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La pena come passaggio verso la ricostruzione di sé e il cambiamento
È difficile dire in quanti siamo rimasti a sostenere che il carcere deve essere l’extrema ratio, ma a un anno dall’indulto la sensazione è che non siamo poi in tanti. Non c’è disagio sociale di un qualche rilievo che non si pensi di risolvere minacciando la galera: da ultimo, la guida in stato di ebbrezza, per cui ancora una volta il problema non è quello, per esempio, di una società annoiata in cui i giovani usano l’alcol perché non sanno stare insieme appassionandosi a qualcosa, e gli adulti non hanno nemmeno quel senso di responsabilità che, in Paesi “arretrati” e con elevatissimo consumo di alcolici come la Russia, porta almeno i guidatori a non consumare un grammo di alcol per garantire, a sé e agli altri, un minimo di sicurezza. No, il problema è punire più duramente, è promettere sicurezza quantificabile in sempre più anni di galera. Nella Giornata di Studi “Persone, non reati che camminano”, che si è svolta nella Casa di reclusione di Padova, si è parlato esattamente di questo, della pena come extrema ratio, cioè l’esatto contrario di quello che “va di moda” oggi, che è sempre, in fondo, il vecchio principio che “al male si risponde con il male”. Ma allora è più che mai importante che di reati e di pene si parli ovunque, che la società nel suo complesso, e non solo gli addetti ai lavori, sia coinvolta in questa discussione sulla riforma del Codice penale. E i progetti che, come a Padova, prevedono un confronto diretto tra scuole e carcere sono, da questo punto di vista, uno straordinario strumento che mette in moto riflessioni e un dialogo acceso nelle classi, tra studenti e insegnanti, ma poi anche a casa, con i genitori, con i fratelli, con gli amici, proprio sul senso delle pene, sul modo in cui vengono scontate, sulla capacità che deve avere la società di riaccogliere chi ha commesso reati. In questo e nel prossimo numero di “Ristretti Orizzonti” pubblichiamo le relazioni e gli interventi della Giornata di Studi, per tornare a ragionarci su, e per dare un contributo a questa discussione sulla riforma del sistema delle pene, che in tanti speriamo che prenda forza nel nostro Paese. I temi che affrontiamo sono quelli legati alle Linee guida, elaborate dalla Commissione Pisapia in vista di un nuovo Codice penale, ma anche la questione delle leggi emergenziali, che rendono praticamente impossibile un vero percorso di reinserimento per alcune “categorie” di detenuti, e poi ancora l’esecuzione della pena, perché è innegabile che scontare la pena in un carcere o in un altro cambia radicalmente la sostanza della pena stessa. Non a caso, nella Giornata di Studi di Padova sono stati proprio due direttori di carceri ad analizzare con più spietatezza quello che non funziona nel sistema penitenziario, e a proporre una idea diversa della detenzione, che abbia alla base un unico principio, elementare ma niente affatto scontato: “Il muro di cinta basta alla pena, è la pena stessa”, come ha detto Lucia Castellano, direttrice della Casa di reclusione di Bollate, e tutto il resto, a partire dal fatto che spesso la detenzione è costituita da venti e più ore chiusi in cella, è spesso una pena aggiuntiva, che non dovrebbe più essere tollerata. L’indulto aveva creato le condizioni proprio per questo, per riportare il carcere a numeri accettabili e, a quelli che in carcere proprio ci devono stare, offrire la possibilità di impegnarsi in un percorso vero di reinserimento. La sfida, in fondo, dovrebbe essere questa: non tanto “lavorare” con i detenuti che hanno già una rete di sostegno e concrete possibilità di farcela a rientrare nella società, quanto piuttosto con quelli più “difficili”, meno “presentabili”, quelli con storie dure di recidiva e fascicoli pesanti come macigni. E invece, le carceri si stanno di nuovo intasando con quelli che dentro proprio non ci dovrebbero stare, quelli che commettono reati che ci danno fastidio, ma che non possono più di tanto spaventarci e farci sentire in pericolo, primi fra tutti i tossicodipendenti. E di nuovo si deve discutere di misure alternative che vengono date con estrema parsimonia, e di pene scontate interamente in galera. Per finire, ci piace riportare le parole di un’insegnante, che con la sua classe ha partecipato al nostro progetto “Il carcere entra a scuola. Le scuole entrano in carcere”, perché sintetizzano bene il senso di un progetto, che vuole spiegare ai giovani che il carcere deve essere davvero l’extrema ratio: “Ci sono tanti temi che gli incontri con i detenuti ci hanno permesso di affrontare in classe. In particolare uno mi sta a cuore ricordare perché è stato davvero “sentito” dai ragazzi: è l’idea di pena intesa non solo come punizione, ma come passaggio verso la ricostruzione di sé e il cambiamento”.
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