Attenti al libro

 

Sofri, attaccante estremo

Quando la galera assomiglia a una specie di laboratorio

dei problemi del mondo contemporaneo

 

 

recensione a cura di Paolo Moresco

e Stefano Bentivogli

 

Che le partite di calcio siano momenti particolari della vita di un carcere e delle persone che vi sono recluse, in un certo senso è scontato: sia perché nella gran parte degli istituti non esistono occasioni di aggregazione spontanea altrettanto invitanti, sia perché il gioco del calcio costituisce un “valore comune” profondamente radicato, per il semplice motivo che tutti o quasi nella loro vita hanno preso a calci un pallone e tuttora si appassionano alle imprese di questa o di quella squadra. Tuttavia, in una realtà che toglie all’individuo qualsiasi responsabilità e che riduce al minimo la possibilità di esprimere la propria personalità, comprimendo le relazioni sociali sotto la pressa di rigidi regolamenti (quelli appunto delle nostre galere), la “banale” partita di calcio finisce per diventare qualcosa di veramente speciale.

Puoi capire poco o nulla di questo sport, e magari neppure seguirlo in televisione; puoi avere diciotto o sessant’anni, essere “uno di casa” oppure venire da chissà dove e parlare una lingua che nessuno capisce; puoi essere dentro per pochi mesi o doverci restare per molti anni, ma è difficile, molto difficile che la partita non tiri dentro anche te. Perfino gli agenti che sorvegliano dalle garitte, sopra il muro di cinta, il più delle volte sono talmente presi dalla partita che difficilmente si accorgerebbero di eventuali “visite dall’esterno”: anche i loro occhi sono calamitati infatti da quel nudo spiazzo di cemento o d’asfalto, raramente d’erba (in galera, come da bambini, si gioca dove si può), dove in un brulichio di maglie (e di pelli) d’ogni colore si celebra il rito sovreccitato e festoso della partita galeotta.

Di che tipo di partita si tratti, al di là e ben oltre il suo aspetto meramente giocoso e agonistico, lo spiega con la sua consueta acutezza Adriano Sofri in una lunga intervista realizzata presso la Casa circondariale di Pisa dal giornalista di Sky Sport Giorgio Porrà e ora pubblicata in un libro di semplice ma pregevole fattura, Adriano Sofri, attaccante estremo. Una partita, anzitutto, in cui il carcere - discarica nella quale la società cerca di occultare tutte le sue contraddizioni - svela la sua sorprendente quanto misconosciuta natura di avamposto, quasi di “laboratorio di ricerca” sociale e interetnica. E infatti è soprattutto sul campo di calcio che si abbattono le barriere razziali e linguistiche e che ci si trova tutti assieme, sullo stesso livello, a correre dietro allo stesso pallone.

La galera si rivela così “un posto di grandissima avanguardia”; meglio ancora, “una specie di laboratorio dei problemi del mondo contemporaneo, nel senso che la popolazione del carcere è multietnica in misura impensabile per la società esterna. Per esempio, nelle prigioni italiane, nell’arco di pochissimo tempo la maggioranza è diventata di detenuti stranieri. Tu immagina se la società fuori - che già esplode per una piccola percentuale di immigrati stranieri - si misurasse con una percentuale così ampia”.

“Di questa popolazione”, osserva ancora Sofri, “una parte ingente è costituita da marocchini, tunisini e algerini, a volte ci sono i palestinesi, insomma delle minoranze; e poi ci sono gli albanesi, gli slavi in generale. (…) Si ha, dunque, una situazione straordinaria, perché in una specie di compressione - come succede appunto nei laboratori dove fanno degli esperimenti - puoi misurare i rapporti tra queste varie nazionalità”.

Da questa premessa l’attaccante estremo Sofri (si definisce così perché, non vigendo in galera la regola del fuorigioco, nelle partitelle del carcere pisano può starsene tranquillamente ad aspettare invitanti palloni a ridosso del portiere avversario) si spinge a una considerazione che giustamente Aldo Grasso, nella sua recensione per il Corriere della Sera, ha definito “un piccolo gioiello d’analisi sociologica”. Osserva, cioè, che “la prima forma di integrazione di questi che arrivano in un paese europeo è l’adesione a un’identità calcistica che spesso precede anche l’immigrazione. Hanno visto in televisione la Juventus, l’Inter, il Milan, il Parma, la Roma e le altre squadre, le hanno viste in televisione in Albania oppure a Marrakech. Arrivano avendo già, per così dire, una specie di carta d’identità. Hanno distrutto tutte le loro carte d’identità, ma hanno queste nuove identità: sono juventini, interisti o altro”. E in questo loro tifo, spesso “molto più impegnato e devoto” di quello dei detenuti italiani, c’è “una specie di richiesta di accoglimento e di accettazione” che non può e non deve passare inosservata.

 

 

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