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Salvare gli affetti dei detenuti dai disastri del carcere
Aiutare le famiglie a non vivere da sole il dolore e la vergogna di avere un parente incarcerato
Il 30 % dei figli di detenuti finisce a sua volta in carcere, il 70 % dei detenuti che escono a fine pena torna a commettere reati. È a partire da questi dati, che non ci stanchiamo di ripetere, che si dovrebbe capire che lavorare per salvare i legami familiari dei detenuti dalla distruzione provocata dal carcere significa anche rendere un po’ più sicura la società: perché è evidente che un detenuto, che esca a fine pena e non sia solo e abbandonato a se stesso, costituisce un pericolo inferiore per il mondo esterno, così come un figlio, aiutato a sopportare la pesante esperienza della carcerazione di un genitore, forse riuscirà a non far parte di quella percentuale di ragazzi sicuramente destinati al carcere. Di questo si è parlato nella Giornata di Studi Carcere: Salviamo gli affetti, promossa dal Centro di Documentazione Due Palazzi, dalla Casa di Reclusione di Padova, dalla Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia e dal Coordinamento dei Giornali dalle carceri del Nordest, che ha portato dentro al carcere padovano più di 300 persone dal "mondo fuori": parlamentari, operatori penitenziari, avvocati, magistrati, operatori sociali, familiari di detenuti, detenuti in permesso da altre carceri. Si è parlato dell’esperienza della Svizzera, dove in carcere sono consentiti colloqui intimi, colloqui gastronomici dove si pranza insieme ai parenti, colloqui Pollicino con i figli; del Brasile, dove, nonostante le carceri siano disastrate, si garantisce ai detenuti la possibilità di incontrare i loro familiari in condizioni di intimità; della Francia, dove da anni opera la Federazione dei Relais Enfants Parents, una rete di associazioni, diffusa su tutto il territorio nazionale, che si occupa dei figli dei detenuti e sostiene le famiglie nel loro difficile percorso accanto alle persone incarcerate. In Italia invece le esperienze di sostegno organizzato ai familiari dei detenuti si contano sulle dita di una mano, ed erano tutte presenti a Padova, a testimoniare il loro lavoro: Bambini senza sbarre, a San Vittore, Telefono azzurro, a Roma e Monza in particolare, La Fraternità a Verona, Progetto Tonino a Secondigliano, finanziato dal Comune di Napoli attraverso la Legge per l’infanzia 285/97. Tra gli interventi importanti di questa Giornata, anche quello della madre di un detenuto, che ha descritto l’isolamento e il senso di vergogna attraverso i quali lei e suo marito sono passati, e poi ancora di Stefania Chiusoli, che nel libro "Quasi tutto ancora da vivere" ha narrato la sua storia di donna innamorata di un ergastolano, che lo ha seguito per più di vent’anni attraverso le carceri di mezza Italia; di Sergio Segio e Sergio Cusani, che la loro esperienza del carcere non l’hanno cancellata e sono attivi più che mai per cambiare qualcosa nelle condizioni di detenzione. Ma gli ospiti hanno potuto anche vedere Fine amore mai, un film realizzato dai detenuti del Gruppo Audiovisivi di San Vittore, coordinati dal regista Davide Ferrario, e presentato a Padova da uno dei detenuti del gruppo, Vincenzo Verzillo, autore del montaggio: da dentro le mura del carcere milanese, i sogni, le fantasie, le storie vere di chi è finito in carcere, ma non si rassegna a perdere tutto, anche gli affetti.
Ma che cosa volevamo ottenere con questa Giornata di Studi sugli affetti negati in carcere?
Volevamo richiamare l’attenzione delle istituzioni sulla necessità di attivare forme efficaci di sostegno alle famiglie dei detenuti (sportelli informativi, gruppi di autoaiuto, centri di ascolto): è per questo che continueremo a batterci perché le famiglie dei detenuti non si debbano nascondere e perché possano affrontare a viso aperto il problema di avere un parente in carcere. Volevamo avviare una campagna di sensibilizzazione per far capire al mondo che sta fuori che un detenuto, che riesce a mantenere e rafforzare i suoi legami familiari, costituisce un po’ di sicurezza in più per la società: abbiamo iniziato a parlare di questo problema portando più di 300 persone all’interno del carcere, lo faremo ancora all’esterno, perché non si continui a far pagare alle famiglie dei detenuti colpe che non hanno mai commesso. Volevamo promuovere una iniziativa parlamentare forte su questi temi: abbiamo elaborato così una Proposta di Legge su come salvare gli affetti, ora la faremo conoscere, e ci batteremo perché anche in Italia, come in Svizzera, in Spagna, in Olanda, ma anche in Croazia, in Iraq, in Brasile sia permesso ai detenuti di incontrare i loro cari con un po’ di intimità.
La Redazione di Ristretti Orizzonti Da Padova, una Proposta di Legge per l’affettività in carcere
Il Centro di Documentazione Due Palazzi e la Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia avevano inviato, prima della Giornata di Studi, una Lettera aperta ai parlamentari, in cui si chiedeva la loro disponibilità a presentare una proposta di legge sul tema dell’affettività in carcere. In 39 tra senatori e deputati di maggioranza e opposizione si sono detti disponibili. Nel corso della Giornata di Studi del 10 maggio nella Casa di Reclusione di Padova, un gruppo "ristretto" ha elaborato un testo base per questa proposta di legge, da proporre a tutti quelli che vorranno firmarlo. Ci hanno lavorato, nel pomeriggio del 10 maggio, due parlamentari, e poi operatori penitenziari, avvocati, detenuti, operatori sociali, "esperti" come Sergio Cusani e Sergio Segio. Ma "l’anima" del gruppo è stato Alessandro Margara, Magistrato di Sorveglianza, ex Direttore del DAP, uno dei grandi artefici della legge Gozzini, che ha ancora la voglia e le energie per battersi per un carcere più umano. Il testo elaborato è disponibile nel sito. Che cosa vuol dire per una detenuta incontrare le persone che ama in una squallida sala colloqui? Ce lo racconta Franca, una ex detenuta che ancora non l’ha dimenticato
Quella che segue è la testimonianza di Franca, una ex detenuta, che forse fa capire, meglio di qualsiasi spiegazione razionale, che cosa vuol dire cercare di salvare i propri affetti nella desolazione del carcere e di una squallida sala-colloqui.
"Oggi, che sono fuori, ho la libertà di vivere le mie emozioni, ma se torno a ieri… rivedo il bancone di una sala colloqui, lo sguardo dell’agente fisso su noi detenute, pronto al rimprovero se l’abbraccio si prolungava, se il bacio era troppo intimo, se i bambini giocavano troppo vivacemente, certo con i bambini erano tutti un po’ più tolleranti, ma in ogni caso i bambini dovevano restare al di là del bancone. Le detenute madri di bambini sotto i 12 anni hanno diritto a fare i colloqui nelle aree predisposte all’aperto, con una panchina e una giostrina, per cui nel periodo freddo non puoi andarci, in genere sono spazi racchiusi da una cinta alta in ferro, intorno la struttura del carcere e tanti volti appesi e mani che stringono le inferriate per rubare una piccola parte di normalità familiare. Decisamente non è il posto ideale per far finta di mantenere il tuo ruolo di madre o di padre, perché è una finzione il pensare che una detenuta in carcere possa continuare ad essere anche una madre: un bambino ha bisogno di una stabilità e di una continuità di rapporto che non si può raggruppare in tre minuti di telefonata o in un’ora di colloquio, il ruolo di madre e padre è demandato quasi sempre ai parenti che ti tengono i bambini, e quando ritorni tra loro a fine pena il distacco non è più sanabile se non in parte, e comunque ha già fatto il suo danno. Hai sbagliato e devi pagare, in questo modo però sono in tanti a pagare. Ma l’affettività in carcere non è solo quella che riguarda i bambini, tutti abbiamo bisogno di verificare, di sentire attraverso i gesti l’autenticità di un sentimento, usare parole d’amore che vorremmo solo nostre. È facile, per chi non è ristretto per molto tempo, dire… "Beh, troveremo un altro momento", ma quando, nelle ore veloci dei colloqui, hai solo quei momenti per far capire alla persona che ti sta di fronte che la desideri, che la ami, e che vuoi sentirti a tua volta amata, e nel mentre di fianco a te un bambino si mette a urlare perché vuole sedersi in braccio alla madre, una madre piange per l’errore della figlia detenuta, un gruppo di parenti calorosi scherza ad alta voce e l’agente urla rimproveri, le parole ti si fermano in gola, parli del vicino di casa, degli amici, dei parenti, dell’avvocato, di tutto meno che di amore, e torni in cella pensando se anche lui o lei ha capito che nel sussurrargli "ti amo tanto" in realtà avresti voluto dire e fare ben altro. Cerchi un po’ di intimità per ricordare il volto della persona che ami, ma quando entri in un carcere l’intimità è vietata". La Giornata di Studi vista dall’esterno
I racconti di Luca, fotografo professionista, e Paolo, piccolo imprenditore, "ospiti" della Casa di Reclusione di Padova il 10 maggio
La testimonianza di Luca
Sono stato alla Giornata di Studi Carcere: salviamo gli affetti. È stata una giornata importante. È stata innanzitutto una giornata importante per me. Io non ero mai entrato in un carcere prima: l’impatto è stato piuttosto forte e difficilmente raccontabile. Ho ascoltato gli interventi ed ho capito che il problema era più grande di quello che pensavo, poi ho ascoltato i familiari dei detenuti ed i detenuti ed ho capito che non potremo considerarci persone civili finché permetteremo che accada quello che sta accadendo all’interno delle carceri. Una domanda di un detenuto mi riecheggia nella testa: "Voi domani cosa farete per noi?" (La frase era inserita in un contesto del tipo: molto bello vedervi tutti qui ora, ma dopo voi uscirete, noi resteremo dentro). Ho parlato con alcune persone presenti che, in sostanza, dicevano: "Quanto sarebbe bello se potessi fare di più, ma cosa posso fare?". Io ho deciso cosa fare, raccontare, parlare ad amici, parenti, conoscenti, colleghi di lavoro, quello che ho vissuto io lì dentro e far capire a quale livello di inciviltà siano le nostre carceri. Si è detto che si fa molto poco a livello legislativo perché l’opinione pubblica tende a non voler vedere le carceri. Penso sia vero, io per primo prima di venerdì avevo un’idea molto, molto "ovattata" rispetto alle condizioni dei detenuti in carcere. Ne ho parlato alla mia compagna e mi ha detto "Non pensavo". FACCIAMO PENSARE!!!! È stata poi una giornata importante anche per i detenuti. Ho parlato con alcuni di loro, ma sopratutto li ho osservati. Ho visto gruppetti di due o tre ragazzi avvicinare gruppi di ragazze ospiti, stare con loro tutto il convegno, con i ragazzi che portavano loro da mangiare, da bere, il te; poi ho visto la loro separazione, un ragazzo che saluta tenendo la mano della ragazza tra le sue e le dice "grazie!". Ho visto un detenuto e la sua compagna non staccarsi mai, tenersi sempre per mano. Uno di loro mi ha detto: "È la prima volta che viene tanta gente", a loro ha fatto sentire del calore la nostra partecipazione. Chiudo ripetendo la domanda che penso mi resterà scolpita dentro: VOI COSA FARETE PER NOI DOMANI?
La bussola segna sempre il nord
La testimonianza di Paolo Allievi, imprenditore capitato un po’ per caso nel nostro sito internet e rimasto "imprigionato" nella nostra rete
Le Cose che nascono per caso sono sempre le migliori. Prendono sempre una forma inaspettata, non voluta, non cercata. Senza direzione precisa, senza un obbiettivo, senza uno scopo ossessivo da raggiungere. Nascono e basta. Nel mondo ci sono tanti altri mondi, piccoli o grandi, che spesso intravediamo ma che non abbiamo nessuna intenzione di andare a visitare e conoscere. Non sono i nostri mondi, sono quelli degli altri. E gli altri "non contano". Se poi sono in galera, contano ancora meno. Venerdì 10 maggio ho partecipato ad un incontro tenuto nel carcere Due Palazzi di Padova, si parlava di affettività, cioè di dare la possibilità ai carcerati di poter vivere in maniera più civile e profonda relazioni sentimentali interrotte bruscamente dalla detenzione, si parlava di dare la possibilità alle famiglie, colpite da un dolore irreversibile, di alleviare questo strazio abbracciando di più e meglio i propri cari. Perché alla fine credo che un uomo o una donna possano sopportare quasi tutto, ma castrare i sentimenti è terribile perché i sentimenti fanno vivere e uccidono, più di ogni altra cosa al mondo. Proprio questo tema ha fatto sì che il mio mondo ha incontrato il mondo degli altri, "quelli che non contano". Torniamo al caso, perché è grazie a lui che mi sono trovato di fronte ad una lettera scritta da un ergastolano, di cui non faccio il nome, tanto "non conta", nella quale si parlava di incontri con i famigliari, con i propri figli, con la propria donna. Come, tu hai ucciso, per colpa tua una bambina non potrà incontrare mai il proprio padre, e tu, che invece lo puoi fare, seppur in malo modo, seppur in mezzo a delle sbarre, in luogo angusto e freddo, ti lamenti perché vorresti poterlo fare in modo migliore..?! Questa è stata la mia prima reazione, probabilmente giusta e motivata. Ma è stata una reazione di chi non conosceva per niente una tragica realtà. Questo è quello che ho scritto d’impulso, in risposta alle sue parole. Credo che la maggior parte delle persone avrebbe reagito come me. Ho risposto e basta, e in un attimo il mio mondo si è scontrato con il suo e con quello di questo piccolo giornale. Un aspetto molto bello degli uomini intelligenti (mi ci metto anch’io) è quello di poter cambiare opinione, di rivedere il proprio pensiero, di approfondirlo e non rimanere legato ad un’idea statica. A volte è necessario andare contro i propri pregiudizi se si vogliono allargare gli orizzonti interiori. Io l’ho fatto, facendomi coinvolgere dalle parole e dai racconti di "gente che non conta", facendomi coinvolgere da tante storie di vite deragliate che Ristretti Orizzonti ha messo in luce. Vi assicuro che non è per niente facile entrare in un mondo sconosciuto, distante anni luce dalla quotidianità preconfezionata e tentare di capirlo, di respirarlo, di conoscerlo. Il tempo che manca sempre è la scusa che ci fa nascondere la testa sotto la sabbia. Ancor più difficile è parlarne con qualcuno. Tentare di coinvolgere nei tuoi pensieri e nelle tue nuove scoperte un amico o più amici è un’impresa disperata. Non ti ascoltano. Da questo ho imparato che un buon amico non è solo in grado di parlare e dare consigli, ma deve essere in grado anche di ascoltare, per davvero però. Io ho tanti conoscenti e alcuni amici veri, a cui voglio molto bene. Ho tentato di parlare con loro di questo mondo con cui sono entrato in contatto, ho tentato di raccontare le mie emozioni e le mie sensazioni nell’aver cominciato una corrispondenza con un ergastolano, ma la maggior parte delle risposte o dei dialoghi sono sempre stati gli stessi: "Dovrebbero buttare via la chiave", "Ma a te cosa importa di capire o discutere con un criminale", "Che stiano nel loro brodo", "Dovevano pensarci prima", etc. Frasi fatte, ci mancava che mi rispondessero con un proverbio, sarebbe stato il massimo. Queste sono persone che sono sempre state molto sensibili e profonde, con le quali sono sempre riuscito a comunicare e a dialogare su tutto. Ecco quant’è difficile il lavoro che sta portando avanti la redazione di Ristretti Orizzonti, con Ornella Favero e tutti gli altri. Fare breccia nella gente del mio mondo è un lavoro durissimo, ci vuole tanta determinazione e tanta volontà. La mia corrispondenza con l’ergastolano "che non conta" è proseguita, e senza pietismo, senza pregiudizio, con schiettezza e sincerità, e dal niente è nata una bellissima amicizia che spero proseguirà giorno dopo giorno. Grazie a Ristretti Orizzonti sono stato invitato a partecipare all’incontro di Venerdì 10 maggio. Venerdì 10 ho avuto la possibilità di incontrarlo personalmente e consolidare con un abbraccio e una stretta di mano questo legame che si è creato tra noi. Venerdì 10 maggio ho incontrato tanta gente che mi ha fatto ridere, piangere; gente che mi ha riempito il cuore. Venerdì 10 maggio ho visto per la prima volta in vita mia l’interno di un carcere. Adesso i due mondi sono uno accanto all’altro e i miei occhi riescono a vederli tutti e due. Per me è stata una giornata indimenticabile. Ah già, la bussola… che segna sempre il nord, quasi dimenticavo… Qualche volta provate a non seguirla e vi ritroverete a est, a sud, a ovest e il vostro orizzonte sarà sicuramente diverso.
Gli interventi, le interviste, i contributi che abbiamo ricevuto su questo tema saranno pubblicati sul numero speciale di Ristretti Orizzonti, che sarà dedicato al tema degli affetti per chi sta in carcere. Finché libertà non ci separi
Storia di una coppia divisa dal carcere, e del lento, inesorabile deteriorarsi dei legami d’affetto che passano attraverso la detenzione
Se potessi dare un ipotetico valore materiale alle conseguenze del mio modo di vivere, il bilancio consuntivo di una condotta semifallimentare non potrebbe essere diverso: crac, una vera e propria dèbàcle sentimentale affettiva maturata nel tempo, dopo l’ennesima carcerazione. Per chi è detenuto, anche i piccoli episodi, apparentemente insignificanti, creano una sensazione di distacco dal proprio mondo affettivo. A volte basta una semplice azione compiuta senza essere interpellati, da chi ha sempre chiesto almeno un parere, per avere la sensazione di essere stati messi da parte e per perdere quelle certezze di cui si è sempre stati fieri. Anche un’incomprensione non chiarita tempestivamente, magari per non apparire debole, per un ingiustificato orgoglio, può contribuire alla disgregazione di un legame che sembrava, agli occhi di tanti, indissolubile. Nel mio caso, sarebbe troppo semplicistico attribuire tutte le colpe di un calo affettivo solo ed esclusivamente al carcere. Lo stato di detenzione è la conseguenza (purtroppo logica) di reiterati errori, e la perdita del "ruolo dominante" all’interno della propria famiglia è un contrappasso difficile da accettare, ma che bisogna inevitabilmente subire. Quando fui arrestato per il reato che sto scontando, già nel corso del "primo" colloquio con la mia compagna, ebbi la sensazione che il prezzo da pagare sarebbe stato molto più alto della "semplice" perdita della libertà. Lei aveva negli occhi una luce che non avevo mai colto prima; erano riflessi di disperazione che cercava di dissimulare, per non influenzare il mio già confuso stato d’animo. In circa vent’anni di convivenza era già venuta tante volte ad un "primo colloquio", ma quello fu veramente diverso: "Perché?..." mi chiese. "Il tuo lavoro andava bene e non ci mancava niente. Stavolta mi ero veramente illusa che non ti saresti mai più messo nei guai. Ora, io e la bambina resteremo di nuovo sole... Ma lei è cresciuta ormai: cosa le racconterò, ora che è in grado di capire da sola ciò che è accaduto?". Aspettai almeno tre mesi prima di farla portare al colloquio. Quando venne, mia figlia era felice di vedermi... ma nei suoi splendidi occhi aveva quella stessa luce di inquietudine che avevo già letto in quelli di sua madre. Il muretto divisorio (allora non ancora abolito) la teneva a distanza, e questo le impediva di stare abbracciata a me; di riempirmi di quelle effusioni che caratterizzavano la sua indole affettuosa. Quando un agente bussò contro il vetro per invitarci a restare seduti, a non sporgerci oltre il dovuto, la sua inibizione fu totale, e questo provocò in me qualcosa che andava ben oltre il semplice senso di colpa. Avrei voluto sprofondare per il disagio, e per quel senso di totale impotenza. Non era mai accaduto che qualcuno ci impedisse di poter manifestare quell’affettuosità, che era il fulcro del nostro rapporto quotidiano: provai una sconfortante vergogna per me stesso, nei confronti di mia figlia. Tante cose sono successe da allora; mi capita, molto spesso, di ripensare ai piccoli eventi che sono stati il preludio di una frattura che non sono riuscito a ricomporre in tempo, e che man mano è diventata insanabile. Mentre diventavo sempre più il confidente di mia figlia, con la mia compagna il rapporto andava in una direzione opposta. A distanza di circa sei anni da quei primi colloqui, basta una foto, una vecchia lettera, ed ecco che il passato emerge dalla memoria con una lunga sequenza di immagini; come se fossero impresse su una pellicola che il tempo non sbiadirà mai. Poco tempo fa, mi serviva il numero civico di un indirizzo che ero sicuro di poter ritrovare tra la vecchia corrispondenza. Nel cercarlo, mi capitò tra le mani una lettera; la grafia, già bella e ordinata, ma ancora infantile, era quella di mia figlia, e il timbro postale risaliva a quando frequentava ancora la quarta elementare. Nel riaverla tra le mani, provai un sentimento misto di tenerezza e di nostalgia; dimenticai per un attimo la ricerca, e dalla busta tirai fuori un foglio ripiegato in due e una fotografia della mia bambina, che stringeva a sé il suo compagno di giochi: un cane di piccola taglia, un meticcio dal lungo pelo nero, con qualche striatura di grigio. Lo avevo portato a casa quando lei aveva quattro anni, e da allora erano diventati inseparabili. Sul foglio, cuoricini rossi contornavano un disegno che, anche se di fattura infantile, rappresentava la sua famiglia: mamma, papà, io, mio fratello, il nostro Baby... Per lei, il cagnolino era un componente importante del nucleo famigliare. Di quella lettera così variopinta, un passo mi ritorna spesso alla memoria: "Sai papà che Baby non c’è più? Però non è colpa della mamma; lei dice che non stava tanto bene, e allora lo ha fatto portare via. Ora si trova in un posto dove c’è tanto spazio, e la mamma dice che lì sta bene, sta meglio che a casa. Papà, sarà pure come dice la mamma, però il mio Baby mi manca tanto. Se tu fossi stato a casa lo avresti fatto curare, e oggi sarebbe ancora qui con me (...) Quando torni a casa ce lo andiamo a riprendere." L’allontanamento di Baby... È difficile spiegarlo, ma a suo tempo ebbi la spiacevole sensazione che, facendo portar via il cagnolino, anche una piccola parte di me era stata allontanata da casa; speravo di sbagliarmi, ma quello fu uno dei piccoli segnali premonitori.
Il disagio di sentirsi ospiti a casa propria
Quando andai in permesso per la prima volta (e per un’unica notte), a casa trovai piccoli cambiamenti: sul balcone, al posto della piccola cuccia del cane, c’era un bel vaso con una pianta sempreverde; i miei effetti personali non erano più al solito posto; il mio vestiario, trasferito in una parte dell’armadio meno agevole; le mie "carte" erano state raccolte in uno scatolone e portate giù, in cantina. Mi sentivo a disagio, un ospite in casa mia; dicevo a me stesso che quella era solo una spiacevole sensazione, finché... notai che i "miei" libri non erano più al loro posto, i miei autori preferiti avevano lasciato spazio a non so quanti pupazzetti di peluche. Dei miei libri non c’era traccia in nessun angolo della casa. Mi fu spiegato che c’era bisogno di un po’ di spazio in più; che tutti quei libri, oltre che essere disposti disordinatamente, erano ingombranti, e per questo era stato deciso di portarli giù, in cantina... come se fossero stati un semplice complemento d’arredo ormai fuori moda. "Ingombranti?... Ma alla bambina serviranno tutti... Sai quante ricerche dovrà fare man mano che andrà avanti con la scuola?". Senza attendere la risposta mi recai in cantina. Ero deluso, imbarazzato, amareggiato: in quel primo "permesso premio", l’accoglienza non poteva essere peggiore. Trovai i libri in alcune borse di plastica, ci rimasi male quando, nell’aprirne una, sentii un leggero odore di muffa; gli effetti dell’umidità e dell’abbandono già si sentivano, ed io li associai a quell’imbarazzante situazione famigliare che si era creata. Con i libri, un’altra piccola parte di me era stata allontanata dalle pareti domestiche, stavolta relegata giù, in cantina per motivi di "ingombro", per scarsa utilità o, addirittura, per sopravvenuta inservibilità. Per tutto il giorno mi ero chiuso in un mutismo che non favorì certamente la riapertura di un dialogo tra me e la donna che, per amore, aveva condiviso un paio di decenni di piccole gioie, e non pochi disagi. Quella notte preferii occupare la camera di mia figlia che, da circa tre anni, per far compagnia a sua madre, aveva preso il posto mio, nel lettone. Che grande errore fu quell’ostinato mutismo dettato dall’orgoglio. Sapevo che lei era sveglia quanto me, entrambi trascorremmo una notte insonne in due camere diverse. Nel cuore di quella notte, che fu stranamente breve, sentivo i suoi passi nel corridoio; la sentivo recarsi in cucina, a bere, o in altre stanze, per motivi sconosciuti. Quando rientrava in camera, ero io, a mia volta, ad aggirarmi inutilmente per casa: sarebbe stato sufficiente incontrarci a metà strada, nel cuore della notte, per mettere una pietra sopra a tutte le reciproche incomprensioni, ma questo non avvenne. Sarebbe stato facile per me ripristinare i cosiddetti "ruoli", riprendermi, maschilisticamente, quel "potere" che ritenevo "usurpato" per motivi di assenza. Ma che diritto avevo di farlo, dal momento che avevo lasciato lei e mia figlia nella disperazione totale? Il disagio mi impedì di cercare quell’approccio "intimo" che, avremmo, forse, vissuto come una sorta di "liberazione", e non come un momento di "ritrovato amore". Ho sempre pensato che l’intimità bisogna desiderarla in due; diversamente non sarebbe altro che il semplice assolvimento di una sorta di "obbligo coniugale" che non ho mai amato, né mai preteso. La nostra storia affettiva, stranamente finì proprio quando sarebbe potuta ricominciare... Quella nuova "prima notte" fu troppo breve per poter riaccendere una passione, e oggi, quella fiamma che all’epoca era solo affievolita, si è spenta del tutto. Nel frattempo, qualche altro anno è passato, e io e la mia ex compagna abbiamo deciso, per il bene di nostra figlia, di non farci del male reciproco... almeno finché sarò (ancora) detenuto. Finché libertà non ci separi.
Eugenio Romano Con gli occhi di un poliziotto
Fare il proprio lavoro pensando anche che un giorno potrebbe essere un nostro figlio, un nostro caro, a "cadere" all’interno di un carcere...
Quella che segue è una corrispondenza via e-mail, nata dal nostro sito e da un agente di Polizia che lo ha visitato, ha letto alcune lettere di agenti di Polizia penitenziaria pubblicate sul nostro giornale e ci ha scritto. La vogliamo proporre ai nostri lettori perché offre uno spunto di riflessione nuovo sul rapporto detenuti-agenti: lo stato d’animo di un poliziotto che si ritrova, improvvisamente, a essere anche parente di un detenuto. E che, da questo percorso di "sdoppiamento", comincia a vivere con una sensibilità del tutto nuova il suo ruolo.
La prima lettera
A leggere certe lettere di agenti di Polizia penitenziaria (sono miei colleghi), così dure nei confronti di tutti i detenuti, mi soffermo al solito pensiero che mi viene alla mente, quando leggo le parole di chi si schiera contro i detenuti... contro i loro diritti più "banali". È triste, ma non c’è peggior condanna che fare un lavoro frustrante, come quello dell’agente penitenziario, se lo si fa con odio per i detenuti! La vera condanna non è per il detenuto, ma per chi deve stare a fare un lavoro che altro non è che una sofferenza... sofferenza perché si pensa che il detenuto sta "bene"; sofferenza perché il detenuto può vedere i propri figli (a lui non spetterebbe nemmeno quello); sofferenza perché il detenuto non è trattato "abbastanza" da detenuto! Spero solo che tutti i miei colleghi non abbiano anche la frustrazione di non poter "punire" abbastanza i detenuti; di non poterli vedere soffrire la notte, quando magari piangono, all’interno delle loro celle, per ciò che hanno fatto... "magari" pentiti... veramente... perché io non credo che su tanti detenuti nessuno abbia un attimo di pentimento sincero... di pentimento vero... di rimpianti. Spero davvero che tutti i miei colleghi agenti, in futuro, non abbiano tanta voglia di vedere ancor più "puniti" i detenuti. Non dovrebbe stare a noi cercare la Giustizia... quello è già stato fatto dai Giudici che sono pagati per farlo... e magari, con un po’ più di umanità, sarebbe bello anche fare l’agente, senza frustrazioni, senza odio, e senza voglia di farla pagare a chi già sta pagando i propri debiti! Fare il proprio lavoro con dignità... onestamente e con un briciolo in più di umanità sarebbe "normale".... un giorno potrebbe essere un nostro figlio, un nostro caro, a "cadere" all’interno di un carcere... ed allora tutto assumerebbe un significato diverso... fare l’agente diventerebbe più difficile... diventerebbe forse un po’ più "umano"... e si cercherebbe di capire anche le necessità umane, (almeno quelle), di una persona "ristretta"!
La risposta di Ornella Favero, coordinatrice di Ristretti Orizzonti
Il suo messaggio è veramente una boccata di aria buona. Io non appartengo alla categoria di quelli che pensano ai detenuti come a delle vittime, però credo semplicemente che la realtà sia più complessa di come la vorremmo, e che quindi anche in carcere ci sono persone che hanno sbagliato e ne sono consapevoli, ce ne sono che hanno davvero la mentalità da delinquenti e il mito del denaro facile, e ce ne sono con un retroterra culturale e sociale così povero, che forse era inevitabile che, senza un aiuto dalla società, finissero in carcere. Quanto agli agenti, a me piacerebbe che ci fosse una diffidenza minore e una possibilità di scambio più forte: l’unica esperienza che ho avuto, di un corso di aggiornamento che ci ha coinvolti tutti, insegnanti, volontari, operatori, agenti, è stata positiva forse proprio perché, almeno per quegli agenti che hanno "la testa e il cuore" per interessarsi davvero dei problemi del carcere, ha dimostrato che dal confronto e dallo scambio di idee potrebbe derivare anche per loro una vita più decente. Quando lei scrive che potrebbe capitare pure a loro una persona cara che finisce in carcere, mi è venuta in mente una considerazione che faccio spesso: che cosa avrebbe detto e fatto, il padre di Erika, la ragazza che ha ucciso il fratello e la madre, se fosse stato solo il padre delle vittime, e non anche della assassina? Ecco, anch’io cerco sempre di pensare a questo: che potrebbe capitare a ognuno di noi di avere qualcuno "dall’altra parte". Mi piacerebbe pubblicare la sua lettera nel sito e nel giornale, ma naturalmente capisco se mi dice che preferisce di no.
La seconda lettera dell’Agente
Lei avrà notato sicuramente che ho scritto "a tutti potrebbe capitare di avere un proprio caro che "cade" all’interno di un carcere"... ecco, per l’appunto, a me è capitato. Non sono un agente della Polizia penitenziaria, ma sono comunque un agente di Polizia. Se una settimana prima che incominciasse la mia "doppia" vita (da poliziotto e da parente di un detenuto) qualcuno mi avesse chiesto che cosa avrei fatto, se mi fosse accaduto quanto poi è accaduto, gli avrei risposto che quel parente "avrei dimenticato" di averlo. Fortunatamente, invece, ho cominciato da subito a correre contro corrente; ho avuto la fortuna di iniziare a crescere ed arricchirmi ("poveri" quelli che non hanno la fortuna di capire!) di un’esperienza non comune: capire che la vita non è scontata... capire tante cose che non avresti mai accettato... capire che una persona, "normale", può sbagliare... capire che fare il tuo lavoro diventa ancora più significante, se lo vedi con un po’ più di umanità e se vedi tutti i lati delle persone. Non è stato facile... ci sono voluti anni perché io giungessi a capire quanto era accaduto... purtroppo e per fortuna non è una esperienza che capita a tutti, e non è semplice accettare le cose che non hai scelto di vivere... È sempre facile dire "io avrei fatto così, io mi sarei comportato così"... ma quando capita a te, è veramente tutto diverso... è veramente un altro mondo, un mondo parallelo, e solo chi lo vive e lo affronta dalla parte ed a fianco del detenuto, può capire. Ma per fugare ogni dubbio, comunque, Le voglio dire che non ho affrontato il mio lavoro in modo diverso da prima, ma semplicemente l’ho fatto con più serenità... anch’io come tutti i miei colleghi, nei primi anni del mio lavoro, ero convinto di avere la possibilità di giudicare, il dovere di "punire" chi sbagliava... ma non era così... era solo un’illusione ed una debolezza del mio carattere, che si nascondeva, a volte, dietro una divisa, perché diversamente forse non hai abbastanza "soddisfazioni" e sicurezze nella vita. So per esperienza che la divisa, se portata con un po’ di arroganza, e tanti altri piccoli difetti, non rispecchia proprio quello che dovrebbe essere il tuo lavoro... rispecchia solamente, purtroppo, una persona frustrata che cerca le sue sicurezze utilizzando l’abito che indossa. Ecco, ma voglio precisare che quello che ho voluto dire l’ho fatto solo per cercare di far capire ai miei colleghi che anch’io ero come loro... conoscendo l’ambiente del mio lavoro so per certo che i commenti, da parte di molti, saranno i "soliti" commenti "poveri" di gente "povera"... e non lo dico perché mi ritengo al di sopra degli altri, ma solo perché vorrei far capire che si giudica sempre in fretta, (lo faccio ancora anch’io), solamente con le impressioni che si hanno a prima vista... e ciò non è corretto; non si può conoscere una persona solo guardandola e conoscendola superficialmente. Preciso che le mie riflessioni le ho scritte senza offesa nei confronti di alcuno, e senza la presunzione di giudicare uno per tutti, o al contrario, credere che tutti siano superficiali... anzi, mi auguro veramente che tanti siano i miei colleghi "ricchi dentro", di persona e nell’animo.
La risposta di Ornella Favero, per Ristretti Orizzonti
La sua è davvero una gran bella lettera. Il fatto è che io credo che le persone in grado di capire meglio quanto è complicata la vita siano proprio quelle come lei, che si sono trovate a dovere per forza fare i conti con una realtà in forte contraddizione con le loro aspettative, con il loro modo di essere. Mi ha colpito l’onestà e la lucidità con cui lei analizza se stesso: il fatto di dire, per esempio, le sicurezze che aveva prima di assumere la doppia identità di poliziotto e di parente di un detenuto ("quel parente l’avrei dimenticato") e di raccontare poi come si può cambiare quando ti crollano le certezze che prima avevano protetto la tua vita. Io non le ho chiesto di pubblicare le sue lettere per una specie di "morbosità" giornalistica (il poliziotto col parente detenuto naturalmente attira l’attenzione). Glielo ho chiesto perché ci sono delle testimonianze dalle quali si ha l’impressione di poter veramente imparare qualcosa: la sua è una di queste. E poi mi sono piaciuti l’equilibrio e la sobrietà, che sono doti difficili da avere e da usare nella scrittura. Non so quanto lei abbia letto del nostro giornale, ma le assicuro che non è un giornale "tipico" da detenuti, con lamentele, vittimismi e simili. Mi sono battuta fin dall’inizio per uno stile asciutto e sobrio, perché solo così, io credo, si può parlare di carcere e cercare di farsi capire e accettare all’esterno. I toni urlati servono molto meno di uno stile pulito, privo di forzature, e sono infinitamente meno efficaci. Quello che lei ha scritto, da questo punto di vista, è così sincero, onesto e diretto, che non può non raggiungere davvero il suo scopo: quello di far riflettere.
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