola, a seconda delle proprie capacità, e sentirà che in essa c’è molto più di positivo di quanto prima non credesse.
È possibile una detenzione che stimoli riflessioni portatrici di un cambiamento della persona detenuta? Fino a quando la vita detentiva continuerà ad offrire soltanto 3-4 ore giornaliere di “aria”, le rimanenti venti ore di cella faranno sentire anche il criminale più feroce a sua volta una vittima
di Marino Occhipinti
Vorrei provare a esporre – e naturalmente è una interpretazione soggettiva, mia personale – cosa intendo per “senso della pena”, o meglio cos’è per me una pena che abbia un senso. I miei primi sei anni di detenzione li ho trascorsi in un carcere “completamente chiuso”, dove, solo negli ultimi tempi, avevano cominciato ad entrare alcuni volontari che gestivano un corso di legatoria. Le giornate, seppur a celle aperte dalla mattina alla sera, trascorrevano quindi nell’ozio più totale, e le uniche “attività” alle quali si poteva partecipare erano delle interminabili partite a carte. Una carcerazione assolutamente inutile… Poi sette anni fa sono arrivato a Padova, in questo carcere. Oltre cinque anni fa ho chiesto di partecipare alle attività della redazione di Ristretti Orizzonti, che a “dispetto” del suo nome, ha spalancato di fronte a me degli orizzonti immensi, di cultura, di educazione, di valori, di critica, di analisi e di vita. Ed è proprio su queste attività che vorrei soffermarmi un attimo. Partiamo allora dal progetto che portiamo avanti con numerose scuole venete. In buona sostanza organizziamo un percorso di conoscenza del mondo carcerario, con lo scopo di far comprendere agli studenti chi sono le persone condannate, spiegando il carcere e raccontando spesso anche le nostre storie che ci hanno portati in galera: la speranza è quella di far capire che se si seguono certe condotte, e certi modelli, finire qui è più facile di quanto si possa immaginare. Siamo al terzo anno del progetto ed il numero degli studenti coinvolti, e quindi delle scuole, cresce vorticosamente: quest’anno, tra “dentro e fuori”, gli incontri sono stati oltre novanta. A scanso di equivoci una premessa, che ripeto quasi sempre anche agli studenti: quando parliamo con loro non lo facciamo MAI con l’intenzione di insegnare qualcosa, ed anzi a darci una lezione di vita sono proprio loro, e lo fanno semplicemente venendoci ad ascoltare. Loro sono le persone libere, che accettano di incontrare noi per capire meglio, e noi siamo quelli che hanno rubato, spacciato, rapinato e anche ucciso, ma a nostra volta accettiamo di metterci in discussione sperando di essere utili a loro. È una fatica immane ritrovarsi ogni volta di fronte a 60-70-80 studenti che fanno le domande più “intime” e personali, ragazzi con i quali è giusto e doveroso mettersi in gioco, giovani con i quali non è neppure ipotizzabile – e d’altronde non avrebbe alcun senso – provare a mentire. E allora siamo obbligati a metterci in discussione, e quindi a confrontarci, con loro ma anche con noi stessi, anche quando non lo vorremmo fare.
Una vita “sconvolta” da un “semplice” furto
Un episodio su tutti mi è rimasto impresso e lo voglio raccontare. Circa venti giorni fa, durante un incontro, una studentessa dell’istituto Selvatico ha chiesto la parola e ci ha detto di non essere in grado di perdonare perché una sera, rientrando nella sua casa, si era trovata di fronte ad alcuni ladri. Ci ha spiegato che la casa rappresenta per lei il massimo dell’”intimità”, ma che da quel momento non si sente più sicura nemmeno nella sua abitazione, che la sua vita è stata sconvolta: non ha più il coraggio di uscire la sera, tuttora vive nella paura di ritrovarsi di nuovo degli intrusi in casa, insomma odia tutti i delinquenti perché le hanno fatto perdere la tranquillità e la serenità di prima… Ebbene, non soltanto in quel frangente, ma soprattutto nei giorni successivi in redazione, noi, detenuti e volontari, abbiamo discusso animatamente di ciò che quella ragazza ci aveva raccontato. E molti di noi, anche quelli apparentemente più “duri e insensibili”, hanno dovuto per forza ammettere di non aver mai pensato che un “semplice” furto, un reato tutto sommato “lieve”, potesse sconvolgere a tal punto la vita di una persona.
Le lacrime e il dolore di Olga D’Antona
Una seconda cosa che voglio raccontare riguarda i tanti incontri che facciamo nella nostra redazione. Negli ultimi mesi abbiamo “ospitato” i Magistrati di Sorveglianza di Padova, il Presidente del Tribunale di Sorveglianza di Venezia, il direttore dell’Ufficio Esecuzione Penale Esterna assieme a cinque assistenti sociali, il magistrato-scrittore Gianrico Carofiglio e tanti altri… Tra i tanti altri, a gennaio di quest’anno è venuta l’onorevole Olga D’Antona, la vedova di Massimo D’Antona, il giuslavorista ucciso dalle Brigate Rosse. Ebbene, non potrò mai dimenticare con quale forza ci ha raccontato la sua drammatica vicenda, e ogni volta che ci penso rivivo la stessa sensazione di sofferenza che ho provato in tale occasione. Trovarsi di fronte a quella donna, che ad un certo punto, rievocando alcuni particolari del terribile dramma che l’ha colpita, si è commossa e a fatica ha frenato il pianto, ha sconvolto un po’ tutti noi, soprattutto chi si trova detenuto per reati di sangue e quindi, in Olga D’Antona, ha rivisto un po’ la madre o la moglie o la sorella della nostra, di vittima. Ho raccontato questi due esempi perché credo che se si vuole dare un senso alla pena sarebbe importantissimo diffondere ed incoraggiare attività come quelle appena descritte, iniziative (integrative e non sostitutive del lavoro degli operatori penitenziari) che obbligano a riflettere e che quindi pongono implacabilmente le persone detenute di fronte alle proprie scelte e responsabilità. Il senso della pena, a mio avviso, passa necessariamente attraverso una detenzione che non sia soltanto contenitiva, ma che stimoli riflessioni profonde e portatrici di un cambiamento della persona detenuta. E, per raggiungere questo obiettivo, il carcere deve ispirarsi proprio ad esperienze simili, e questo si può fare soltanto se il carcere saprà essere aperto alla società civile, perché sei anni di carcere “duro” non mi hanno mai fatto riflettere in modo così intenso e così critico come mi è successo quando ho sentito la voce tremante di quella studentessa ancora impaurita, oppure quando ho visto il dolore di Olga D’Antona per il marito ucciso. Posso dire che così la pena ha un senso, o almeno un senso più “compiuto”. Quasi sicuramente pochi dei miei compagni detenuti sarebbero riusciti a pensare seriamente alle proprie vittime senza questa esperienza, perché fino a quando la vita detentiva continuerà a offrire soltanto 3-4 ore giornaliere di “aria” – come succede nella maggior parte delle carceri italiane – le rimanenti venti ore di cella faranno sentire anche il criminale più feroce a sua volta una vittima, e non gli daranno nessuna occasione per pensare al male che ha fatto: così la pena è davvero senza senso. Riordino sì, ma non restrizione delle misure alternative Ripensare la pena vuol dire ripensare in particolare la pena detentiva Vi sono le condizioni perché, con il nuovo Codice penale all’applicazione del principio della pena come estrema ratio consegua la riduzione dell’area della carcerazione?
di Alessandro Margara presidente della Fondazione Michelucci
Ripensare la pena vuol dire ripensare in particolare la PENA DETENTIVA. Il principio di fondo, anche europeo, è la pena detentiva come extrema ratio. Questo principio dovrebbe portare alla riduzione dell’area della carcerazione. Risulta statisticamente che l’aumento della carcerazione è dovuto in modo assolutamente prevalente all’aumento della penalità e alla insistita gestione di tale aumento nei settori ben definiti della immigrazione, della tossicodipendenza e di altre criticità sociali. Tale aumento trova il suo culmine in tre leggi ben note – Bossi-Fini, ex-Cirielli, Fini-Giovanardi (che aggrava fortemente la già grave legislazione precedente sugli stupefacenti) – di cui occorre liberarci al più presto.
Le pregiudiziali al nuovo Codice penale
Va aggiunto che una caratteristica di queste leggi è l’assoluto disconoscimento della pena detentiva come extrema ratio. L’uso della stessa è anzi costante ed ordinario. Sarà possibile, allora, non solo abolire tale legislazione, ma evitare anche che ritorni? È stata anche ipotizzata la c.d. riserva di codice, che vorrebbe dire che tutta la legislazione penale deve stare nel Codice penale. Potrebbe, allora, essere prevista una riserva di codice per le leggi speciali più rilevanti: per la dipendenza da stupefacenti il Codice penale attuale aveva un unico e allora evidentemente sufficiente articolo, l’art. 447, soppresso con la seconda legge in materia di stupefacenti del 1975)? O potrebbe essere previsto un sistema che impedisse di ampliare in continuazione la legislazione speciale contenente pene detentive (ad esempio: con la previsione di maggioranze qualificate, come per l’indulto)? O, ancora, sarebbe possibile enunciare il principio della pena detentiva extrema ratio come principio valido anche nella legislazione speciale?
Il nuovo Codice penale
Il problema di un nuovo Codice penale, prima di tutto, è un problema di decenza: ha 77 anni ed è stato approvato nel periodo fascista. Nelle linee guida per un nuovo Codice penale la commissione Pisapia ha effettivamente posto il principio della pena detentiva come extrema ratio. Va chiarito allora se vi siano le condizioni perché questo principio del Codice sia funzionale rispetto al contenimento della carcerazione, che ne dovrebbe essere il risultato concreto: cioè se alla enunciazione del principio consegua la riduzione dell’area della carcerazione.
Il nuovo regime della pena riduce la carcerazione?
Vanno evidenziati i nodi problematici che possono influenzare tale funzionalità. Primo nodo: La funzionalità si riduce se il principio è applicato soltanto per reati minori, per i quali non viene normalmente applicata la pena detentiva o che, se irrogata, non viene in concreto eseguita. Come esempio attuale, si può citare la messa alla prova inserita nel disegno di legge di revisione dell’ordinamento giudiziario e della procedura penale: vale solo per reati per cui la pena edittale massima è molto modesta (due anni, se non sbaglio), per i quali è rarissimo che si finisca in carcere. La Commissione Pisapia non è andata, per ora, molto più lontana. Anche le varie depenalizzazioni susseguitesi negli anni hanno avuto questo limite. La conseguenza è stata nei fatti l’aumento costante della carcerazione, specie degli ultimi anni. E le tre leggi citate prima non hanno fatto che rafforzare tale indirizzo.
Secondo nodo: Il principio della pena detentiva come extrema ratio non dovrebbe trovare una compensazione nell’aumento della entità della pena detentiva quando inflitta. L’effetto della riduzione dell’area della carcerazione verrebbe altrimenti frustrato. Si tratta di un rischio concreto. Le modifiche del codice Rocco intervenute in questi decenni democratici hanno interessato punti di rigidità del sistema di irrogazione della pena, determinando un certo deficit di ordine e sistematicità. Se il riordino del sistema comporta un recupero di rigidità, c’è il rischio di una estensione del monte-pene complessivo. Si deve ricordare che operazioni di questo genere sono all’origine della esplosione della pena detentiva in sistemi come quelli degli USA e del Regno Unito. Solo una effettiva diminuzione delle pene detentive nel minimo e nel massimo potrebbero cambiare davvero il discorso. Le parole d’ordine odierne sono, però, in senso contrario.
Terzo nodo: Si confida molto in un sistema di pene alternative diverse dalla detenzione, messe a disposizione del giudice che pronuncia la sentenza di condanna.
La creazione di questo sistema di pene alternative incontra però una serie di problemi. Il primo problema è che gli interventi precedenti di pene alternative in sentenza sono stati sempre molto timidi. Se accadesse lo stesso, non produrrebbero l’effetto della riduzione dell’area della carcerazione. Le pene alternative a quella detentiva devono interessare una casistica nella quale oggi vengono irrogate pene detentive, anche significative, non corrispondenti però al principio della pena detentiva come extrema ratio. Il senso di questo principio è che vi siano altre pene, diverse dalla detentiva, più pertinenti ed adeguate rispetto a certi fatti ed anche rispetto a certi autori. Esempio: la pena detentiva come extrema ratio potrebbe essere principio applicato nei confronti dei tossicodipendenti o di persone in situazioni di gravi criticità sociali (come malati di mente imputabili). Per queste persone potrebbero essere pensate sanzioni che importino la adozione e la attuazione di programmi terapeutici. Anche per gli immigrati potrebbero essere stabilite sanzioni che implichino lo svolgimento di un lavoro e la loro conseguente regolarizzazione. Il primo problema è, quindi, quello della previsione di una pena alternativa diversa da quella detentiva, problema che presenta due aspetti: la pena alternativa possibile per un certo reato è l’unica irrogabile; o concorre, invece, con quella detentiva e la scelta è del giudice. Alla fase della previsione di tali pene dovrebbe appartenere anche una riflessione sul loro contenuto, che dovrebbe tenere presenti finalità anche di reinserimento sociale o, quantomeno, non danneggiare i processi di inserimento in corso. Se guardiamo le prescrizioni di una sanzione sostitutiva, come la libertà controllata, questo rischio è palese. Fra i problemi non piccoli c’è anche quello di prevedere la richiesta o comunque il consenso dell’interessato, quando la pena in questione sia prevista accanto a quella detentiva.
Il secondo problema riguarda l’applicazione della sanzione alternativa. Mentre la pena detentiva ha una struttura concreta e un sistema di servizio che la attua, la pena alternativa (almeno nelle ipotesi di cui sì parla), richiede conoscenza della situazione individuale e un progetto di esecuzione corrispondente. Una messa alla prova, un periodo di lavori socialmente utili, un programma di riparazione sociale, ha bisogno di un progetto concreto attuabile e di una sede o agenzia che vi provveda. Chi raccoglierà gli elementi necessari di conoscenza e di progettazione? Come e quando? Non sembrerebbe possibile prescindere da questa fase, se non dando la pena alternativa al buio e scontrandosi, poi, sovente, con la sua impraticabilità. Per quel che riguarda il chi, come e quando, si può rispondere che potrebbe essere investito un organo di servizio sociale (come l’UEPE), che questo potrebbe avvenire solo successivamente alla sentenza di condanna (altrimenti in tutti i processi si dovrebbe fare un lavoro che sovente resterebbe inutile, quando, cioè, viene inflitta la pena detentiva), che si dovrebbe ipotizzare un’udienza apposita per la definizione di questo aspetto, tenuta dallo stesso giudice della sentenza, che potrebbe modificare la stessa se la pena alternativa non risultasse praticabile. Questo nei casi in cui siano previste, per lo stesso reato, pena detentiva e pena alternativa. Quando, invece, sia prevista solo la pena alternativa, la questione si semplifica, l’inchiesta di servizio sociale può essere richiesta prima della sentenza e il giudice la applica direttamente in sentenza.
Il terzo problema riguarda la gestione di tali pene. Sarebbe logico che organi di gestione fossero gli stessi delle misure alternative in executivis, servizio sociale e magistrato di sorveglianza, necessario anche questo per eventuali autorizzazioni alle situazioni particolari che si verificano nella fase esecutiva dì simili sanzioni. Bisognerebbe pensare anche all’aspetto dei costi della esecuzione di tali pene; ad esempio, se viene svolta una attività lavorativa, sia pure non retribuita, bisognerà, comunque, che vi sia, quantomeno, una copertura assicurativa e non si tratterebbe dell’unica spesa viva.
Il quarto problema riguarda la valutazione e la conclusione di tali pene. Ci sono due possibilità: se si violano le prescrizioni esecutive della pena alternativa si passa alla pena detentiva o no? Per le sanzioni sostitutive della legge sulla depenalizzazione (n. 689/81) è prevista, fino dalla sentenza, la conversione in pena detentiva quando vengono violate le prescrizioni: queste, d’altronde, sono molto rigide e la violazione delle stesse sarà frequente. Quindi, la pena detentiva, cacciata dalla porta, rientra dalla finestra. Diminuirà, in modo più o meno rilevante, l’effetto della riduzione dell’area della carcerazione. Si potrebbe, però, prevedere, per le nuove pene non detentive del nuovo Codice penale, quando l’andamento delle stesse non fosse soddisfacente, un sistema di un rafforzamento delle prescrizioni e anche (e non necessariamente) l’allungamento limitato della sanzione (non oltre la metà della durata stabilita in condanna), che evitasse la conversione in pena detentiva. E questa sarebbe, penso, la scelta più logica quando la pena alternativa è prevista come unica sanzione e non in concorso alla pena detentiva. Nel progetto Boato per la modifica della legislazione sugli stupefacenti, pendente alla Commissione Giustizia della Camera, all’art. 73quater è previsto un sistema del genere. Un pessimo sistema (già previsto nella nostra legislazione) è quello di infliggere una pena detentiva per il mancato o irregolare adempimento della pena alternativa. Sarebbe il fallimento del principio della extrema ratio. È stato reintrodotto all’art. 56 dal Decreto legislativo 28.8.2000, n. 274 sulla competenza penale del giudice di pace. Resta un problema finale. La nuova legislazione che prevede le pene alternative alla pena detentiva deve affrontare e risolvere i problemi indicati. Non può lasciarli alla attuazione pratica degli operatori. La tentazione ci può essere. Si può pensare che il nuovo codice debba indicare la sanzione, ma non regolarne le modalità esecutive: il che vale per le pene note già previste oggi dal Codice penale (reclusione, arresto, multa e ammenda). Ma queste nuove pene alternative alla detenzione, disposte nella stessa sentenza di condanna, sono pene diverse, per le quali, come abbiamo visto, si aprono numerosi problemi la cui soluzione non può essere inventata da chi ne fa applicazione. Se quei problemi non fossero risolti fin dall’inizio, determinerebbero la difficile, eterogenea gestione delle nuove pene e, con ogni probabilità, molte esitazioni nel ricorso alle stesse.
Riordino, sì, ma non restrizione delle misure alternative alla pena detentiva nel corso della esecuzione della stessa
Accenno a un ultimo rischio dei lavori per il nuovo Codice penale: quello del riordino delle misure alternative alla detenzione in sede esecutiva e, attraverso il loro riordino, alla riduzione delle stesse. Non dovrebbe essere un compito del nuovo Codice penale, quanto piuttosto della revisione dell’Ordinamento penitenziario, ma già nei lavori precedenti, prodotti dalle commissioni Pagliaro e Grosso, questi interventi erano presenti. La restrizione delle misure alternative segnerebbe un sicuro rilancio della dinamica dì crescita del carcere, costante negli ultimi anni, nonostante il contenimento operato dalle stesse misure alternative. Se è certo che una revisione del sistema delle misure alternative in executivis sarebbe opportuno, questo dovrebbe essere in direzione di una sua maggiore efficacia, dando atto che la progressiva estensione delle misure, attraverso una storia abbastanza complicata, è stata costantemente guidata da ragioni di funzionalità e di giustizia, che dovrebbero non essere dimenticate. Nulla vieta che il nuovo Codice scelga interventi più radicali di non applicazione della sanzione: quali potrebbero essere quelli della mediazione penale, sostitutiva della stessa sanzione, o quella della valutazione di irrilevanza del fatto prevista per i minori (e che è stata introdotta, per i tossicodipendenti, anche nel progetto Boato in discussione alla Camera sulla modifica della legislazione sugli stupefacenti, all’art. 73, comma 7).
Conclusioni
Si torna all’inizio. Il nuovo Codice penale nasce con il principio che il ricorso alla pena detentiva deve essere la soluzione estrema. Purtroppo su questo principio soffiano i venti impetuosi della punizione, prodotti dalle paure sociali e dall’ampliamento mediatico delle stesse. Si tratta di sapere se il principio è riconfermato o abbandonato. Se è riconfermato, la sua efficacia deve essere valutata anche e soprattutto in termini di contenimento dell’area della detenzione per evitare il riprodursi del cronico sovraffollamento del carcere degli ultimi anni. Se così non fosse, si potrebbe scegliere fra due conclusioni. La prima è che il nuovo Codice penale nasce vecchio; la seconda che, in generale, il nuovo che avanza è sempre più vecchio. Appunti sulle linee guida della Commissione Pisapia Un codice che preveda una pluralità delle pene La prevenzione non deve significare contrapporre al negativo di un reato una risposta analogamente negativa usata come intimidazione Fare prevenzione deve voler dire fare progetti positivi
di Luciano Eusebi Ordinario di Diritto penale nell’Università Cattolica – Piacenza membro della Commissione ministeriale per la riforma del Codice penale
Grazie innanzitutto di poter essere qui, di poter dialogare con voi operatori e detenuti sul tema della pena del quale mi occupo da anni, cercando di proporre criteri diversi, a un tempo più umani e razionali, del fare prevenzione. Oggi, più che nel passato, si prospetta la possibilità di un’importante operazione culturale, il cui successo – questo il messaggio di fondo che voglio lasciare – può dipendere da tutti noi: per la prima volta infatti, nell’ambito dell’avviata riforma del codice Rocco, si prospetta una riconsiderazione complessiva dell’apparato sanzionatorio penale. La riforma del codice può dunque rappresentare un’opportunità: ma non basta che essa preveda nuovi strumenti d’intervento. Occorre, piuttosto che questi ultimi siano utilizzati per superare il ruolo centrale del carcere, nel senso che richiedeva anche il dottor Margara. E che ciò avvenga dipende anche dal nostro impegno, posto che le competenze presenti oggi in questa sala troppo spesso non hanno avuto nella società e negli organi dell’informazione il rilievo che meritano. A tal fine e al di là di certi luoghi comuni, non va dimenticato che l’Italia resta un paese il quale esprime tassi notevolissimi, nel paragone con altri Stati, di volontariato in carcere; un paese dove tante vittime hanno dato una lettura coraggiosa e non superficiale della vicenda che le ha colpite, non richiedendo mere risposte vendicative; un paese, dunque, nel quale la consapevolezza dell’importanza culturale del lavoro di chi si occupa del carcere rimane, tutto sommato, elevata. Ebbene, prima di considerare alcune delle opportunità che offre la bozza di riforma del Codice penale, credo sia necessario riflettere su che cosa vuol dire fare prevenzione. Perché se non parliamo mai della strategia preventiva, di quale modello di giustizia intendiamo accogliere, viene a mancare il fondamento per effettuare proposte innovative. Se si lascia all’opinione pubblica l’idea che la prevenzione sarebbe quella cosa che si sa benissimo da sempre come va fatta – contrapporre al negativo di un reato una risposta analogamente negativa, a scopo di intimidazione e neutralizzazione – tutto ciò di cui tutti oggi stiamo discutendo sarà considerato umanitarismo, apertura a valori belli, al cristianesimo, alla filantropia laica, ma non sarà considerato funzionale alla prevenzione. Noi, invece, dobbiamo saper spiegare che è proprio la prevenzione che esige strategie di carattere diverso. Altrimenti non appena un fatto grave porterà allarme nell’opinione pubblica si tornerà a chiedere l’utilizzo e l’irrigidimento del modello tradizionale. Ciò premesso, la prevenzione esige, innanzitutto, che vi sia interesse a cosa fare prima della commissione dei reati e, dunque, che si intervenga sui fattori che offrono opportunità, sul piano economico come su quello culturale, alle attività illegali. L’intervento su questi fattori costa qualcosa a tutti. Ma solo una società che si autocomprenda almeno in parte corresponsabile dei fattori che favoriscono determinate scelte criminali potrà fare una buona prevenzione. La prevenzione dei reati, prima che dal diritto penale, è fatta dal diritto commerciale, dal diritto societario, dal diritto tributario, da tutti gli altri settori dell’ordinamento giuridico. Se vogliamo sbarrare la strada alle grosse organizzazioni criminali sono importantissime, per esempio, delle buone legislazioni bancarie e fiscali. Le carenze in questo settore hanno avuto molto spesso per alibi proprio l’affidamento dell’azione preventiva al solo diritto penale, che tuttavia interviene quando già il reato è stato commesso. Si dovrà dunque evitare che il diritto penale continui a fare da pretesto perché non siano adottati quegli interventi che limitano le possibilità di accesso alle condotte criminose, non solo comuni, ma anche di ambito economico. Ancor più a monte, si deve riconoscere che il primo livello della prevenzione è sempre di carattere educativo-culturale e politico-sociale. E pertanto, se vogliamo una buona prevenzione, non possiamo dismettere l’intervento sociale o trascurare la presenza credibile dello Stato sul territorio, in tutte le sue dimensioni. Ma non possiamo nemmeno teorizzare che la società democratica e pluralistica non abbia nulla da condividere sul piano dei valori, in tal modo rinunciando a un fondamentale impegno di formazione civile. Non a caso si parlava poco fa del ruolo della scuola.
Un modo diverso di intendere la prevenzione dei reati
Che cosa fare, invece, quando un reato è già stato commesso? Ebbene, già dicevo che da gran tempo questo capitolo viene affrontato molto in fretta: a un negativo si risponde con un altro negativo. Ma non dev’essere così. È risaputo che da più di un secolo non si afferma più che si punisce perché sarebbe giusto ripagare il male con il male, ma per fare prevenzione. Tuttavia il modo concreto in cui si persegue il fine preventivo è rimasto legato all’inflizione e all’esecuzione di una pena che non è pensata – nel momento in cui viene inflitta – come un progetto per chi la dovrà scontare, bensì come una realtà negativa che corrisponde alla negatività del reato (solo dopo la sua inflizione, in quest’ottica, la pena dovrebbe essere piegata a intenti risocializzativi). Emerge dunque l’esigenza espressa dal tema che vi siete dati: “Persone e non reati che camminano”. In base al concetto corrente di giustizia, la pena non tiene conto della persona, ma ha il compito di esprimere attraverso una certa durata della detenzione la gravità del reato commesso. E la persona, di conseguenza, deve ritornare al centro. Beninteso: nessuno può pensare di sostituire il diritto penale «del fatto» con un diritto penale dell’«autore». Vorrebbe dire affossare i principi garantistici: non si può attuare un intervento sanzionatorio perché una persona è fatta in un certo modo, perché ha certe tendenze o un certo carattere che non piace, ma soltanto se c’è stata la commissione di un reato. Questo, però, non vuol dire che una volta che sia stata accertata la commissione del reato, la risposta a quel reato non possa essere concepita come un percorso che riguardi il suo autore (ma anche il rapporto con la vittima e il ristabilimento di relazioni proficue con l’intera società). Aprirsi a questa dimensione vuol dire coltivare un’idea della prevenzione più complessa e profonda di quella corrente. Si dà, in effetti, troppo spesso per scontato che ciò che fa prevenzione generale e speciale sono l’inflizione e l’esecuzione di una conseguenza negativa (la pena) proposta come corrispondente alla gravità del fatto illecito. Ma qual è il modello di interazione tra ordinamento giuridico e cittadino sotteso a un simile assunto? Si tratta di un modello motivazionale che si fonda solo sull’aspetto coercitivo: che riconduce la prevenzione generale al timore e la prevenzione speciale alla neutralizzazione. Eppure la ricerca criminologica lascia emergere che quanto fa davvero prevenzione nella società non è il fattore timore, ma è il fattore consenso: lo Stato che fa più prevenzione è quello che riesce a tenere elevati i livelli di rispetto delle norme non per timore, ma per libera scelta, per convinzione. Non è un caso, per esempio, che tutti gli studi seri sulla pena di morte evidenzino come questa forma barbarica di punizione non produca affatto un’automatica e stabile diminuzione della criminalità di sangue. Ma ciò è ovvio, e già lo spiegava Cesare Beccaria: se compito del diritto è tenere elevato il livello di consenso ai valori fondamentali, l’esempio della pena di morte fa decadere, automaticamente, nella coscienza sociale la centralità del rispetto della vita. Tutto questo si rende per noi ancor più significativo con riguardo alla prevenzione speciale: che cosa si deve fare rispetto alla persona che ha già commesso un reato? Molti ritengono che si tratti soltanto di neutralizzarla per un certo numero di mesi o di anni, in modo tale che ciò serva per lui di ammonimento e di esempio agli altri. Ben diversamente da simile prospettiva, deve piuttosto constatarsi che nulla, davvero nulla, rafforza di più l’autorevolezza delle norme di quanto non avvenga attraverso l’esempio di una persona che rielabora la sua esperienza criminosa, prende le distanze dal reato e si attiva, per esempio, in una condotta riparativa. Non è un lusso della società lavorare per il recupero e per l’integrazione sociale del condannato: nulla rafforza l’autorevolezza della norma più di un percorso che abbia condotto colui che l’abbia trasgredita a compiere scelte libere diverse da quelle del suo passato, ristabilendo rapporti positivi con la società. Se noi partiamo da queste pur semplici considerazioni avvertiamo che la prevenzione non è un semplice «meccanismo», secondo il quale basterebbe il timore di una pena per far diminuire i reati. La prevenzione è sempre qualcosa di dinamico, ha a che fare con la capacità dello Stato di tenere elevata la sua capacità di dialogo con i cittadini, perfino con i cittadini che hanno commesso un reato, in modo da motivare scelte per convinzione e, pertanto, un’adesione spontanea alle esigenze di rispetto delle norme fondamentali. Ciò considerato, ritengo un passaggio fondamentale quello già evidenziato dal dr. Margara, vale a dire l’esigenza che si arrivi per l’appunto a diversificare l’apparato delle sanzioni penali. In Italia, infatti, la pena applicata in sentenza è pressoché sempre detentiva, salvo presso il giudice di pace e nei pochi casi in cui è applicabile la sola pena pecuniaria. Superare la centralità del ricorso al carcere significa, in quest’ottica, superare lo schema secondo cui la pena costituirebbe l’equivalente negativo rispetto alla gravità del reato commesso e accogliere la logica di una pena che inizi ad autocomprendersi come un percorso razionalmente motivato e magari impegnativo, ma tale da non configurarla a priori come pura e semplice realtà negativa. Nessuno ha mai messo in dubbio che un percorso di ristabilimento dei rapporti umani e sociali dopo che sia stato commesso un fatto illecito significativo possa essere difficile: ma deve trattarsi di un percorso che abbia un senso: non di un percorso sempre e comunque segnato da un imprinting negativo.
Il ruolo delle pene non detentive
La bozza di riforma del codice penale recentemente presentata al ministro (per la sola parte generale) compie in effetti alcuni passi importanti nella direzione indicata, prevedendo in particolare, quanto al sistema sanzionatorio, molte novità significative. Nessuno dei membri della Commissione di riforma, peraltro, si sentirà padre di questa bozza, perché essa rappresenta un compromesso tra molti punti di vista. La Commissione, infatti, non è del tutto omogenea nelle sue sensibilità. Anzi, è stato più facile trovare delle convergenze su certe soluzioni concrete che non condividere una visione di fondo rispetto al problema complessivo della prevenzione. Ma alcuni strumenti nuovi nella bozza ci sono. Per la prima volta nel nostro Paese veniamo ad avere, soprattutto, pene applicabili in sentenza di tipo fra loro diverso (con eliminazione delle attuali pene accessorie). - Viene prevista, innanzitutto, la rivalutazione della pena pecuniaria, applicata non solo per entità determinata (come già oggi la conosciamo), ma anche «per tassi». Quest’ultima modalità comporta che sia il povero che il ricco siano condannati a un medesimo numero di tassi di pena pecuniaria, salvo poi rapportare l’entità del tasso al reddito, al patrimonio e ai carichi familiari di ciascuna persona (in Germania i tre quarti delle condanne penali sono a pena pecuniaria per tassi). La pena pecuniaria può consentire di agire in maniera consistente soprattutto nel contesto della criminalità motivata da lucro, anche con riguardo a delicati settori dell’attività economica. È una pena che non sconvolge la vita di una persona e che può assumere, ove venga espressamente utilizzata per determinate finalità sociali, un significativo orientamento solidaristico. - Sono contemplate, poi, pene di carattere prescrittivo, il che risulta assai importante. Si tratta infatti di pene che non consistono semplicemente in un «subire» passivamente, ma in un percorso che può anche assumere i contorni del «fare» (che esige il consenso del condannato). Sulle pene prescrittive si gioca una partita culturale delicata, perché (come si evince dalla stessa bozza di delega) esse possono privilegiare la dimensione della sorveglianza – il condannato resta in libertà, ma con tutta una serie di prescrizioni e di obblighi, a fini di mero controllo – oppure possono essere orientate nell’ottica del sostegno all’integrazione sociale, anche attraverso il supporto degli Uffici dell’esecuzione penale esterna. Non può non riconoscersi, d’altra parte, come vi siano molte situazioni umane che si possono accostare positivamente solo attraverso seri interventi di aiuto, il che non si renderebbe praticabile ove prevalesse l’ottica del mero controllo extradetentivo. Ancora una volta, la scelta dipenderà anche dalla nostra presenza culturale, come pure dalla sensibilizzazione dell’opinione pubblica, per esempio spiegando che un percorso di aiuto extradetentivo validamente seguito costa molto della permanenza in carcere per il medesimo periodo di tempo e ha esiti statistici, dal punto di vista della recidiva, nettamente migliori. - Un’ulteriore elemento di sicuro interesse è dato dal fatto che la bozza prevede, non solo nell’ambito della sospensione condizionale della pena, ma anche come provvedimento autonomo (per pene detentive fino a tre anni) la possibilità di un percorso di «messa alla prova». Non si menzionano esplicitamente, invece, le procedure di mediazione penale: ma nulla vieta che esse possano trovare spazio proprio nell’ambito della «messa alla prova», com’è proficuamente accaduto finora presso alcuni tribunali per i minorenni. - Oltre alle pene pecuniarie e alle pene prescrittive diverrebbero pene principali, secondo la bozza, anche le pene interdittive, che senza dubbio sono molto delicate. Esse infatti possono incidere pesantemente nella vita di una persona ove impediscano l’unica attività professionale realisticamente praticabile dalla medesima, il che, è ovvio, non deve avvenire. Pertanto il loro uso dev’essere oculato e, ad avviso di chi vi parla, anche rispetto ad esse dovrebbe rimanere applicabile la sospensione condizionale. Nondimeno, la pena interdittiva può avere, soprattutto in ambito amministrativo od economico, un significato concreto estremamente rilevante (si pensi al divieto di ricoprire determinati ruoli concernenti l’amministrazione di imprese o la titolarità di uffici politici). - L’ambito stesso delle pene incidenti sulla libertà personale verrebbe differenziato, prevedendosi non soltanto la tradizionale detenzione in carcere, ma anche la detenzione domiciliare sia per fasce orarie sia per giorni della settimana. È bene sottolineare, tuttavia, che il ricorso alla detenzione domiciliare, quale valvola di sfogo del carcere a potenziale costo zero, non deve esonerare lo Stato dall’impegno teso a delineare per i casi in cui ciò risulti necessario, come già si evidenziava, adeguati percorsi di aiuto. Si tratta di un tema molto importante, in quanto attiene ancora una volta all’esigenza che qualsiasi modalità sanzionatoria persegua, non solo formalmente, obiettivi di integrazione sociale.
I problemi aperti con riguardo alla pena detentiva
Per quanto concerne specificamente la pena detentiva tradizionale, si tratterà innanzitutto di verificare se davvero alla diversificazione dell’apparato sanzionatorio si accompagnerà l’intento di ridurre effettivamente e in modo stabile l’ambito di utilizzazione in concreto del carcere. Su questo punto si gioca la credibilità dell’intera proposta di riforma. Ove la diversificazione dell’apparato sanzionatorio aggiungesse nuova penalità senza ridurre la popolazione penitenziaria o provocando disinteresse verso il destino di chi, nondimeno, dovrà affrontate una pena detentiva, la riforma risulterebbe solo apparente. Molto dipenderà, non mi stanco di ripeterlo, dalla nostra capacità di presenza culturale. S’è detto, ed è vero, che la partita si giocherà nel prosieguo dei lavori di riforma, quando si passerà a definire le pene utilizzabili nel futuro per i singoli reati. E s’è anche detto che, comunque, si procederà a ridurre l’entità edittale delle pene detentive legislativamente previste. Il che sarebbe certamente positivo, ove davvero si verificasse. Con l’avvertenza, tuttavia, che ciò non venga utilizzato per giustificare, a fronte di riduzioni solo apparenti, la sostanziale abrogazione della flessibilità in fase esecutiva attraverso il ridimensionamento del sistema delle misure alternative (anche per quanto concerne il ruolo fondamentale della liberazione anticipata), come pure per giustificare l’irrigidimento dei margini di commisurazione giudiziaria, secondo lo schema estremamente ambiguo delle pene più brevi, ma più certe, ovvero della pretesa corrispondenza fra pena inflitta e pena eseguita. Non si deve infatti dimenticare che la summenzionata flessibilità è un elemento ineliminabile per la costituzionalità di qualsiasi pena detentiva (come ha riconosciuto la Corte costituzionale), perché da essa dipende l’effettiva apertura della medesima al reinserimento del condannato nella società: diversamente il carcere finirebbe per rispondere davvero a pure istanze di segregazione, più o meno duratura nel tempo, dal contesto sociale. Come pure non si deve dimenticare che la certezza della pena è data dalla certezza dei criteri che ne regolano la fase applicativa ed esecutiva, e non dalla loro sostanziale abrogazione. S’è anche fatto riferimento, in proposito, alla discussione sui rientri in carcere nel dopo-indulto: ma si tenga presente che i tassi del rientro in carcere dopo che una pena detentiva sia stata scontata senza strumenti che abbiano consentito già durante la fase esecutiva un progressivo reinserimento nella società risultano di gran lunga superiori a quelli riscontrati nella stessa fase successiva all’applicazione dell’indulto. Per quel che concerne, invece, il giudice della condanna, sarebbe contraddittorio prevedere la valorizzazione dei suoi poteri di applicazione al caso concreto delle scelte legislative nell’ambito delle nuove modalità sanzionatorie e, nel contempo, la riduzione delle sue competenze ove si tratti di applicare la forma punitiva più drastica, costituita dal carcere: problema, questo, che diventa particolarmente delicato in riferimento alla prevista abrogazione delle attenuanti generiche e del giudizio di possibile equivalenza o prevalenza delle attenuanti rispetto alle aggravanti, il che potrebbe privare il giudice di qualsiasi strumento mitigativo tale da consentirgli di non applicare livelli di pena percepiti come eccessivi rispetto al caso concreto (tanto più in rapporto al fatto che, diversamente da altri Paesi, si è finora mantenuta in Italia la previsione di minimi edittali per la maggior parte dei reati). Ciò ha condotto la Commissione di riforma a prevedere, per il giudice, la possibilità di applicare, quantomeno, un correttivo di equità nel caso in cui la pena determinata secondo i criteri ordinari risulti eccessiva in rapporto al disvalore del fatto. Norma se si vuole minimale, ma la cui conservazione nella fase di riforma è da ritenersi alquanto importante. Tutto quanto s’è detto ci riporta agli interrogativi del dr. Margara. Il fatto che per la prima volta venga previsto un vero ventaglio di sanzioni nell’ambito del codice penale costituisce, già di per sé, una novità storica. Anche perché offre fin d’ora al legislatore del futuro la possibilità di procedere nella progressiva riduzione del ricorso al carcere. Ma se le nuove pene venissero usate solo con riguardo all’ambito già oggi coperto dalla sospensione condizionale, dalle sanzioni sostitutive, dall’affidamento in prova e dalla detenzione domiciliare (per giunta con eventuali irrigidimenti nella gestione della pena detentiva), si avrebbe qualche cosa di molto vicino a una truffa delle etichette.
Il ruolo della personalità del condannato
Un ulteriore tema già posto all’attenzione del nostro convegno è quello della cosiddetta «bifasicità» del processo. Ora, quest’espressione a molti potrebbe sembrare strana, ma ha a che fare, essa pure, proprio col tema dell’incontro: «persone e non reati». Il problema è il seguente: se si vuole che la pena non sia più l’entità di detenzione che segnala la gravità del reato secondo una formalizzazione aritmetica, ma venga a costituire un percorso significativo per la persona, risulta necessario che il giudice possa avere elementi di approccio alla condizione soggettiva del soggetto che ha di fronte, onde tenerne conto nel configurare la sanzione. Tuttavia il codice di procedura penale vieta espressamente, a differenza di quanto avviene in ambito minorile, l’effettuazione di indagini specifiche sulla personalità. E, d’altra parte, una simile indagine sarebbe molto delicata, perché il giudice, nel processo, deve occuparsi innanzitutto della sussistenza dei fatti e della colpevolezza. Lo stesso avvocato difensore, di conseguenza, ben difficilmente vorrà discutere, durante il processo, della condizione umana del suo assistito e delle esigenze connesse alla pena, perché discuterne potrebbe significare indebolire le argomentazioni difensive. Nei casi in cui ciò appaia necessario ai fini del tipo di provvedimento da applicarsi, la strada potrebbe essere, dunque, quella di “duplicare” la sentenza: avere una prima pronuncia sulla responsabilità, poi un breve periodo per acquisire elementi sulla realtà umana e personale dell’imputato (in un momento nel quale ciò non potrebbe più condizionare in senso negativo la decisione sulla responsabilità), e infine una seconda pronuncia che determina la pena.
Sistema sanzionatorio e nuove prospettive di tutela
L’importanza di un nuovo sistema sanzionatorio investe anche la strutturazione complessiva dei reati, come pure la capacità dell’ordinamento giuridico di intervenire con efficacia in ambiti sui quali finora si è intervenuti solo marginalmente. Mi spiego meglio: un sistema tutto incentrato sulla pena detentiva è stato un sistema che di fatto ha colpito soprattutto la criminalità comune tradizionale, in particolare i reati dolosi diretti contro un individuo specifico. Il diritto penale moderno, anche se l’opinione pubblica non viene educata a questa sensibilità, deve invece contrastare molto fortemente anche quelle condotte pericolose a vittima incerta che sono determinate assai spesso da ragioni egoistiche di lucro o comunque da decisioni illecite in ambito economico. Tuttavia la possibilità di intervenire efficacemente in tali settori non è legata all’idea, che talora capita di ascoltare, secondo cui si dovrebbero mandare in carcere i ricchi al posto dei poveri, idea che finisce in questi termini per essere solo demagogica, ma è legata essenzialmente alla capacità di intervenire con pene nuove che incidano, soprattutto, sugli interessi economici. A tal fine dovrebbe essere superato lo stesso schema classico del reato colposo, che punisce tra le molte persone che violano una regola comportamentale quella più «sfortunata» la quale, a seguito della violazione, vede il realizzarsi dell’evento lesivo (tra le molte persone che violano il limite di velocità, quella la cui condotta è sfociata in un incidente stradale). Sarebbe infatti assai più proficuo intervenire, senza ricorrere alla pena detentiva, già nel momento in cui si tiene una condotta pericolosa, e a questo fine le nuove sanzioni penali sono in grado di offrire, insieme alle sanzioni amministrative, strumenti efficaci (dell’eventuale realizzazione dell’evento si potrebbe ad esempio tener conto attraverso consistenti oneri riparativi). Un’altra scelta importante della bozza di riforma è quella di confermare e rafforzare l’applicabilità – introdotta dal 2001 – di sanzioni, conseguenti a reato, nei confronti delle persone giuridiche: sanzioni che non sarebbero più definite amministrative, ma verrebbero ad assumere carattere a tutti gli effetti penale. Ciò fa sì che, allorquando vengano commessi reati nell’interesse di una persona giuridica (dagli amministratori o comunque dalle persone che agiscano per suo conto), i soci e coloro i quali abbiano investito su di essa non ne traggano vantaggio. La persona giuridica, in questo quadro, viene a subire conseguenze a seguito di scelte criminose poste in essere, soprattutto, dagli organi sociali e dai responsabili tecnici, salva la prova che la medesima abbia effettuato tutto il possibile, sul piano del controllo interno, per evitare la commissione degli illeciti: ne deriva, in tal modo, l’interesse dei soci e degli investitori a esigere correttezza nel comportamento dell’ente.
Le condotte riparative e l’irrilevanza del fatto
Un altro settore innovativo di cui alla bozza di riforma, sul quale è bene soffermare in breve l’attenzione, è costituito dai provvedimenti che consentono l’estinzione del reato. Oltre alla sospensione condizionale, già abbiamo detto di uno specifico spazio che verrebbe ad avere la «messa alla prova», che può tra l’altro facilitare esiti di carattere conciliativo. A ciò si aggiunge il rilievo attribuito, per fatti non particolarmente gravi, alla prestazione – entro una data fase del procedimento – di condotte riparative. Tutto questo si colloca, per l’appunto, nell’ottica, oggi assai incentivata sul piano internazionale, della c.d. giustizia riparativa, che valorizza la riconciliazione con la vittima o con la società e, in tal senso, apre al senso più profondo dello stesso «fare giustizia». Una novità è rappresentata altresì dalla previsione generale di una clausola di non prosecuzione del processo per «irrilevanza», nel caso in cui il fatto risulti tenue od occasionale. Avremmo per la prima volta, su questa via, uno strumento di trasparente deflazione processuale rispetto ai comportamenti che, pur rientrando in una fattispecie di reato, non assurgono a quella consistenza che giustifica l’intervento penale (salva sempre, eventualmente, la responsabilità civile). Si noti, poi, che la bozza di riforma precisa in maniera esplicita la necessità, affinché un reato possa configurarsi, che la condotta di cui si discuta sia effettivamente risultata «offensiva» rispetto al bene tutelato dal legislatore.
Alcuni problemi aperti
Restano certamente problemi che non hanno trovato elaborazione nella bozza di riforma. Tra di essi vorrei segnalare come, personalmente, avrei desiderato una specifica attenzione per i c.d. giovani-adulti, cioè per l’intelligente predisposizione da parte dello Stato di possibili percorsi di rientro nella legalità per chi, di fatto, abbia iniziato a tenere comportamenti illegali in una fascia di età nella quale non aveva un’adeguata capacità di giudizio e un’effettiva capacità di sottrarsi a sollecitazioni provenienti dal mondo degli adulti o dalla stessa criminalità organizzata. Anche sulla base di molteplici indicazioni dei documenti internazionali, simili opportunità di rientro, che non necessitano di essere collegate a condotte di collaborazione di giustizia (potrebbero valorizzare la mera ammissione di responsabilità proprie, o altri requisiti), appaiono in grado di assumere un notevole significato preventivo, sia evitando il consolidarsi delle carriere criminali, sia consolidando l’autorevolezza della legge. Avrei inoltre sperato, come già accennavo, che la riforma del sistema sanzionatorio potesse avere riflessi su determinati modelli di costruzione del reato, e segnatamente del reato colposo: così da superare la logica che punisce con la detenzione ove si sia prodotto il risultato di una condotta pericolosa (e opera, pertanto, una selezione dipendente nella sostanza dal caso tra i soggetti che abbiano attivato il medesimo rischio), in favore di una logica la quale controlli in modo efficiente, attraverso sanzioni penali o amministrative di carattere non detentivo, la tenuta delle condotte antigiuridiche.
Quale giustizia?
Mi si consenta di tornare, alla fine, sull’importanza dell’impegno culturale. Non è affatto scontato, infatti, che certe sensibilità esposte in questo contributo circa il modo di intendere la prevenzione e l’apertura a una giustizia della riparazione e del dialogo siano accolte in sede politica o dalla pubblica opinione. Ci sono del resto resistenze anche ideologiche, come quelle che diffidano da qualsiasi prospettiva «dialogica» della giustizia, quasi che le garanzie dei diritti individuali siano assicurate maggiormente da prospettive di ritorsione che dalla pur faticosa costruzione di percorsi umanamente significativi, e quasi che nella società pluralistica non sia possibile condividere alcunché su cui fondare provvedimenti di carattere costruttivo piuttosto che di mera privazione della libertà. Lavorare per costruire sanzioni costruttive non vuol dire, in ogni caso, giustificare ciò che non va bene nella società, ma al contrario vuol dire provocare la società a riconoscere i suoi limiti e a non accontentarsi di modalità sanzionatorie che la deresponsabilizzino, consentendole di rispondere a una realtà negativa con un’altra realtà negativa. A monte, dunque, si rende necessaria una riflessione sul modello di giustizia che intendiamo far nostro, riflessione la quale non riguarda soltanto le norme giuridiche, ma anche la vita di ciascuno tra noi. È davvero giustizia quella che rappresentiamo attraverso l’immagine della bilancia che sta sulla carta bollata? Tale immagine evoca l’agire in modo corrispondente all’agire altrui (o al giudizio che riteniamo di dare sull’agire altrui): io mi comporto come tu ti comporti con me. Penso che l’aver ritenuto scontato un simile concetto di giustizia abbia inciso negativamente sulle scelte esistenziali di molti fra noi, autori o non autori di reato. Quante volte, utilizzando questo modello di giustizia, siamo partiti nei nostri rapporti verso l’«altro» da un giudizio negativo nei suoi confronti (giudizio che è molto facile, perché qualcosa di negativo lo si trova in tutti) con il quale, poi, abbiamo autorizzato noi stessi ad agire negativamente nei suoi confronti? La giustizia non è «il negativo per il negativo»: è la capacità, anche dinnanzi al negativo (che va svelato) di affermare ciò che è contrario al negativo. Nella nostra materia ciò significa costruire percorsi che possono essere impegnativi, ma che devono avere un significato opposto al negativo. Ma perché su tutto questo possa procede la riflessione c’è bisogno dell’impegno personale di ciascuno.
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