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Una
educatrice che ha “visto nascere” Ristretti Raccontare
il
carcere più che parlare del carcere Un
giornale che ha cercato da subito di raccontare storie di persone, con la voglia
che gli altri, prima di giudicare, cerchino di capire. Ma anche un giornale che
arricchisce il mio lavoro di educatore, portandomi a riflettere spesso sul senso
del mio agire come operatore sociale
di
Lorena Orazi responsabile
dell’Area pedagogica della
Casa di reclusione di Padova 1998,
esce il primo numero della rivista Ristretti Orizzonti prodotta interamente da
una redazione composta da persone detenute nella Casa di reclusione e da alcuni
volontari. Il titolo dell’editoriale era Cercando lettori “dentro” e
“fuori” ed esprimeva l’ambizione di voler raccontare il carcere più che
parlare del carcere. Raccontare storie di persone, con la voglia che gli altri,
prima di giudicare, cerchino di capire. E di storie ne sono state raccontate
tante. Sfogliando i numeri della rivista che conservo come una collezione
preziosa rileggo i nomi di persone che per me sono sempre volti, corpi, ricordi,
frammenti di vita. Storie che mi fanno tornare alla mente percorsi alcuni finiti
chissà dove e come, alcuni finiti e basta, altri che ancora oggi sono in corso.
Raccontare
il carcere senza eccedere nel vittimismo o nel tecnicismo, curare la qualità
della scrittura, privilegiare l’ironia erano e sono le “parole d’ordine”
di questa rivista, che nel corso degli anni ha saputo mantenere alto il livello
della riflessione sia su temi più di matrice “carceraria” sia sul tema dei
diritti dei detenuti e su temi che attraversano la società come
l’immigrazione, il senso della pena, i rapporti affettivi, le vittime dei
reati. Di questi temi i detenuti della redazione hanno parlato, discusso,
dibattuto; su questi temi i detenuti hanno cercato il confronto, anche
difficile, con persone che hanno portato punti di vista non sempre comodi da
accettare; su questi temi i detenuti hanno scritto tenendo conto dei diversi
punti di vista. L’attività
di approfondimento e ricerca, unita al vissuto che ognuno di loro ha raccontato,
fa sì che il materiale prodotto non sia mai banale ma frutto di una buona
“digestione” tra pensieri e sentimenti, capace di alimentare una crescita
personale importante. Nella
redazione, composta da venti/venticinque detenuti, sono passate tante persone
nel tempo e tutti hanno potuto sperimentare questa crescita e farne tesoro. La
continuità del gruppo è garantita da una costante formazione realizzata sia
dalle persone che da più tempo ne fanno parte, sia attraverso contributi
esterni quali ad esempio corsi di scrittura giornalistica, autobiografica, corsi
di computer e grafica. Altrettanto importante è l’apporto che viene dagli
interventi di persone della comunità esterna che a vario titolo, da scrittori,
a giornalisti, magistrati, medici, operatori del settore no profit, esponenti
politici, operatori penitenziari, docenti universitari, possono essere
interessanti per i filoni di discussione che si sviluppano all’interno della
redazione. Il
merito di coltivare questo fermento vitale, che si può cogliere in molte delle
accese discussioni di redazione, è di Ornella Favero, responsabile della
redazione e degli altri assistenti volontari che con lei hanno collaborato e
collaborano quotidianamente. A loro, personalmente, dedico un sincero
ringraziamento perché il loro lavoro arricchisce anche il mio lavoro di
educatore, perché il nostro reciproco operare mi porta a riflettere spesso sul
senso del mio agire come operatore sociale. Una
rivista indipendente dalla direzione dell’istituto Mi
piace sottolineare i differenti piani che la rivista ha sempre curato nelle sue
edizioni:
Su
tali argomenti i detenuti e i volontari della redazione di Ristretti Orizzonti
hanno posto tante domande a diversi interlocutori e, a partire dalle loro
risposte, hanno potuto ragionare e pensare e fare anche delle proposte. Ne è un
esempio la proposta di modifica delle norme sui colloqui con i familiari per
consentire la possibilità di coltivare un’affettività meno “ristretta”. Mi
sembra anche importante sottolineare l’indipendenza della rivista dalla
direzione dell’istituto che la ospita. Infatti, fin dalla sua nascita,
interesse comune di chi l’avrebbe coordinata e del Direttore della Casa di
reclusione di quel momento, il dr. Carmelo Cantone, è stato di tenere distinti
i due livelli: da un lato la rivista avrebbe avuto un suo direttore
responsabile, avrebbe avuto la sua iscrizione al Tribunale e non sarebbe stata
sottoposta ad alcun “visto” dell’amministrazione penitenziaria;
dall’altro lato la redazione della rivista si impegnava a fare
“informazione” informata, a documentarsi, a verificare le fonti di ciò che
avrebbe pubblicato. Questa
scelta iniziale è stata sicuramente vincente perché ha consentito alla rivista
di crescere in termini di autorevolezza e di credibilità del materiale
prodotto, non solo nei confronti dell’istituto che la ospita, ma della comunità
esterna, come credo dimostri ampiamente la ricchezza del sito internet
www.ristretti.it e il numero dei suoi visitatori. Per
ultimo, ma non per importanza, vorrei ricordare tutti i detenuti, ristretti o
meno, che con i loro contributi hanno dato e danno linfa vitale a questa
rivista. Nel rinnovare i complimenti per il lavoro fatto finora, auguro a tutti
coloro che hanno interesse a proseguire in questa attività di poterlo fare nel
migliore dei modi. Una
volontaria che fa da tramite tra la redazione e la trasmissione “Ristretti
Radio” La
stanza delle possibilità Nel lavoro di redazione, ho potuto riscoprire il valore di ogni parola, l’importanza dell’ascolto con l’anima sgombra di pregiudizi e di superbia, l’insostituibile ricchezza del lavoro di gruppo di
Lucia Faggion conduttrice
della trasmissione “Ristretti Radio” su
Radio Cooperativa e volontaria della redazione Ho sempre detestato i numeri, la loro arida astrattezza e assoluta incapacità di cogliere le infinite sfumature e le complessità di ogni esperienza umana. Eppure sono stati propri i numeri (il livello di sovraffollamento, l’elevato tasso di suicidi, l’altissima percentuale di recidiva in mancanza di misure alternative) precisati in una conferenza sul carcere cui ho partecipato poco più di tre anni fa, a spingermi inizialmente ad agire. Ho sentito un senso fortissimo di responsabilità, decidendo all’istante che erano cifre che non potevano essere taciute e che dovevo assolutamente diffonderne la conoscenza attraverso la radio in cui, come volontaria, lavoravo da diverso tempo. Ho
scoperto poi che a Radio Cooperativa, un programma sul carcere esisteva. A
condurlo era Francesco, un detenuto che in quel momento per gravi motivi di
salute era in sospensione di pena. Mi è stato proposto di affiancarlo, ho
accettato. Devo moltissimo a Francesco, è stato il primo Virgilio che con
grande intelligenza e generosità ha saputo accompagnarmi nei gironi di una
realtà di cui non conoscevo assolutamente nulla, incoraggiandomi, e con il suo
esempio insegnandomi a non avere fretta, ad essere umile e prudente. La sua lucidità nel rispondere ad ogni domanda degli ascoltatori, la sua capacità di tenere comunque la testa alta di fronte alle provocazioni e alle offese che inevitabilmente giungevano, sono state una risorsa unica e preziosa. Dopo un anno, per Francesco non è stato più possibile condurre il programma e così, senza la sua guida, mi sono ritrovata sola e spaesata. Non nego che ho avuto la tentazione fortissima di rinunciare: per quanto continuassi ad acquistare libri e a leggere tutto quanto potevo trovare sul carcere, ero consapevole che nulla poteva sostituire la conoscenza diretta della galera. Mi sono così decisa ad
entrare in carcere e la mia prima volta è stata in occasione della conferenza
che la redazione di Ristretti aveva, come ormai consuetudine, organizzato
l’anno scorso. Il titolo era “Persone, non reati che camminano”. Non sono
state le sbarre ovunque, i rumori, gli odori, l’atmosfera opprimente, a
colpirmi, ma le persone e i loro atteggiamenti: la tranquilla attenzione degli
ospiti (in molti si muovevano con grande disinvoltura in un ambiente così
insolito per me!), la passione dei relatori, l’assoluta concentrazione di
Ornella, che con un solo sguardo riusciva ad abbracciare l’intera palestra e a
cogliere quanto doveva essere fatto perché tutto andasse nel migliore dei modi,
la tristezza vuota negli occhi di Andrea, l’unico detenuto che avevo
conosciuto fuori e a cui era appena stata revocata la misura alternativa. Ho
sentito che non solo era possibile, ma ancor più era doveroso almeno fare il
tentativo di partecipare agli incontri della redazione di Ristretti. Frequentare
la redazione ha significato riappropriarmi della “stanza delle possibilità”.
Siamo immersi in una realtà complessa sotto ogni profilo, sociale, culturale,
economico, eppure il nostro immaginario è dominato dai media che lavorano per
imporci un unico tipo di soluzioni, ispirate alla mercificazione totale
dell’esistenza. Ho riscoperto che è possibile fornire un’informazione
diversa, attenta alla specificità di ogni problematica umana, è possibile
esaminare i fatti per quello che sono e proporre soluzioni che abbiano sempre e
comunque al centro l’uomo, con coraggio, fantasia e profondo rispetto per il
lettore, da cui non ci si aspetta mai il consenso, ma con cui ci si augura di
poter ragionare. Mi ritengo davvero privilegiata per aver potuto affrontare
un’esperienza di questa portata con Ornella, la sua immensa umanità non
finisce mai di stupirmi e di stupire quanti la circondano. È
stato per me molto importante poter collaborare con lei e i redattori-detenuti
della redazione, interna ed esterna, al progetto “Il carcere entra a scuola,
la scuola entra in carcere”. 112 sono stati in tutto gli incontri, di cui 30
in carcere. Le diverse centinaia di studenti che ho incontrato nelle diverse
scuole di Padova e di tutta la provincia, di fronte alle testimonianze dei
detenuti, hanno dimostrato una inaspettata capacità di ascolto, intenso e
rispettoso. L’ennesimo stereotipo fornito dai media, l’ennesima
“emergenza” (emergenza bullismo, emergenza stranieri, emergenza
sicurezza…) descritta ad arte dai giornali e ancor più dalla televisione, è
stata puntualmente smentita. I ragazzi non sono un fenomeno emergenziale da
gestire e controllare, ma sono persone e se trattate come tali sono
perfettamente in grado di usare la testa e il cuore. Non ho compiuto che i primi
passi, sforzandomi di contrastare l’irruenza e l’impulsività che mi
contraddistinguono, e nonostante questo ho commesso molti errori. Per fortuna
tutti rimediabili. Nel partecipare poi alla preparazione del
convegno di quest’anno, “Sto imparando a non odiare”, ho potuto riscoprire
il valore di ogni parola, l’importanza dell’ascolto con l’anima sgombra di
pregiudizi e di superbia, l’insostituibile ricchezza del lavoro di gruppo che
permette di superare ostacoli a prima vista insormontabili. Il mio grazie va a
ciascun volontario e a ciascun “ragazzo” della redazione, da ciascuno ho
imparato e da ciascuno sono certa continuerò ad imparare. Il mio invito, a
quanti si accostano per la prima volta al carcere, è di non arrendersi, anche
se condividere, per quel che è possibile, l’esperienza della privazione della
libertà è devastante. Ma se si accetta di mettersi in gioco, è enorme
l’energia positiva che si riceve in dono. Il
punto di vista di un’insegnante che lavora con la scrittura autobiografica e
memoriale Affrontare
temi che scottano, come del resto scotta la vita È
la scommessa di Ristretti Orizzonti, costruire un pensiero critico: quello che
nasce dopo aver soppesato i fatti e le situazioni, elencato il già detto, il già
scritto sui diversi giornali e il trasmesso sugli schermi televisivi, e aver
anche radiografato esperienze personali prima di emettere un giudizio di
Adriana Lorenzi scrittrice,
formatrice, conduce laboratori di
scrittura autobiografica nelle carceri Non
so se dipende dal fatto che lavoro con la scrittura autobiografica e memoriale e
che invito chi partecipa ai miei laboratori di scrittura a rammemorare, ma so
per certo che amo i festeggiamenti che vogliono ricordare il tempo trascorso,
celebrare uno o più lustri di un’attività. La posta in gioco non è lo
stordimento offerto dalla festa, ma la costruzione della memoria di ciò che è
stato fatto perché il rischio, sempre in agguato, è quello di diventare
estranei a se stessi, ai propri gesti e alle proprie parole. Forse anche di
perdere di vista i valori e gli scopi dai quali e per i quali è nata
un’iniziativa, si è costituito un gruppo di lavoro: in questo caso, una
Redazione e una rivista, Ristretti Orizzonti, che da dieci anni cerca di fare
informazione dal carcere sul carcere dalla Casa di Reclusione Due Palazzi di
Padova. Dieci
anni non possono che essere tempo di bilancio per recuperare le radici della
spinta iniziale, misurare il fusto che è cresciuto, si è irrobustito e
ammirare la chioma di rami e foglie svettanti nell’aria e verso il cielo.
L’albero della libertà è cresciuto non solo a Venezia come ci ha raccontato
Adriano Sofri[1],
ma anche dentro le carceri padovane a indicare che i detenuti vogliono
continuare a vivere e a pensare anche dietro le sbarre. La rivista Ristretti
Orizzonti di anno in anno, di numero in numero mira a mostrare che i detenuti
sono persone che devono e vogliono vivere dentro la realtà che abitano e
rispondere al mondo aldilà della pena da scontare. Ho
raccolto l’invito di Ornella a scrivere qualcosa per questo decennale perché
sono grata alla Redazione tutta e, ammetto, a lei in particolare per come
scrive, argomenta e costringe ad affrontare tematiche che scottano come del
resto scotta la vita, senza rimandare nulla a domani. La scommessa è altissima:
resistere alla crudeltà del mondo senza demonizzare alcune persone, piuttosto
cercando di comprendere e di ovviare alle derive umane. Niente accade così
dall’oggi al domani, ma ogni cosa si prepara lentamente situazione dopo
situazione, comportamento dopo comportamento. Prestare attenzione ai segnali
diventa allora fondamentale, perché uomini e donne non compiano quei gesti che
li legano alla robusta corda dei “se”… “Se le cose fossero andate
diversamente… io non sarei qui”. Intanto i cancelli della galera restano
sprangati dietro le loro spalle. La
memoria è la facoltà di serbare l’esperienza, di accatastarla come legna per
il fuoco delle stagioni più rigide, opponendosi quindi alla dispersione, alla
cancellazione, alla consumazione. In
tedesco, scrive Christa Wolf[2],
c’è una radice comune che fa derivare il verbo “denken” (pensare) a
“gedenken” (ricordare, commemorare) e a “danken” (ringraziare, essere
grati). Che è come ipotizzare una sorta di stretta parentela, di indissolubile
legame tra il pensiero, il ricordo e il ringraziamento: penso, rammemoro e nel
contempo pronuncio il mio grazie per il tanto che è stato fatto per prendersi
cura delle parole, delle testimonianze, smorzando gli stereotipi sulla
detenzione e il male che si annida nelle carceri. Questo è quello che vorrei
fare per Ristretti Orizzonti con queste mie parole perché, quando ritiro dalla
cassetta della posta la mia copia, già sorrido: so che molti punti di domanda
affolleranno il mio cervello insieme a nuovi azzardi del pensiero e che i pezzi
mi accompagneranno per giorni e popoleranno, in alcuni casi, anche le mie notti.
Non smetto però di compiacermi dell’esistenza di una Redazione che ho il
privilegio di poter frequentare ogni tanto. La
Redazione è una stanza grande ingombra di tavoli e computer. Quando ci arrivo
che sia di mattino o di pomeriggio c’è sempre qualcuno: chi sbobina qualche
registrazione, chi batte con vigoria le sue mani sulla tastiera del computer.
C’è Elton che mi saluta con il suo sguardo azzurro dietro le lenti degli
occhiali e Franco che mi allunga un caffé bollente. Ma la stanza si anima
davvero quando tutti sono seduti attorno al tavolo, detenuti, volontari, mentre
Ornella, a capotavola (se fosse una tavola imbandita), propone l’argomento
della discussione che immediatamente si accende. Si infittisce la cortina di
fumo man mano ci si addentra nella questione: affettività in carcere… Erika
sorpresa a sorridere mentre giocava a pallavolo e immortalata in una fotografia
capace di sdegnare l’opinione pubblica… l’indulto… carcere e scuola.
Ornella modera, impone il silenzio, dà la parola. Qualcuno si indispettisce,
qualcuno alza la voce, uno parla e l’altro gli risponde e io avverto che si
sta costruendo qualcosa di invisibile e imponente insieme. Un pensiero critico:
quello che nasce dopo aver soppesato i fatti e le situazioni, elencato il già
detto, il già scritto sui diversi giornali e il trasmesso sugli schermi
televisivi, e aver anche radiografato esperienze personali prima di emettere un
giudizio. Costruire
dei ponti tra la parte irregolare e quella regolare di questa nostra società In
Redazione si formulano diagnosi delle situazioni prese in esame, si prova a
comprendere e si esprime un’opinione propria. Ed è per questo che amo questa
stanza dove si cerca di non dare nulla per scontato, per costruire al meglio dei
ponti – a volte fragilissimi – fra il dentro e il fuori, tra la parte
irregolare e quella regolare di questa nostra società, per prendere posizione,
smussando, per come e per quanto possibile, gli angoli del vittimismo, del
rancore, della rabbia, del desiderio di rivincita, dell’idea astratta di
delinquenza e detenzione. Senza
questo lavoro che dura da dieci anni non sarebbe stato possibile arrivare al
convegno dello scorso 23 maggio che ha riunito un pubblico consapevole di quanto
fosse importante, delicato e necessario quell’appuntamento che solo Ristretti
Orizzonti poteva offrire: Sto imparando a non odiare. Forse, adesso che ci
penso, non a caso proprio quest’anno nel decennale della rivista, dopo aver
accumulato tanti convegni, lavorato con infinita pazienza a raccontare il
carcere e a individuare responsabilità di una giustizia dai tempi biblici e di
detenuti che appunto non hanno rubato soltanto la marmellata alla nonna, come
scriveva Stefano Bentivogli. Marino
Occhipinti ha spiegato bene nell’apertura dei lavori che avevano prima pensato
di fare un convegno sulle vittime, poi con le vittime e infine, in
ascolto delle vittime per popolare di parole il vuoto che separa gli autori
del reato dalle vittime di quello stesso reato. Si
avvertiva immediatamente l’impegno messo da tutti i detenuti
nell’organizzare al meglio un incontro nel quale comunque non si poteva
prevedere ogni cosa, ma cercando per senso della responsabilità di diminuire
gli imprevisti, ovviare a qualsiasi forma di disattenzione inammissibile quando
si vanno a far risuonare le corde della sofferenza patita, magari lontana nel
tempo, ma non dimenticata. Le vittime delle stragi degli anni di piombo, oppure
delle uccisioni più recenti, dei sequestri e anche dei furti. Ascoltare per
ricordare, per non smettere di interrogarsi sui gesti compiuti e sui loro
strascichi. Ascoltare per non evitare di stare male: la sofferenza deve davvero
continuare a graffiare l’anima, la memoria e imporre un silenzio rispettoso. Le
voci più diverse hanno raccontato la loro storia e delineato la loro posizione:
Andrea Casalegno ha espresso la sua assoluta mancanza di desiderio di incontro e
dialogo con i terroristi che hanno assassinato suo padre nel ’77; Manlio
Milani ha denunciato l’impossibilità di cancellare un fatto come la strage di
Piazza della Loggia a Brescia nel ’74 che manca ancora di colpevoli e delle
loro logiche; Giuseppe Soffiantini ha provato a cercare le ragioni che hanno
portato alcuni uomini a organizzare il suo sequestro per 237 giorni; Silvia
Giralucci ha chiesto che i brigatisti che le hanno ucciso il padre nel ’73,
quando lei aveva tre anni, si muovano a “testa bassa” nella loro quotidianità
libera; mentre Olga D’Antona ha proposto la via della condivisione del dolore.
Da quella mattina le loro parole costituiscono lo sfondo delle mie giornate. Provare
a prestare ascolto alle vite degli altri Aldilà
delle posizioni individuali raccontate con toni sommessi, commossi, oppure
altisonanti, decisi, il messaggio era quello di provare a prestare ascolto alle
vite degli altri, a infilarsi nei loro panni, in questo caso di vittime, di
destra, di sinistra, della delinquenza più comune per rompere la catena
dell’odio, spezzare le tenaglie della paura e dare spessore
all’irreversibilità del gesto compiuto: basta una frazione di secondo, un
attimo e si innescano conseguenze che durano decenni… una moglie non riesce a
parlare dell’uccisione di un marito… un uomo accende una luce perenne in
casa per ovviare al buio di una strage… Tutti comunque sanno cosa significa il
prima e il dopo. Come
ha detto Elton Kalica nel suo intervento di apertura, Ornella ha tirato fuori i
detenuti dalle celle per farne dei redattori del giornale e insieme loro hanno
cercato di “tirar fuori le persone dai loro gusci di dolore”. Da
dieci anni Ristretti Orizzonti non fa altro che stanare il pubblico lettore
dalle conchiglie dei luoghi comuni affinché non perda la fiducia della e il
valore nella relazione umana. A
Stefano Bentivogli, stroncato l’anno scorso dalla tossicodipendenza che gli ha
fatto visitare le mura carcerarie e quelle delle comunità di recupero, Ornella
e la Redazione hanno dedicato questo convegno per ricordare lui e anche la sua
capacità di parlare senza paura della sofferenza propria e altrui. Ho
apprezzato anche questa attenzione che ancora una volta indica l’impegno
preciso di non dimenticare i volti, i corpi, le storie delle persone che fanno
il carcere e che, a Padova, sono a volte anche quelle che fanno una rivista
impegnativa e impegnate come Ristretti Orizzonti. E
a tutta la Redazione faccio lo stesso augurio che Elena Ferrante aveva fatto per
i dieci anni della sua casa editrice, usando l’immagine di un cespo di cappero
che cresceva a ogni stagione sulla parete della sua casa di ragazza anche quando
il proprietario l’aveva intonacata: “All’improvviso… l’intonaco
mise crepe, il cappero riesplose coi primi germogli. Perciò auguro alla e/o di
seguitare a lottare contro l’intonaco, contro ciò che armonizza cancellando.
Lo faccia schiudendo cocciutamente, di stagione in stagione, libri a fiore di
cappero”[3]. Anche
io auguro a Ristretti Orizzonti che continui a far sbocciare articoli a fiore di
cappero per combattere una diffusa atmosfera di odio, di nero sospetto scaturito
dall’allarme sociale, per disegnare nella mente di ogni lettore il profilo, la
sagoma dell’altro da sé con le sue ragioni. Non si tratta né di dimenticare,
né giustificare, né, tanto meno, di perdonare, piuttosto di ascoltare vittime
e autori di reati, perché solo in questo modo un essere umano può avere il
coraggio di vivere e avere il diritto di essere rispettato nella sua dignità. A
questo serve Ristretti Orizzonti e vorrei che tutta la Redazione fosse fiera di
quanto ha saputo produrre in dieci anni di attività. Io, certo, lo sono. [1] Adriano Sofri, Altri hotel, Mondadori [2] Christa Wolf, Trama d’infanzia, Edizioni e/o Roma, 1992, pag. 34 [3] Elena Ferrante, La frantumaglia, Edizioni e/o, Roma E
se il carcere fosse il punto di partenza per un cambiamento vero? Vivi
e non morti in attesa di uscita Frequentando la redazione di Ristretti Orizzonti mi sono reso conto che il carcere è un luogo dove gli individui continuano ad esistere e dove, logicamente, preparano
il proprio futuro di
Alessandro Busi tirocinante
della Facoltà di Psicologia Come
molti della mia generazione, anch’io sono cresciuto con gli insegnamenti
categorici di MammaTv. Da una parte stanno i buoni, dall’altra i cattivi; le
cose buone sono di marca, le altre fanno schifo eccetera. Una delle lezioni più
importanti che mi è stata data, e che sta alla base del nostro comune pensiero,
però, riguarda proprio il carcere: una volta dentro si butta la chiave. Proviamo
a rifletterci. Molti,
nel nostro paese, si lamentano per la facilità (???) con cui si esce di galera,
però, è un comune sentire, quello secondo il quale un detenuto è una sorta di
“morto a tempo”. Certo, tutti sanno che, prima o poi, smetterà di essere
detenuto, ma nessuno se lo aspetta per davvero: i telefilm finiscono con la
cattura del “cattivo”, poi, il suo futuro rimane più un’astrazione che
una realtà. Ora,
senza voler fare il figo, devo dire che un certo pensiero critico riguardo a
questo modo di vedere, lo avevo già iniziato, ma nulla è paragonabile al fatto
di entrare per la prima volta nella redazione di Ristretti e trovarsi davanti
persone e non detenuti: vivi e non morti-in-attesa-di-uscita. È stato proprio
tramite questo incontro, infatti, che mi sono reso conto che il carcere è un
luogo dove gli individui continuano ad esistere e dove, logicamente, preparano
il proprio futuro. Oggi
farò questo, domani farò quest’altro, quando uscirò farò… Ma
come si può pensare al futuro, se non si è prima lavorato sul proprio passato? È
proprio qui che volevo arrivare. Io
non posso parlare della storia di Ristretti, non avendone fatto parte, ma posso
dire che, da quando sono arrivato, in coincidenza con le battute finali della
preparazione del convegno “Sto imparando a non odiare”, ho visto persone
riflettere su quello che avevano fatto. Ecco quindi che Ristretti, sia come
redazione, sia nell’attività con le scuole, è una possibilità, non solo di
avere un’alternativa alla cella, ma soprattutto di avere un ruolo attivo ed
importante nella società, proprio quando questa stessa si è dimenticata della
tua esistenza. Capite
cosa può voler dire, per una persona vittima di rapina, vedere che un ex
rapinatore è un individuo come lei? Due braccia, due gambe, due occhi che sanno
ridere e sanno piangere. Proprio come lei. Capite cosa vuol dire trovare
l’umanità in colui che, altrimenti, sarebbe stato solo una strana
raffigurazione indefinita del male? E
dall’altro lato. Vi immaginate cosa può voler dire, per una persona che,
magari, pensava di non aver mai fatto del male a nessuno, trovarsi davanti allo
sguardo spaventato dell’altro, che gli racconta di come, da quel giorno, da
quell’istante, la sua vita sia completamente cambiata? Questo
è ciò che più mi ha colpito, da quando sono entrato per la prima volta, perché
ritengo che un’esperienza simile possa veramente essere la molla per far
migliorare la nostra società, invece così abbarbicata nella propria visione
manichea del Buono VS Cattivo. E per chiudere mi chiedo: se il padrone dell’Ilva di Taranto, quaranta omicidi bianchi dal 1993 al 2007, sapesse giungere a riflessioni come queste, la vita di migliaia di persone, non sarebbe forse migliore?
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