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Dieci
anni di Ristretti Orizzonti e dieci anni di bilancio della situazione
penitenziaria Ristretti Orizzonti non è mai stato il giornale del carcere, ma quello sul carcere e
sulla pena Un giornale che ragiona su questi temi e non subisce l’istituto che gli sta alle spalle E guardando e osservando quello che si fa e si dice fuori, non si corre il rischio di subire la deformazione del dentro di
Sandro Margara magistrato,
uno dei “padri storici” della Riforma penitenziaria, oggi
presidente della Fondazione Michelucci Parlare
di Ristretti Orizzonti mi provoca a ricordare le mie frequentazioni di
iniziative analoghe alla vostra, incontrate nella lunga strada che ho avuto
occasione di percorrere dentro e accanto al carcere. La prima risale al 1970-71,
al giornalino “Noi, gli altri”, pubblicato con mezzi assolutamente
artigianali negli istituti penitenziari di Firenze e con redazione nella scuola
elementare della Casa di reclusione fiorentina. I mezzi erano davvero scarsi,
con un austero ciclostile, ma la voglia di scrivere e di parlare era tanta. La
Riforma non era ancora arrivata, ma si aspettava in gloria. Era un periodo
particolare: la confusione in carcere era molta, ma erano molte anche le
speranze che qualcosa di nuovo, e di buono (nuovo e buono spesso non sono la
stessa cosa, come dimostra il miserabile nuovo che avanza oggi), stesse per
arrivare, con la Riforma appunto. La redazione del giornalino era molto viva ed
efficiente, era in contatto con il senatore Carlo Galante Garrone, che
raccoglieva, nelle sue visite al carcere, i vari suggerimenti che arrivavano da
più parti sul testo dell’Ordinamento penitenziario in gestazione proprio
presso la Commissione giustizia del Senato. Nella fase finale del lavoro, questa
Commissione, con molti senatori presenti, venne nella redazione del giornalino,
a Firenze, per raccogliere le ultime osservazioni prima di licenziare un testo
molto avanzato, approvato nel dicembre 1973 dal Senato. Non fu il testo
definitivo, la Camera fece molti passi indietro dinanzi agli allarmi che si
mettono a suonare sempre quando si cerca di cambiare. Le speranze si ridussero.
Comunque, la definitiva riforma del ‘75 consentì l’esperienza dei permessi
ai detenuti che molti giudici di sorveglianza cominciarono a concedere con una
certa larghezza. Altri allarmi e, in coincidenza con la stagione del terrorismo,
anche quella esperienza si concluse. Come si concluse anche quella del
giornalino “Noi, gli altri”, che aveva canalizzato le speranze del
preriforma e che si arrese alla realtà di una riforma che aveva, in parte,
tradito quelle speranze. Si era tentato, con “Noi, gli altri”, di fare
qualcosa di diverso da quello che erano i classici giornalini delle istituzioni,
istituzionalizzati anch’essi, come i loro ospiti. Molta parte era dedicata
alla registrazione di dibattiti, cui partecipavano persone della cultura
fiorentina, come l’architetto Michelucci, padre Balducci, il magistrato Meucci, Giorgio La Pira e il sindaco di Firenze Bausi e Mario
Gozzini, che si
affacciava al carcere. Venne a parlare anche Giovanni Conso. Ma i detenuti
partecipavano attivamente agli incontri e spesso questi erano fatti solo fra
detenuti e operatori. Gli incontri erano deregistrati sul giornalino, cosa che
ritrovo spesso nel vostro Ristretti Orizzonti. Devo
aggiungere che, qualche anno dopo, in occasione delle udienze della Sezione di
sorveglianza di Firenze, tenute nella Casa di Reclusione di Porto Azzurro,
conobbi da vicino “La grande promessa”, in funzione da vari anni. La
redazione organizzava e seguiva, con la televisione a circuito chiuso, gli
incontri fra i magistrati della Sezione di sorveglianza e della Procura generale
e i detenuti del carcere. Oggi, purtroppo, le pubblicazioni della “Grande
promessa” sono da tempo sospese, ma c’è uno sforzo per rilanciarla, con la
collaborazione dei poli universitari nei carceri della Toscana, che ha vari
iscritti a Porto Azzurro, diminuiti negli ultimi tempi: perché in carcere,
anche le esperienze migliori (o soprattutto quelle) sono sempre precarie. Da
allora sono passati molti anni e le pubblicazioni degli istituti si sono
moltiplicate, tanto che si è arrivati ad un vero e proprio coordinamento fra le
stesse, riunitosi in più occasioni. Molte di queste pubblicazioni riescono, con
qualche tensione talvolta, a emanciparsi da quel problema, accennato sopra,
della istituzionalizzazione. Ma
è ora che venga a parlare di Ristretti Orizzonti. Perché è questo che si deve
ricordare oggi. Dieci anni, intanto, sono già una durata significativa, specie
se passati, come li ha passati “Ristretti Orizzonti”, senza flessioni e,
anzi, in crescita. Ed è riuscito, dico subito, a liberarsi dal rischio
“istituzionalizzazione”. Non è mai stato il giornale del carcere, ma quello
sul carcere e sulla pena, che ragionava su questi temi e non subiva l’istituto
che gli stava alle spalle. Mi pare che, da subito, la redazione sia stata anche
esterna o, almeno, si è sicuramente evoluta verso questa direzione, chiamando,
in quanto possibile, a lavorare fuori anche chi si trovava dentro. Non c’è
dubbio che questo è stato merito anche di chi guidava l’istituto e che non ha
condizionato il lavoro. Ma
tutto questo nasceva proprio dalla linea che il giornale aveva assunto. Portava
avanti una riflessione su carcere e pena e, intanto, cercava di fare una cosa
piuttosto rara: informarsi e informare su quanto accadeva. Progressivamente, il
suo sito informatico, diventava la sede a cui ci si riferiva per sapere qualcosa
sui progetti di legge, sul loro sviluppo e il loro approdo, sui dati statistici,
sulle situazioni più significative del carcere, come quelle sui suicidi e, più
ampiamente sulle morti, fino alla rielaborazione di tutto questo in vere e
proprie pubblicazioni autonome. Il sito poi si allargava alle notizie quotidiane
sul carcere, attraverso una rassegna stampa, che raccoglieva tutto quello, grano
e loglio (per parlare evangelicamente), che sul carcere, sulla pena e sulla
giustizia in genere, si pubblicava giorno per giorno. Guardando e osservando
quello che si faceva e diceva fuori, non si correva il rischio di subire la
deformazione del dentro. Che non vuol dire non guardare anche alle realtà
interne. I numeri del giornale, usciti con grande continuità e la dovuta
frequenza, hanno cercato di fare conoscere da vicino le esperienze più
significative degli istituti penitenziari, spiegati di prima mano da interviste
dirette nei confronti dei protagonisti. E sovente i protagonisti venivano in
carcere e rispondevano lì alle domande della redazione e dei detenuti che
partecipavano a queste interviste collettive. Talvolta, poi, erano incontri
interni, che raccoglievano le tante voci e riflessioni che la esperienza del
carcere offriva. Il
carcere crea innocenza, trasformando anche il colpevole in vittima: e lo fa con
la sua sordità alla storia delle persone Il
campo di riflessione è diventato sempre più largo, estendendosi ad autori di
libri, magistrati o non magistrati, che avevano scritto sulla giustizia o sui
delitti o sulle pene. Mi sono trovato ad affermare, tempo fa, che il carcere
crea innocenza, trasformando anche il colpevole in vittima: e lo fa con la sua
sordità alla storia delle persone, ai loro bisogni, alle loro situazioni
personali e familiari. Non
è frequente che ci si soffermi, sulla propria storia, sul come e il perché si
è venuti in carcere. Nel preparare il nuovo regolamento di esecuzione, in un
articolo sulla osservazione, cercai di introdurre questa idea di ragionare, tra
operatori e detenuto, sulla storia di questo. Sono stato molto imprudente perché,
quando non avevo più alcuna responsabilità su quel lavoro, quell’articolo fu
rielaborato e stravolto, dando per scontato quello su cui si doveva ragionare
(cioè, il come e il perché del percorso verso il carcere) e innescando quei
temi sul risarcimento del danno, che hanno fortemente nociuto allo sviluppo e
alla efficacia delle misure alternative e non solo. Ristretti
Orizzonti, con l’importante e pieno sostegno della Casa di reclusione di
Padova, si è espresso anche nei convegni annuali, che hanno richiamato tante
persone. Ricordo quelli sul lavoro, sulla affettività, sul nuovo Codice penale,
per ognuno dei quali si cercava di arrivare a qualche conclusione utile: come
accadde per l’affettività, che produsse una proposta di legge che dava le
soluzioni dei problemi, ma che è rimasta sulla carta, come tante altre. Non ho
partecipato all’ultimo convegno, che affrontava un tema così scottante, come
quello delle vittime di reati gravi, per cercare le vie del superamento della
scia di odio che molti delitti si lasciano dietro. È un tema difficile, sul
quale ho letto anche i vari interventi sull’ultimo numero di Ristretti
Orizzonti e devo dire che, anche per avere seguito da vicino situazioni simili a
quelle su cui si è soffermato Segio, mi ritrovo nelle osservazioni che lui ha
fatto. Comunque,
come non dire che il bilancio dei primi dieci anni di Ristretti Orizzonti è
molto brillante? Lo dico e mi rallegro con tutti coloro che sono all’origine
di questo successo. Ma se dalla realtà del giornale ci si sposta alla realtà
che lo stesso giornale ci offre in modo preciso ed oggettivo, ci prende lo
sconforto che “fa tremar le vene e i polsi”. Leggo
quotidianamente la vostra rassegna stampa e devo dire che, con quella lettura,
si arricchisce la mia informazione, ma il mio umore peggiora di brutto.
Assorbono buona parte degli spazi gli sproloqui politici, nei quali si sprecano
facce feroci e muscoli su argomenti per i quali ci vorrebbe soprattutto
cervello, cosa che sembra invece superflua. Ci sono proteste di operatori che
non vanno al cuore di problemi, che, in buona parte, anche senza volere, hanno
contribuito a creare. Ci sono gli sparsi e numerosi fiori all’occhiello, più
grandi o più piccoli, di vari istituti, che fanno pensare a punture di spillo
su un ingranaggio che continua a macinare inesorabilmente il proprio carico,
sempre più pesante, della solita clientela di poveracci, che entra ed esce (ma
soprattutto entra) a ritmi sempre più frenetici. Si
vuole tornare alla concezione della pena del Codice Rocco Ecco:
se dal bilancio dei dieci anni di Ristretti Orizzonti, ci si sposta al bilancio
degli stessi dieci anni sulla situazione penitenziaria del nostro paese, le
conclusioni non possono essere che tragiche. La legge Simeone-Fassone-Saraceni,
del maggio ‘98, fu una legge giusta perché favoriva l’accesso alle misure
alternative a tutti e non solo a chi aveva un buon avvocato: si noti che i tre
autori della legge appartenevano a parti politiche dalla destra alla sinistra.
Seguì la legge per le misure alternative ai malati di AIDS, del luglio ‘99,
che riordinava e razionalizzava l’intervento in materia dopo una sentenza
costituzionale. E ancora, nel marzo 2001, la legge che prevedeva, per le
detenute madri, una detenzione domiciliare speciale. È vero che, in
contemporanea, la fine del governo di centro-sinistra, era illustrata dal
pacchetto sicurezza, anche questo del marzo 2001, espressione del nuovo che
arretra. Comunque, erano più i segni positivi che quelli negativi. Il tempo,
però, era cambiato: la legge Bossi-Fini, nel 2002, rilanciata nel 2004, lanciò
la politica di carcerazione contro gli immigrati; alla fine del 2005, la c.d.
ex-Cirielli, limitò i benefici penitenziari per i recidivi, che sono poi coloro
che affollano appunto le carceri; e infine la legge Fini-Giovanardi, nata da un
decreto legge incredibile, scelse la via della repressione nei confronti di
tutti i tossicodipendenti, quali che fossero le sostanze usate, anche le c.d.
droghe leggere. Ieri
ho letto, nel sito di Ristretti il nuovo progetto di restrizione radicale della
legge Gozzini. È facile dire che il sonno della ragione genera mostri. Si
tratta di un sonno profondo che consente di ignorare alcune circostanze
fondamentali. Come ad esempio che la Riforma penitenziaria, sia nel ‘75 che
nella versione c.d. Gozzini dell’‘86, nasceva da un lungo percorso di
attuazione della Costituzione, che aveva cambiato la nozione della pena. Tornare
indietro, con la radicalità di questo ultimo progetto, vuol dire dimenticare la
Costituzione e tornare alla concezione della pena del Codice Rocco. Si ignora
anche evidentemente che la flessibilità della pena (tradotta nel sistema delle
misure alternative) è un valore costituzionalmente protetto attraverso una
giurisprudenza costituzionale che parte dalla sentenza 204/74 e che si conferma
con le sentenze 343/87 e 282/89 e con molte altre seguenti. Che la semilibertà
all’ergastolano, che ora si vuole sopprimere, è stata inserita, con la
Gozzini, a seguito di una giurisprudenza costituzionale che censurava il
trattamento diseguale per i condannati a quella pena. Che la liberazione
anticipata, che pure si vuole sopprimere, fu indicata, nella sentenza 306/93,
come l’unica ragione per salvare le restrizioni eccezionali degli anni
dell’attacco mafioso. Che, comunque, le misure alternative e la stessa
liberazione anticipata sono previste da tutte le legislazioni europee e in
misura anche molto superiore alla nostra: se si vuole ricordare un sistema che
non manca certamente di durezza, negli Stati Uniti al record dei detenuti
(2.300.000) si affianca quello delle alternative alla detenzione (5 milioni).
Che la riduzione delle pene ammissibili alle altre misure alternative, come
l’affidamento e la detenzione domiciliare, farà si che, in ragione della
scarsa rapidità dell’intervento giudiziario, anche quelle pene minime (un
anno per l’affidamento e un anno anche per una specie della detenzione
domiciliare) saranno trascorse in buona parte in carcere. E tutto questo perché?
È noto o no che la esecuzione della pena in misura alternativa riduce la
recidiva da 3 a 4 volte rispetto alla esecuzione della pena in carcere? E che
l’andamento della criminalità, a prescindere da brevi periodi di aumento o
diminuzione, è sostanzialmente stabile e, per molti aspetti, a un livello
inferiore a quello di altri paesi simili al nostro? E sono anche chiare le
conseguenze di tutto questo. Il carcere sta crescendo al ritmo di mille persone
presenti in più al mese ed è già giunto in vista dei 55.000 detenuti. Questo
ritmo crescerà per le nuove previsioni di reato che si annunciano e crescerà
ulteriormente nel momento in cui si riducono al minimo le vie d’uscita
attraverso le misure alternative. Non c’è da chiedersi: dove andremo a
finire? Ma: dove siamo finiti? Leggo
su un giornale che all’orizzonte torna la visione delle rivolte carcerarie.
Non so se sarà questa una delle prospettive, che come l’esperienza insegna,
porta sofferenza, nella sostanza, solo ai detenuti. Ma io farei un discorso
diverso. Ciò che colpisce in questa politica è l’assoluta disinvoltura e
leggerezza con cui si interviene in una materia come il diritto penale e il
diritto penitenziario, che richiede, invece, particolare attenzione. E
soprattutto colpisce la indifferenza sulle ricadute che riguardano la vita di
tante persone, la disinvoltura con cui si dimentica quella parte della norma
costituzionale che dispone che le pene non devono consistere in trattamenti
contrari al senso di umanità. Senso di umanità: interessa l’articolo? come
diceva una battuta di un vecchio film. Ristretti
Orizzonti servirà, in questa pessima congiuntura, a tenere informati su tutte
le tappe di questa immersione nel sonno della ragione. Scrivere
allenandoci ad ascoltare gli altri Una
informazione rispettosa delle persone e delle vite altrui a
cura della Redazione Oggi
più che mai c’è da lavorare per smontare certa pessima informazione che
invade ogni giorno le case e le teste delle persone. E vorrebbe isolare e
dividere noi che stiamo “dentro” dal mondo “fuori” Dovessimo
descrivere la nostra redazione, e come è cresciuta in questi dieci anni,
basterebbe pensare a un tavolo: la redazione è stata all’inizio un tavolino
con intorno otto persone, sette detenuti e una volontaria, tante idee e nessuna
esperienza, e fin da subito delle regole ferree: niente piagnistei, niente
vittimismi, niente toni iperpolemici o troppo rivendicativi. Sì invece alle
testimonianze, al partire dalla propria storia, perché il “patrimonio” che
avevamo a disposizione erano le storie, e la vita da galera, sì a una
informazione rispettosa delle persone e delle vite altrui, cosa non da poco per
chi, come noi, per il rispetto degli altri spesso non ha avuto grande
attenzione. Dal tavolino siamo arrivati alla stanza di oggi, con un tavolo
lunghissimo e un sacco di gente intorno, e soprattutto tanta gente che si è
seduta a quel tavolo arrivando da fuori: un confronto continuo con studenti,
insegnanti, giornalisti, scrittori, magistrati, operatori sociali, e
ultimamente, forse la cosa più straordinaria, anche persone che i reati li
hanno subiti, come Olga D’Antona, la vedova del giurista ucciso dalle Brigate
Rosse. Un tavolo quindi con tanti ospiti, simbolo di un carcere davvero
“aperto”, quell’apertura che è forse l’unica cosa che può dare un
senso alla galera. In
questi primi dieci anni di vita, nella redazione del nostro giornale sono
passati centinaia di detenuti portando le loro complesse esistenze, le loro
idee, la loro sofferenza, ma anche il malessere accumulato in anni e anni di
detenzione, proprio perché siamo un po’ tutti “portatori di umanità”,
solo che a volte questi sentimenti si ritirano nel profondo della coscienza e
fanno fatica a venire fuori, con la drammatica conseguenza di incattivirci e
farci finire per odiare i nostri simili e spesso noi stessi. Succede allora che
il tavolo intorno al quale ci riuniamo per discutere i temi da trattare possa
diventare anche uno “sfogatoio” dove ogni detenuto riversa la sua rabbia e
le sue rivendicazioni, finendo a volte per prendersela non con i veri
responsabili del suo malessere o della sua condizione, quanto piuttosto con chi
non ha alcuna colpa come i volontari o gli stessi compagni di detenzione. Ma
nella maggior parte dei casi quel tavolo raccoglie voci interessanti, fa
produrre idee utili, insomma alimenta un confronto davvero profondo e
costruttivo. In
galera si sta venti ore al giorno chiusi in cella, dove possiamo “godere”
della obbligatoria compagnia di un’altra persona detenuta e della costante
presenza di un televisore acceso, e mentre i compagni di cella vanno e vengono,
il tubo catodico è sempre lì, attaccato alla parete, e ci disegna una realtà
pensata per le persone libere. Ma
come è nato allora il nostro giornale? È successo proprio che, mentre intorno
a noi c’era una società sempre più affascinata dai modelli proposti da quei
mass media che pubblicizzano solo cose da consumare, un gruppo di detenuti ha
deciso di staccare gli occhi dal televisore e guardarsi intorno. Abbiamo
cominciato a prendere coscienza della realtà in cui viviamo e ci siamo accorti
che, anche se abbiamo meritato una condanna per i reati commessi, questo non
significa che non subiamo spesso anche delle ingiustizie. Abbiamo quindi preso
coraggio, per cominciare insieme a combattere le nostre piccole battaglie di
sensibilizzazione, usando il giornale. Ristretti
Orizzonti ha bisogno di detenuti capaci di guardare la realtà con un po’ di
umanità Come
redazione di un giornale di carcere, lavoriamo spesso a smontare quelle notizie
allarmistiche sulla sicurezza che televisioni e giornali diffondono ogni giorno,
contribuendo così spesso a far eleggere politici inflessibili e governi
autoritari. Però tutto questo lavoro di “controinformazione” non significa
che i detenuti, compresi a volte quelli che frequentano la nostra redazione,
siano immuni dall’essere strumentalizzati dai mass media, anzi, non avendo la
possibilità di verificare personalmente e capire quello che succede fuori di
qui, molti di noi sono i primi a convincersi che gli unici problemi della società
di oggi sono quelli che descrivono i telegiornali. E allora si ritorna in cella
a coltivare l’odio per i Rom e per gli stranieri che vengono in Italia a
rubare, trascurando il fatto che pure noi siamo qui perché abbiamo tutti delle
responsabilità molto gravi, ma soprattutto dimenticandosi che Ristretti
Orizzonti è un giornale di dialogo e come tale non ha bisogno di detenuti che
coltivano rancori, ma di persone capaci di ragionare guardando la realtà con un
po’ di umanità e forse anche con un po’ di filosofia. Il
fatto è che il carcere ci abitua a coltivare dentro di noi scontentezza, e
questo ci fa vivere male, mentre se vogliamo migliorare la nostra vita, abbiamo
bisogno di svelenirci e qualche volta anche di sorridere. Ma come si fa a
trovare un po’ di equilibrio, e magari di ironia, in un posto per definizione
infelice come è il carcere? Un modo è stato, in questi anni, proprio scrivere
allenandoci all’ascolto degli altri, alla riflessione, al dialogo, e fare così
questo giornale, che oggi si ritrova però a dover fare i conti con una società
molto più intollerante, e con detenuti con una rabbia crescente. Invece dieci
anni fa era tutto un po’ diverso. Sfogliando
i primi numeri di Ristretti Siamo
andati a sfogliare alcuni dei primi numeri di Ristretti Orizzonti, riscoprendo
quello che era lo spirito di questa iniziativa mentre compiva i suoi primi
passi: “inventarsi” un giornale fatto di storie vere, raccontate con
immediatezza, evitando di cadere in inutili lamenti e astenendosi dall’usare
un linguaggio burocratico e dal fare retorica. Già
agli inizi il giornale mostra un suo “carattere” preciso: nessun tema è
“tabù”, bisogna avere il coraggio di affrontare anche argomenti
particolarmente spinosi. Come quello della sessualità negata. L’Italia è uno
degli ultimi paesi in cui non è permesso incontrare i propri cari in spazi
privati dove intrattenere relazioni intime con il coniuge o il convivente. “E
come potrebbero bastare le occhiate furtive, quelle poche carezze date su una
mano, rubate durante i colloqui fatti, nella maggior parte dei casi, tra nugoli
di altri detenuti e loro famigliari?”, si domanda uno dei detenuti fondatori
del giornale in uno dei primi numeri di Ristretti. Dieci anni dopo, siamo ancora
fermi lì, inchiodati a quelle sei ore di colloquio mensili sotto gli occhi
vigili di un agente e in mezzo a una umanità abbastanza infelice, fatta di
bambini inconsapevoli, di mogli deluse, di genitori stanchi. E
di una legge che consenta i colloqui intimi nessuno si azzarda più neppure a
parlare. Il
lavoro è sempre poco, la salute aspetta… “Sani
– dentro” è una rubrica dedicata al problema della salute in carcere, che
nel primo numero viene inaugurata da Francesco, che diventerà da subito una
colonna portante del giornale e che a tutt’oggi continua a lavorare con lo
stesso interesse di dieci anni fa. Dieci
anni è l’età del nostro giornale, ma più o meno anche il tempo che ci è
voluto per il passaggio della sanità penitenziaria dal Ministero della
Giustizia al Sistema Sanitario Nazionale. Quindi, invece di ritrovarci oggi con
una riforma completata, e le persone detenute trattate, almeno per la loro
salute, come qualsiasi cittadino libero, siamo ancora in mezzo al guado, in una
situazione in cui il vecchio sistema è cessato e ci vorrà attenzione per
controllare che con il nuovo sia messa al primo posto davvero la salute, più
che la sicurezza. “Attualmente
il lavoro in carcere si riduce a semplici mansioni domestiche, cucina, pulizia
corridoi e inoltre ci sono gli spesini, i barbieri e qualche muratore. I posti
sono pochi, tanto che per mansioni tipo portavitto lavorano in un anno 6 persone
a rotazione, quindi quando gli va bene lavorano in tutto due mesi all’anno”,
scriveva allora, nella rubrica “Prospettiva lavoro”, Nicola, un’altra
persona fedele a Ristretti che oggi, dopo trent’anni di galera, ha finito la
pena e si occupa, tra l’altro, ancora di lavoro per i detenuti, solo che lo fa
da fuori, cercando opportunità lavorative per chi è vicino alla scarcerazione.
E le difficoltà, in questo momento, forse sono ancora di più che allora, ai
nostri inizi: perché è il clima che è cambiato, è la diffidenza che cresce
nella società, e c’è sempre meno voglia di investire sul cambiamento delle
persone che hanno sbagliato pesantemente nella loro vita, ma che vorrebbero
davvero voltare pagina. Stranieri
detenuti e la perdita progressiva di un futuro La
redazione, per composizione di detenuti, rappresentava anche allora la pluralità
etnica e culturale che esiste nel carcere di Padova come in ogni carcere, quindi
è stato quasi un passaggio obbligato creare una rubrica chiamata “SOS
Immigrati” per dar voce a chi viene da lontano. “Il più difficile non è
emigrare ma lasciare dietro di sé tutto, famiglia e amici, moglie o
fidanzata”, dice Nabil che è l’iniziatore di una lunga catena di racconti
di immigrati, purtroppo da allora sempre più presenti nelle carceri italiane,
dove arrivano dopo essere passati spesso dai dormitori comunali, dai cantieri di
lavoro sommerso, da situazioni di degrado e povertà. Rileggiamo
a voce alta uno dei primi editoriali di Ornella, che spiega come tanti “liberi
cittadini” hanno una strana convinzione: pensano che il nostro sia un paese
“lassista”, che le pene siano leggere, che gli extracomunitari entrino e poi
escano quasi subito dal carcere, che i tossicodipendenti in carcere ci stiano
poco e quasi per sbaglio. E quindi segue una promessa collettiva di scrivere
senza tanti peli sulla lingua per spiegare che non è così, che il nostro non
è affatto un sistema “tenero”, che qui i poveracci, la galera se la fanno
eccome. Quelle di allora sono le stesse campagne di stampa che ci ossessionano
in questi giorni, solo che sono passati “dieci anni e un indulto”, e oggi se
ne vedono gli effetti “corrosivi” nella società: nessuno infatti è più
disponibile a dare una “seconda possibilità” agli stranieri che hanno
commesso reati, e che si ritrovano così a fare un difficile percorso di
reinserimento, per poi non essere reinseriti da nessuna parte, né qui nel
nostro Paese, né nel loro, dove ormai sono dei perfetti estranei. Proseguiamo
questo viaggio all’indietro prendendo in mano un numero dedicato appunto
interamente agli stranieri, dove si cerca di spiegare che il fenomeno
dell’aumento degli immigrati in carcere non è solo conseguenza del fatto che
le attività illegali sono praticate con maggiore frequenza da loro, ma che
molti finiscono dentro anche a causa di una condizione personale di svantaggio
sociale, che non trova nella società italiana una risposta adeguata, il che ci
fa riflettere su quella “illegalità diffusa” tutta italiana che spesso si
traduce, per gli stranieri, in offerte di lavoro esclusivamente in nero e case
in affitto a prezzi stratosferici. Anche
allora, senza temere di essere accusati di vittimismo, gli stranieri della
nostra redazione hanno scritto degli articoli per denunciare l’esistenza della
discriminazione perfino in carcere, come quella sottile disparità creata da
alcune leggi che prevedono sì gli stessi benefici per tutti, però a patto di
possedere determinati requisiti che gli stranieri non hanno quasi mai: per
ottenere gli arresti domiciliari ci vuole infatti una casa decente, per avere
una riduzione della condanna bisogna risarcire il danno causato, per essere
ammessi alla semilibertà serve un lavoro credibile. Ed ecco allora che gli
articoli che occupano le prime pagine di Ristretti sono firmati Josep, Imed,
Nabil, Arjan, Ahmet, Tarad, Marianne, Svetlana e parlano di problemi, che a
distanza di dieci anni non solo non sono stati risolti, ma anzi si sono
pesantemente aggravati, dopo che la legge Bossi-Fini ha messo una pietra sopra
ogni speranza di rifarsi una vita dopo la galera, costringendo tanti ragazzi
stranieri detenuti a vivere senza un futuro. Il
numero più doloroso Riprendiamo
a sfogliare un numero del 1999. L’argomento è la tossicodipendenza. Chi
conosce il carcere sa che rispetto ai tossicodipendenti questo posto
contribuisce solo a rendere ancora più pesante la loro emarginazione,
agevolando spesso quella strada verso l’autodistruzione, che a volte porta
anche alla morte. È quindi stato sempre per noi fondamentale affrontare in modo
approfondito la questione droghe e quello che il carcere fa per il recupero
delle persone con problemi di dipendenza, e lo abbiamo fatto nel corso degli
anni fino a quando ci siamo ritrovati a scrivere il numero più doloroso, quello
dedicato a Stefano Bentivogli, una persona che oggi non c’è più, ma che ha
arricchito per anni il nostro giornale con la sua rara sensibilità e umanità,
scrivendo articoli che toccavano un po’ tutti i problemi delle persone più
emarginate: stranieri, tossicodipendenti, malati mentali. Questo istintivo
collegamento che ormai facciamo con Stefano quando parliamo di carcere e
tossicodipendenza è dovuto sicuramente anche alla gratitudine che proviamo
verso una persona che ci ha aperto gli occhi su quanto dolore c’è nel vivere
in condizioni di dipendenza. E
anche su questa questione siamo costretti a riconoscere che sta diventando tutto
più difficile, e che troverà sempre meno risposte l’appello disperato di
Stefano “Per pietà, legalizzatela”, che toccava il tema delicato della
legalizzazione delle sostanze e della necessità di una attenzione diversa a
questi problemi, meno moralistica e più rispettosa della sofferenza e della
solitudine di tante persone che proprio non ce la fanno a uscire dalla
tossicodipendenza, ma che noi non vogliamo dare per perse. La
politica, il carcere e la sensazione che le cose possono solo peggiorare Cosa
pensano i politici del carcere? In passato ci lamentavamo dell’indifferenza
del mondo politico nei confronti di noi detenuti, oggi invece i politici ci
dedicano sin troppa attenzione e costruiscono le loro campagne elettorali e i
loro programmi promettendo di cambiare le nostre condizioni di vita in galera:
buttando via la chiave però. Tuttavia è curioso rileggere in un vecchio numero
il racconto di un incontro della nostra redazione con l’onorevole Franco
Corleone, allora Sottosegretario alla Giustizia con delega alle carceri, che
spiegava cosa ci si aspettava a quei tempi dal governo: la depenalizzazione dei
reati minori (per i quali dovevano essere previste sanzioni alternative al
carcere), ma anche il disegno di legge sull’abolizione dell’ergastolo (che
pareva essere in fase di avanzata discussione in Parlamento), e poi una
sperimentazione di spazi, nei quali noi detenuti avremmo potuto avere incontri
con i nostri familiari senza essere sorvegliati visivamente, esercitando così
il nostro diritto a “salvare” la nostra vita affettiva. Leggiamo e proviamo
abbastanza nostalgia ricordando il clima di “comprensione” verso alcuni
problemi importanti che c’era allora, e come ci rallegravano le promesse di
portare a termine alcune riforme del sistema penitenziario italiano. Oggi
invece, nonostante alcune cose siano state fatte, come la legge Smuraglia sugli
sgravi contributivi per favorire il lavoro carcerario, e il nuovo Regolamento di
esecuzione dell’Ordinamento penitenziario, ancora però ben lontano
dall’essere davvero applicato, sappiamo che viviamo in tempi in cui non c’è
più nessuna speranza che le cose migliorino (ci sono leggi che sembra non
riusciranno mai ad essere approvate, come l’abolizione dell’ergastolo), ma
che anzi abbiamo la certezza che possono solo peggiorare. L’assalto alla legge
Gozzini è già nell’aria, anzi è già scritto nero su bianco, in un disegno
di legge di cui purtroppo dovremo prossimamente occuparci. L’onestà
dell’informazione ce la stiamo faticosamente conquistando qui in galera Oggi
la maggior parte dei giornali e le televisioni pensano solo a soddisfare i veri
clienti, che non sono i lettori, ma quelli che pagano per mettere la propria
pubblicità e vendere i propri prodotti. Noi invece non siamo qui per vendere
niente ai nostri lettori, lasciamo alle testate commerciali il peso di cercare
le notizie tragiche e usare il dolore delle persone per vendere di più. La
nostra sfida invece è stata fin dall’inizio quella di fare un giornalismo
sobrio e rispettoso della dignità delle persone, un po’ un paradosso, se si
pensa che siamo tutti dilettanti, e per giunta delinquenti, e quindi la sobrietà
e l’onestà ce le stiamo faticosamente conquistando qui in galera, proprio
adesso che nella società “libera” non sembrano più tanto di moda. La
nostra è comunque un’attività tutta di volontariato, perché cominciare a
fare qualcosa senza pensare al guadagno crediamo sia un buon inizio per chi si
è rovinato la vita e ha distrutto altre vite per il denaro. È
comunque con un senso anche di felicità che continuiamo a sfogliare insieme i
primi numeri di Ristretti, forse perché, rendendoci conto di vivere in un
momento in cui non c’è niente di cui essere felici, cerchiamo di trovare il
coraggio per andare avanti guardando quanta strada abbiamo fatto, una strada di
miglioramento intellettuale e di crescita culturale per tutti noi. E ci basta
l’esistenza di questo giornale per continuare con ancora più determinazione a
fare un lavoro paziente di controinformazione, perché oggi più che mai c’è
da lavorare per smontare certa pessima informazione che invade ogni giorno le
case e le teste delle persone. Tuttavia,
il senso di gratitudine che proviamo nei confronti dei volontari e di tutti quei
detenuti che hanno fondato il giornale, ci hanno creduto e hanno dato il loro
contributo in questi anni, non può non incrinarsi per la tristezza che proviamo
a vedere il clima di odio e di intolleranza che sta crescendo oggi in Italia, i
cui echi si sentono anche qui in carcere sempre più forti. Ritorniamo quindi a
domandarci se si può in qualche modo far ragionare quelle persone oneste, ma
incattivite da una vita sempre più dura, da una informazione mediocre, da una
convivenza sempre più difficile tra italiani e immigrati, sul fatto che non
siamo noi detenuti i loro nemici, e non sono gli stranieri la principale causa
del loro malessere. Quello
che possiamo per lo meno fare è rivolger loro un invito a riflettere insieme,
come succede nel nostro progetto con le scuole, in cui coinvolgiamo centinaia di
studenti, insegnanti, genitori in un confronto acceso, ma sempre civile, sui
temi della legalità, del carcere, delle pene, del reinserimento, convinti che a
distanza di dieci anni dalla nascita del nostro giornale debba essere questa la
sfida più grande, uscire dall’imbarbarimento in cui ci vogliono lasciare.
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