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Una
donna dalla redazione interna alla redazione esterna di Ristretti Ho
imparato a essere più “prudente” nella gestione della mia libertà L’aver partecipato alle discussioni di redazione mi ha dato la possibilità di confrontarmi con il mondo esterno, con la realtà vera, non quella deformata che
si vive da “ristretti”
di Paola Marchetti Nel
2002, “internata” ad Aichach, a 10 chilometri da Dachau, tenevo un minimo di
corrispondenza con il mio avvocato italiano, che, vista la mia nostalgia per la
lingua italiana – non c’erano più libri in italiano in biblioteca, e
l’unica rivista che ogni tanto arrivava era Famiglia Cristiana – fece in
modo che mi fossero spediti i numeri di Ristretti Orizzonti. Farseli
consegnare e riuscire così a leggerli era però una missione impossibile. Nelle
carceri della Baviera infatti è tutto molto burocratizzato, e più di un numero
di Ristretti mi è “passato sotto il naso” senza poterlo leggere. Infatti mi
facevano vedere la busta quando consegnavano la posta, mi dicevano che non ero
autorizzata a ricevere riviste, e me lo ritiravano per metterlo nel magazzino
insieme al resto della mia roba che non si poteva tenere in cella. Ho avuto la
fortuna di vedermi consegnati e di leggere uno o due numeri, perché nei giorni
in cui questi due numeri “fortunati” sono arrivati, c’era una capo-sezione
più “umana” delle altre. Oltretutto, in quel carcere, non usciva né
entrava nulla che non fosse prima letto e, se se ne riteneva il caso, censurato.
La posta infatti si spediva aperta e si riceveva altrettanto aperta, e questo
anche perché non volevano che uscissero notizie su quello che succedeva dentro.
Come
in tutte le situazioni di stasi, in cui sai di non poter fare nulla, aspettavo
con trepidazione il momento in cui sarei potuta tornare in Italia (in carcere) e
avevo un mondo di progetti in testa sulle cose da fare. Uno di questi era di
scrivere per Ristretti su come si viveva in carcere in Baviera, senza né sapere
che sarei poi finita alla Giudecca, dove c’è ancora una piccola redazione di
Ristretti, né che Ornella stava “macchinando” per fare un libro sulle donne
in carcere: quello che poi sarebbe diventato “Donne in Sospeso”. Insomma, la
fortuna ha voluto che questi miei progetti andassero in porto. Appena arrivata a
Venezia ho iniziato a prender parte alle riunioni di redazione, che all’inizio
della mia partecipazione (agosto 2003) erano affollate e che poi, pian piano, si
sono fatte più “ristrette”. Del
resto la Giudecca è un carcere “piccolo” rispetto a carceri maschili come
quello di Padova (le donne sono in Italia il 4 per cento della popolazione
carceraria!), molte donne sono straniere con gradi di scolarità piuttosto bassi
e poco interessate a discutere di argomenti che non fossero strettamente legati
al “personale” o alla propria situazione giudiziaria. Inoltre è anche vero
che molte delle detenute della Giudecca hanno pene relativamente brevi, che
quasi tutte lavorano, che molte vanno anche a scuola, per cui il tempo che resta
a disposizione, se non si è fortemente motivati, viene impiegato in altro modo.
Credo
di non aver saltato neppure una “riunione”, a parte quelle rarissime volte
che ero in permesso a casa, in quattro anni di frequentazione della redazione.
Quando poi mi hanno concesso il lavoro esterno con l’articolo 21 ho fatto
richiesta alla Direttrice per poter continuare ad andare in redazione nella
riunione settimanale. Grazie al permesso della direzione, al fatto che il mio
giorno di riposo dal lavoro era proprio il sabato, giorno in cui si era deciso
di trovarci per motivi legati al lavoro sia nostro che di Ornella, ho continuato
a partecipare alle riunioni anche se a volte avrei preferito spendere l’unico
giorno di riposo… riposando. Il
carcere non è un’esperienza che ti scivola via facilmente Oggi
continuo a frequentare, se non la redazione interna, quel luogo strano e
complicato che è la redazione esterna, dove lavoro con un contratto a progetto.
Anche questa è una scelta che può sembrare strana, visto che lavoravo in un
bel posto, dove mi trovavo bene con i colleghi, con i datori di lavoro e con i
clienti e soprattutto con un contratto a tempo indeterminato. La scelta è
dovuta a una serie di motivi che sono legati a quello che penso sia un percorso
giusto per me. Il carcere non è un’esperienza che ti scivola via. Del resto
nessuna esperienza di vita passa senza conseguenze, figuriamoci un’esperienza
totalizzante come quella della detenzione. Far conoscere all’esterno come noi
“criminali” siamo esseri umani, abbiamo sembianze umane, abbiamo gli stessi
sentimenti, gli stessi bisogni, la stessa dignità di quelli che in carcere non
sono finiti, era una cosa che sentivo andava fatta. Poi c’è il fatto che la
libertà, dopo anni di detenzione, è uno shock, fa paura, non si sa come
gestirla. Il lavorare in un ambiente dove ci sono persone che hanno ancora anni
di condanna da scontare, che ti “ricordano” con la loro presenza di quanto
brutta sia stata l’esperienza fatta (l’essere umano tende a rimuovere le
sofferenze!), ti fa essere più “prudente” nella gestione della tua libertà,
te la fa apprezzare per tutte quelle cose che si danno normalmente per scontate
e che invece, se confrontate con la realtà di quelli che non le possono godere,
ti mantengono alta la capacità di apprezzare proprio ogni piccola cosa. L’occuparsi
di argomenti e persone che sono in situazioni più “sfortunate” della mia mi
fanno rendere conto che a volte bisognerebbe pensarla come mio nonno (quando hai
la salute…), accontentarsi un po’ di più e non cercare l’impossibile,
perché la ricerca dell’impossibile porta a fare cose di cui ci si può
pentire amaramente. Testimoniare,
poi, nelle scuole raccontando la mia storia, con il progetto “Il carcere entra
a scuola. Le scuole entrano in carcere” è stata un’esperienza devastante e
allo stesso tempo rigenerante, che ha avuto l’insperata conseguenza di
“risolvere” alcuni dilemmi interiori che mi trascinavo da anni. Ma più di tutto, l’aver partecipato, negli
anni di detenzione in Italia, alle discussioni di redazione mi ha dato la
possibilità di confrontarmi con il mondo esterno, con la realtà vera, non
quella deformata che si vive da “ristretti”, mi ha tenuto con i piedi per
terra, mi ha fatto vedere le cose da diversi punti di vista. È proprio
attraverso questo percorso che non sono caduta nell’atteggiamento vittimistico
ricorrente tra i carcerati per cui “siamo tutti vergini e innocenti”. Non
siamo le giustiziere della società Imparare
il rispetto di sé e degli altri In carcere, sono in tante a pensare che Annamaria Franzoni va solo rispettata e
aiutata, e non ancora giudicata a
cura della Redazione della Giudecca Le
donne, si sa, in carcere sono poche, meno del 5 per cento della popolazione
detenuta, e poi alla Giudecca per fortuna lavorano quasi tutte, e hanno pene di
solito non lunghissime, quindi far funzionare, il sabato, la redazione di
Ristretti Orizzonti non è mai stato facile, ma non importa se ci troviamo in
due o in sei o in otto, importa che, come dice Cristina, “il giornale è uno
strumento fondamentale per capire tante cose. Cose a cui prima neppure pensavo,
come l’idea della responsabilità, che mi è diventata decisamente più nitida
e precisa quando ho letto l’intervista a Olga D’Antona. E poi per me
Ristretti è importante perché posso spedirlo a mia madre e alle persone che mi
conoscono, che così si sentono più vicine a me, e possono saperne di più
della nostra condizione, dei nostri problemi, della nostra vita”. E poi
Ristetti serve anche a parlare di temi difficili, faticosi, a mettere in
discussione certi insopportabili luoghi comuni. Come quello che le detenute non
vogliono in cella con loro donne che hanno maltrattato o ucciso bambini. Qualcuno
ha detto che Annamaria Franzoni è stata accolta con insulti nel carcere di
Bologna. Può darsi che sia vero, perché questa idea che i detenuti debbano
minacciare e pestare gli autori di violenze contro donne e bambini è ben
radicata nella società, anzi spesso c’è qualcuno che vorrebbe delegare ai
detenuti il “lavoro sporco” di punire ulteriormente chi ha fatto del male a
persone ritenute più indifese di altre. Ma in carcere non è dappertutto così,
per fortuna, anche perché una persona che è in galera conosce la sofferenza
sulla sua pelle, e allora come può gridare ingiurie contro una donna, già
travolta dal trauma dell’impatto con la realtà della detenzione, e pensare
che la condanna che ha ricevuto non sia abbastanza? Alla
Giudecca ne abbiamo parlato molto, anche perché dicono che Anna Maria Franzoni
verrà mandata qui. Ci hanno pensato, allora, Natasha e Sara a dire parole
sensate su questa vicenda, superando quelle divisioni e quelle invidie, che
tante volte sono alimentate proprio dai giornali e dalle televisioni. un carcere duro, dove le donne sono tutte
incattivite di Sara Io
non giudico le persone. E non so se è stata la signora Franzoni a uccidere suo
figlio. E poi, che sia stata o no lei, a me alla fine non interessa. Intanto lei
adesso pagherà con il carcere, e sedici anni non sono pochi. E pagherà
probabilmente facendosi gran parte di quegli anni di galera. E
poi, per quello che mi riguarda, anche se viene domani in questo carcere, non ho
problemi con lei. Se mi saluterà la saluterò, se mi rivolgerà delle domande,
se chiederà delle informazioni su come funzionano le cose qui, le darò tutte
le risposte che sono in grado di darle. Io
ho sentito le discussioni che facevano alcune donne, dicendo che lei non merita
niente perché ha ammazzato suo figlio, e che poi per fare la furba ha fatto un
altro figlio. Qualcuna aggiunge anche che lei non dovrebbe venire qui, perché
qui “si sta bene” e lei non merita un carcere come questo di Venezia. La
realtà è che questo carcere è tranquillo, ci vengono date molte opportunità,
c’è lavoro per tutte, e noi ci comportiamo bene, non facciamo male a nessuno,
qui non c’è grande cattiveria e ognuna pensa ai suoi, di problemi. Ci sono
però anche donne che brontolano perché sanno che qui nessuno le farebbe
davvero del male, e non vogliono che venga qui e che possa stare in un carcere
umano, ma vogliono che vada in uno di quei carceri duri, dove le donne sono
tutte incattivite e pronte a minacciarla, e in questo modo la possono far
soffrire ancora di più. Mentre io credo che la dovrebbero portare proprio qui,
perché lei non deve fare pochi mesi ma tanti anni, e allora è giusto che venga
messa in un carcere decente. Io
poi vorrei ricordare che ci sono detenute che hanno fatto cose anche peggiori di
quello che ha fatto lei, ci sono donne che hanno partorito e ucciso il neonato
perché non volevano più un altro figlio. Io credo che nessuna possa
permettersi di parlar male della Franzoni o di dire che non vuole la Franzoni in
cella. Secondo me, dobbiamo stare zitte e ascoltare in silenzio. Noi ci troviamo
qui perché qualcosa di male lo abbiamo fatto, e allora nessuna di noi dovrebbe
giudicare le altre. Sarò
io per prima a difenderla di Natasha Per
me è una cosa schifosa il modo in cui dicono che hanno trattato la madre di
Cogne. Adesso che lei è stata condannata, tutti a insultarla. Non capisco.
Siamo in galera perché tutti abbiamo combinato qualcosa, chi più e chi meno, e
secondo me non è giusto che una persona venga trattata in questo modo. Lei ha
già preso la sua condanna, e soprattutto noi detenute dobbiamo dire che la
condanna può bastare, che non serve un’altra punizione. Qui si confondono
pure i ruoli. Noi siamo detenuti e non possiamo fare anche il lavoro dei
giudici. Io non dico di non esprimere la propria opinione, tutti hanno diritto
ad esprimere una opinione, ma non è giusto essere noi a emettere sentenze. D’altro
canto io credo che una grande responsabilità è anche dei media che, per certi
versi, hanno fatto di lei la madre più odiata d’Italia. Sono più di sei anni
che la seguono da tutte le parti, e poi ci fanno vedere i dettagli delle
indagini, e ancora tutte le udienze del processo. Ed è anche colpa sua, che un
po’ si è prestata a questo show televisivo. Ma può essere che sia anche
innocente, e qui vorrei stare attenta a non giudicare, anche perché il modo di
proclamare la sua innocenza è stato molto strumentalizzato dai media. E adesso
è ovvio che in carcere ci siano anche detenuti che minacciano di farle del
male. Io,
se lei verrà qui, andrò a trovarla nella sua cella e cercherò di metterla a
suo agio, le starò vicina perché è una persona come tutte noi. E come noi
pagherà con la galera, e se è colpevole si porterà con sé il peso di quello
che ha fatto per il resto della sua vita. Anche se credo che lei pensi di essere
innocente, e che se ha ucciso ormai ha rimosso tutto dalla sua mente e si è
convinta di non averlo fatto. Poi
anche i giornalisti, non si capisce cosa vogliono di preciso. Nei loro articoli,
da una parte raccontano il suo ingresso in carcere descrivendola come una povera
madre strappata ai figli piccoli, poi dall’altra parte parlano di lei come di
una madre assassina che ha fatto questo e fatto quello al piccolo Samuele.
Quindi qui dentro, dove c’è tanta ignoranza, i detenuti non sanno cosa fare,
e allora per tagliar corto cominciano con l’odiarla. Ma se lei viene qui e
qualcuno le grida contro, sarò io per prima a difenderla. Lo giuro. E questo lo dico anche a quei giornalisti che
si sono messi in televisione a fare i conti su quando la Franzoni uscirà dal
carcere. Una ignoranza, la loro, davvero inaccettabile. Ma come fanno a dire con
assoluta certezza che uscirà fra tre o quattro anni? Lei potrà andare in
permesso premio a metà pena, se però il giudice glielo concederà, e poi
uscire un giorno in permesso premio non significa uscire del tutto dal carcere.
E la cosa più incredibile è che anche qui dentro molte detenute credono che
lei uscirà in tempi brevi e vivono tutto questo come un’ingiustizia, perché
loro la galera se la stanno facendo fino in fondo.
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