Storie

 

Se la Giustizia impiega secoli per presentarti il conto… salato

Io non ne potevo più, già da alcuni anni vivevo con il pensiero che dovevo tornare

in carcere e non avevo la minima idea di quando poteva succedere

 

di Claudio Polonio

 

Sono in carcere per reati commessi negli anni 1997 e 1998.

La mia vicenda giudiziaria è iniziata nell’agosto del 1998, quando mi hanno arrestato per varie rapine e furti. Vista la gravità dei reati fu emessa nei miei confronti un’ordinanza di custodia cautelare in carcere. Dopo la chiusura delle indagini, che durarono circa un anno, il mio avvocato presentò una richiesta perché la custodia cautelare in carcere fosse tramutata in arresti domiciliari, visto che avevo una residenza fissa e due figli minori. Oltre a questo motivo la richiesta era suffragata dal fatto che non esisteva pericolo di fuga né di inquinamento delle prove, essendo state oramai chiuse tutte le indagini. La richiesta fu accolta e, dopo qualche giorno, mi avvisarono che in giornata sarei stato accompagnato dalla polizia penitenziaria agli arresti domiciliari.

Ovviamente fui molto contento, era sempre una misura cautelare ma comunque alternativa al carcere. Ciò mi permise di ritornare dai miei figli. All’epoca il più grande aveva otto anni, mentre la più piccola ne aveva solamente due. All’inizio fu abbastanza dura abituarsi, ero sottoposto ai controlli di tre diverse stazioni dei carabinieri che si alternavano a qualsiasi ora del giorno e della notte per verificare se ero in casa. In una notte potevano passare una volta come cinque. Dopo qualche giorno comunque anche i miei figli si abituarono alla presenza quasi costante dei carabinieri, tanto che quando li vedeva arrivare la piccoletta mi veniva a chiamare.

Ai bambini “piaceva” quella situazione perché non avevo mai passato così tanto tempo con loro. Essere agli arresti domiciliari significa non poter uscire di casa ed essere costantemente controllati, ma io non potevo certo lamentarmi, quella misura restrittiva era l’alternativa al carcere che mi permetteva di stare con la mia famiglia: non avevo il tempo di annoiarmi, aiutavo il più grande dei miei figli a fare i compiti e con la più piccola giocavo tutto il giorno. Mia moglie lavorava nell’azienda di famiglia dove lavoravo anch’io prima dell’arresto. Dopo circa due mesi con l’avvocato decidemmo di presentare una richiesta perché mi fosse concesso il permesso di riprendere il mio lavoro presso l’azienda di famiglia. Tempo pochi giorni e venni autorizzato: finalmente potevo recarmi al lavoro e guadagnare qualcosa. Dovevo fare un percorso obbligato e non potevo fermarmi da nessuna parte, ma malgrado tutti gli obblighi ero contentissimo di ritornare al lavoro, avevo ancora il mutuo sulla casa e molte altre spese da affrontare.

I miei figli non furono altrettanto contenti: non potevo più dedicare loro tanto tempo. Uscivo di casa alle sette e trenta e ritornavo alla sera alle venti; naturalmente dovevo rimanere sul posto di lavoro tutto il giorno, dove i carabinieri venivano parecchie volte per i controlli. Il resto delle ore ed i festivi dovevo rimanere in casa. Quella situazione però non mi pesava, non poteva pesarmi più di tanto: era sempre meglio che stare in galera. Il lato doppiamente positivo era dato dal fatto che, essendo agli arresti domiciliari, continuavo a scontare la pena come se si trattasse di una carcerazione vera e propria. Così facendo, mi sarei ritrovato al momento della condanna definitiva, che prima o poi sarebbe arrivata, anche con un buon periodo di pena detentiva già espiata.

Dopo circa due mesi da quando mi era stato concesso il permesso di tornare al lavoro, vennero i carabinieri. Pensavo si trattasse di un normale controllo di routine, invece mi notificarono che da quel momento ero libero di andare dove volevo. Non ci credevo! Lessi velocemente il documento e mi resi conto che si trattava veramente della revoca degli arresti domiciliari, con la motivazione che erano oramai scaduti i termini massimi della custodia cautelare. Quindi, verso la fine del 1999, mi ritrovai libero senza alcun obbligo: potevo andare dove volevo, anche all’estero visto che non mi era stato ritirato il passaporto e che il magistrato non aveva disposto nessuna limitazione.

 

Ero stanco di tenere la mia vita sospesa, sempre in attesa del giorno del rientro in carcere

 

Essere libero non era affatto male, ma… anche se stare agli arresti domiciliari non era una bella cosa avrei preferito continuare così. Ero sì libero, ma in attesa di un processo che non era ancora stato fissato, ma che prima o poi avrebbe portato ad una condanna sicura, quindi al conseguente reingresso in carcere. Insomma, paradossalmente avrei preferito continuare a scontare parte della pena in regime di arresti domiciliari. Sapevo infatti che alla fine mi sarei ritrovato da capo a ripartire con la stessa storia, avrei dovuto lasciare di nuovo la famiglia ed il lavoro.

Dopo circa un anno iniziò il processo di primo grado che, per vari motivi, fu rinviato per ben tre volte. Alla fine del 2002 arrivò la sentenza di primo grado e la relativa pena: oltre dodici anni di reclusione! Presentai ricorso in appello perché ero stato condannato anche per reati che non avevo commesso. Nel frattempo, anche in considerazione della pesante condanna, i rapporti con mia moglie cambiarono. Decidemmo di separarci. Lavoravamo insieme, andavo tutti i giorni dai bambini ma ognuno viveva per conto suo. Lasciai a lei la casa e l’affidamento dei figli: anche se il processo di appello fosse andato “bene”, le prospettive non erano comunque rosee: a detta dell’avvocato, almeno una decina di anni me li sarei presi tutti.

Avevo il mio lavoro che mi permetteva di vivere decentemente, che mi consentiva di mantenere i miei figli, ma sapevo che prima o poi avrei dovuto lasciare tutto. L’udienza d’appello fu fissata per l’ottobre del 2003. L’avvocato mi propose di tentare un rinvio: per lui era normale, tutti tentavano di rinviare, ma io avevo la sensazione che sarebbe servito solo a tenere tutto ancora in sospeso. Io non ne potevo più, già da alcuni anni vivevo con il solo pensiero che dovevo tornare in carcere e non avevo la minima idea di quando poteva succedere. Per quanto riguardava il lavoro non potevo fare progetti a lungo termine. Andava molto bene, nella ditta di mio padre mi occupavo un po’ di tutto, ma sapevo che prima o poi sarei stato costretto a lasciare in sospeso ciò che stavo facendo.

Sapevo che avrei dovuto anche separarmi dai miei figli e che sarebbe stata la cosa più dura, così pian piano cominciai a prepararli. Il giorno dell’udienza d’appello fortunatamente andò meglio del previsto. Grazie ad un concordato tra il mio avvocato ed il pubblico ministero, ne uscii con una condanna di poco superiore ai sette anni. La prima cosa che l’avvocato mi disse fu di presentare ricorso in Cassazione, al solo scopo di guadagnare tempo, perché la sentenza definitiva avrebbe comportato l’immediato rientro in carcere.

La mia risposta lo sbalordì. Nessun ricorso, in appello ero stato condannato per i reati realmente commessi, l’entità della pena era “ragionevole”. Se mai cominciavo, mai avrei finito. Ero veramente stanco di tenere la mia vita sospesa - e non solo la mia - sempre in attesa che arrivasse il giorno di rientrare in carcere. Non ero per niente contento di ritornarci, ma una cosa che non si può evitare si deve affrontare e basta. Il 29 gennaio 2004 sono venuti a prendermi al lavoro e adesso, “finalmente”, sto scontando la mia condanna. Fatto questo sacrificio, questo passaggio, potrò riprendere la mia vita, tornare a seguire i miei figli che adesso hanno 14 e 8 anni e con i quali fortunatamente riesco a mantenere il rapporto vivo seppur con i limiti del distacco. Potrò tornare anche al mio lavoro, se mio padre ormai anziano terrà in piedi l’attività fino al mio ritorno, altrimenti dovrò trovare un’altra occupazione.

Ho commesso dei reati e per questo sto pagando, ma potrei oramai essere alla fine della pena ed invece dopo tanti anni, a causa della lentezza della giustizia, mi ritrovo ancora all’inizio. Fortunatamente mi ero preparato ad affrontare questa situazione, ma molte persone che ho conosciuto in carcere si sono ritrovate detenute per reati commessi 10 anni prima e senza che ne sapessero nulla, qualche volta anche per il disinteresse loro o dell’avvocato, che aveva garantito che si sarebbe sistemato tutto senza alcun problema.

Mi viene in mente il caso di Roberto, un ragazzo che ho conosciuto qui pochi mesi fa. Mi ha raccontato che una sera è stato fermato per strada e ammanettato: gli era arrivata una condanna definitiva di tre anni e sei mesi per un reato del 1994. L’avvocato gli aveva detto: “Stai tranquillo, sotto i quattro anni ti danno l’affidamento”. Era il primo ed unico reato commesso, da incensurato, e dal 1994 non aveva più preso neppure una multa, ma l’affidamento gli è stato comunque rifiutato. Dopo 10 anni esatti la giustizia italiana lo ha rimandato in carcere, e per questo nostro sistema giudiziario c’è chi perde lavoro, casa e famiglia. Quindi io devo ritenermi fortunato visto che sono riuscito a salvare quasi tutto.

Microscopici frammenti di galera

Una brutta notizia da casa, una telefonata negata e si scatena la furia autodistruttiva. Un racconto dell’“ordinaria follia” a cui si può assistere nelle carceri

 

di Elton Kalica

 

Mi arrestarono una notte d’estate. Mi misero in isolamento. Tre metri per due: un tavolino e uno sgabello di ferro inchiodati al pavimento di cemento, una finestra soffocata da una fitta rete nera, un lavandino e il cesso ingiallito. Sul piano superiore del letto a castello c’era Bedri, magro e a torso nudo, sempre ansioso di mostrare il suo sorriso sdentato. In alto, vicino al soffitto, un televisore che poteva essere visto soltanto dalla branda di sopra.

Mi buttai sulla branda di sotto da dove si potevano ascoltare i rumori e le voci di un film anonimo: come quando si rimane fuori da un cinema. In quel reparto tutte le celle erano occupate, per via del sovraffollamento. Dopo aver finito i quaranta giorni d’isolamento ordinati dal giudice, rimasi per altri quattro mesi con Bedri, che guardava sempre la televisione, steso in branda, e con Alket, un altro connazionale che si era sistemato per terra, da dove almeno riusciva a guardare un lembo dello schermo, anche se dovevamo scavalcarlo ogni volta che volevamo andare al cesso.

Aspettavamo tutti e tre che nelle sezioni normali si liberasse qualche posto, quando Bedri ricevette un telegramma dall’Albania: sua madre era morta. Il foglio gli cadde di mano. Crollò in lacrime. Non sapevamo cosa fare, cosa dire. Alket spense il televisore come per risparmiare quella scena a Maria De Filippi. All’improvviso, Bedri scattò in piedi, gli occhi rossi, chiamò l’agente e disse: “Devo telefonare a casa, devo sentire mio padre e chiedergli scusa di non essere lì, con lui”.

“Adesso m’informo e le faccio sapere”, disse l’agente. Tutti e tre avevamo fatto richiesta per telefonare a casa, in Albania, ma la prassi era lunga e dovevamo aspettare. L’agente ritornò e disse che non era possibile. Bedri perse il controllo, iniziò a urlare e a battere la testa contro il muro, imbrattandolo di sangue. Usammo tutta la forza per fermarlo. Sembrò acquietarsi, ma in un lampo prese un barattolo di pomodori, strappò il coperchio di latta e cominciò a tirarsi fendenti sul polso sinistro. Quando finalmente riuscimmo a togliergli la rozza lama di mano, si potevano contare cinque tagli che schizzavano sangue.

Una squadra di agenti lo portò via legato. Ritornò dopo mezzanotte, trascinando a fatica i piedi a causa degli psicofarmaci di cui lo avevano imbottito. Crollò sul materasso di Alket e si addormentò balbettando: “Voglio morire anch’io”.

 

 

Precedente Home Su Successiva