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L’oscura immensità della morte
Non è con l’odio ed il rancore che si può guardare in faccia il male, se non si vuole correre il rischio di accrescerlo e riprodurlo all’infinito
di Nicola Sansonna
Egregio Signor Contin, oso rivolgermi a Lei solo perché sono disperato. Ho saputo di essere malato di cancro e di non avere speranza. Ho scontato finora 15 anni di carcere. So che sono pochi per i terribili delitti di cui mi sono macchiato ma la malattia metterà comunque fine anche alla pena. Le chiedo di perdonarmi e di dare parere favorevole alla grazia. Il mio unico desiderio è di poter morire da uomo libero. Mi rendo conto di chiederLe di avere pietà dell’uomo che Le ha portato via gli affetti più cari ma Lei è diverso da me ed è certamente capace di un gesto così nobile.
Raffaello Beggiato
Immaginare cosa possa provocare una lettera simile in una persona che ha subito la perdita di un familiare a seguito di una azione delittuosa è un compito veramente arduo e da non affrontare a cuor leggero. Dopo aver letto la lettera, il signor Contin, a cui sono stati ammazzati la moglie e il figlio, esplode: "L’assassino, il pezzo di merda, il figlio di puttana chiede la mia pietà. La pietà era un sentimento che faceva parte di un’altra vita prima che la morte avvolgesse la mia esistenza. Che il cancro lo stesse uccidendo mi sembrava solo un atto di giustizia. Era giusto che Beggiato soffrisse fino all’ultimo. In galera ovviamente. La sua morte non avrebbe alleviato il mio dolore che da quindici anni dominava la mia vita, invadendo tempo, pensieri e azioni quotidiane. Il dolore pulsava come quello di una ferita infetta, ma mi faceva sentire vivo e mi aiutava ad orientarmi nell’oscura immensità della morte".
Ho letto parecchi libri di Massimo Carlotto, ma questo è, a mio avviso, il più interessante. Una scrittura fluida, un ritmo serrato, una suspense sempre elevata. La vicenda raccontata dall’autore è di una straordinaria efficacia e si presta a parecchie riflessioni. Come in precedenti romanzi dello stesso autore anche in questo, a fare da sfondo, è il Nordest ricco e spesso pieno di indifferenza e di noia. Carlotto, del resto, il Nordest, compreso le sue carceri, lo conosce bene: lui è padovano, ed è stato detenuto per uno dei più controversi casi di omicidio italiani, del quale si è sempre dichiarato innocente, e poi graziato nel 1993, dall’allora Capo dello Stato, Oscar Luigi Scalfaro. Il romanzo inizia con una rapina in un’oreficeria. Due balordi mettono le mani su una montagna di gioielli detenuti illegalmente dal gioielliere rapinato, in quanto provenienti da attività in nero, e parallela, di "banco dei pegni". Scatta l’allarme, e i due balordi non vogliono perdere l’ingente bottino. Prendono in ostaggio una madre con suo figlio per coprirsi la fuga, ed il dramma ha inizio. Nel romanzo, forzando un po’ la mano a quello che di solito avviene nella realtà, i due ostaggi vengono uccisi a sangue freddo da uno dei rapinatori, prima il bambino, poi la madre ad un posto di blocco per garantirsi la fuga. Uno dei rapinatori riesce a scappare, l’altro viene arrestato e condannato all’ergastolo. Il signor Contin, da quando sono morti i suoi cari, non riesce neanche più ad immaginare di rifarsi una esistenza, più che altro finge una normalità cercando di dominare l’urlo di dolore che ha dentro di sé. Ma qualcosa avviene dentro di lui quando riceve quella lettera, qualcosa che trasforma la vittima in implacabile persecutore, in cacciatore spietato, in "giustiziere". Contattato dall’avvocato dell’ergastolano, dal cappellano del carcere, da una volontaria, comincia a odiare tutti, a disprezzarli, a desiderare solo di annientarli. La volontaria, poi, per lui è un essere assolutamente spregevole: "Ero disgustato dalle smancerie di Ivana Stella, tipo ‘sei un uomo speciale’. Lo ero ma non nel senso che intendeva lei. Stavo finalmente esercitando il mio diritto alla giustizia. Anche i giudici mi avevano investito di questo potere, ritenendo determinante il mio parere in tema di perdono. Ma io non perdonavo nessuno. Beggiato, Siviero, Daniela, e Ivana Stella. Anche lei certo. Nessun volontario si era fatto vivo quando annaspavo avvolto dall’oscurità. Tantomeno proprio la signora Ivana Stella che andava a soccorrere i poveri carcerati. E adesso mi trova speciale".
Leggendo questo libro, sorgono parecchi dubbi che vanno molto al di là della finzione letteraria, che in questo caso può diventare anche uno spunto per ragionare su temi più complessi. Li elenco tutti, perché mi hanno dato da pensare, e mi piacerebbe che altri come me ci riflettessero sopra. Innanzi tutto, quando si invitano i responsabili di gravissimi reati (come l’omicidio) a mettersi in contatto con i parenti delle loro vittime, e a chiedere loro perdono, occorre porsi il problema della gravità della ferita che si viene così a riaprire, e delle possibili conseguenze. Ma è giusto coinvolgere i familiari delle vittime, all’infuori di quello che è il luogo deputato ad ottenere giustizia, ossia il dibattimento processuale? E non si rischia di mandare in frantumi delicati equilibri, costruiti a fatica per cercare di elaborare il dolore? Agli occhi di un parente della vittima di un grave delitto non può essere un’ulteriore violenza avere un contatto, probabilmente mai desiderato, con chi ha provocato tanto dolore e sconquasso nella sua vita? Che tipo di sostegno psicologico occorrerebbe ad un padre per incontrare l’assassino di suo figlio? L’approccio laico e quello cristiano alla questione mostrano delle differenze sostanziali nell’elaborazione dell’eventuale perdono? E infine: il risultato che si può ottenere da questo contatto, vale la sofferenza che indubbiamente provoca? Non ho la presunzione di trovare delle risposte, so che questi sono temi cari a chi si occupa di mediazione penale e di giustizia riparativa, e sono invece affrontati abbastanza raramente da noi detenuti. È per questo che penso che anche a noi occorra meditare, quando si affronta questa scottante e delicatissima questione. L’autore di "L’oscura immensità della morte" ci fa indiscutibilmente pensare, nonostante ci siano, a mio parere, nel suo romanzo alcuni stereotipi sui detenuti, sul carcere, sui volontari, su tutti coloro che invece io ritengo cerchino soprattutto di limitare il danno che il carcere provoca e fare in modo che dal carcere escano persone possibilmente non completamente abbrutite, perlomeno non peggiori di quando sono entrate. "Perché non vi occupate d’altro invece di aiutare i detenuti?", chiede uno dei protagonisti. Molti nella vita reale lo pensano, alcuni lo dicono apertamente. Però io, da parte mia, credo che non è con l’odio ed il rancore che si può guardare in faccia il male, se non si vuole correre il rischio di accrescerlo e riprodurlo all’infinito. Ripeto, risposte alle pesanti domande che sorgono non sono all’altezza di darne. Sono interrogativi a cui ognuno secondo coscienza può cercare la sua risposta dentro di sé. Ma quello che è certo è che sul tema svilupperemo una profonda discussione, perché rifletterci, magari partendo da un romanzo, farebbe bene a tutti, a qualunque categoria si appartenga. A noi detenuti per primi.
Massimo Carlotto è nato a Padova nel 1956, attualmente vive a Cagliari. Ha esordito nel 1995 con Il Fuggiasco, per raccontare la sua esperienza di latitante. Dopo la scarcerazione ha scritto: Il mistero di Mangiabarche, La verità dell’Alligatore, Le irregolari, Nessuna cortesia all’uscita, Il corriere colombiano, Arrivederci amore ciao, Il Maestro di nodi.
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