|
Metadone in carcere
Tante domande, tanti dubbi, poche informazioni certe
Tra gli operatori sociali, ma anche a livello politico, da qualche tempo si è riacceso il dibattito sulla validità delle terapie che prevedono la somministrazione continuata del metadone per quei tossicodipendenti che non possono (o non riescono) a disintossicarsi. Di solito il confronto è positivo, però, in questo caso, mi pare si stia soffermando troppo sui principi generali, anziché entrare nel merito dell’intervento per cercare di capire come concretamente si realizzi, quale efficacia abbia, se vi siano delle possibilità alternative, etc.: la discussione ruota intorno alla maggiore o minore "moralità" del trattamento metadonico, rispetto alla disintossicazione forzata… Per sgomberare il campo dai malintesi premetto che, per me, una persona tossicodipendente è una persona malata: non è "viziosa", o "debole", o altro. Se siamo d’accordo su questo, saremo d’accordo anche sul fatto che ci si debba prendere cura di lei innanzi tutto da un punto di vista medico, la "morale" non c’entra nulla. C’entra, piuttosto, l’etica professionale, che dovrebbe regolare il rapporto tra il medico ed i suoi pazienti, affinché questi ultimi abbiano a sopportare le minori sofferenze possibili, nell’immediatezza e anche in prospettiva futura. Con un approccio di questo tipo dovrei essere favorevolissimo alla somministrazione del metadone, invece non è così, anzi ho parecchi dubbi al riguardo e avrei bisogno di risposte, di chiarimenti, in particolare sulla prescrizione delle terapie metadoniche di mantenimento ai tossicodipendenti detenuti.
Chi ha davvero bisogno della terapia metadonica di mantenimento?
Secondo i dati ufficiali in carcere ci sono 17.000 tossicodipendenti, tuttavia questa cifra è calcolata con i parametri giuridici, se fossero usati quelli della medicina i detenuti con problemi accertati di dipendenza da sostanze sarebbero probabilmente di meno. La dipendenza patologica dalle droghe pesanti (eroina e cocaina, soprattutto) non insorge in tutti coloro che ne fanno uso, anche a lungo e con frequenza: colpisce tra il 10 e il 20 % di queste persone, assumendo le caratteristiche di malattia cronica e recidivante. Rapportando questa statistica alla situazione delle carceri arriviamo alla conclusione che, fra tutti i detenuti, vi sono 2 o 3.000 persone inevitabilmente destinate a riprendere l’assunzione di droghe, quando saranno nelle condizioni per procurarsele. Possono rimanere senza sostanze per dieci anni, ricevere tutto il sostegno possibile, avere tutta la buona volontà di questo mondo, ma un giorno torneranno ugualmente a farsi. Se per i cocainomani il problema delle "ricadute" non è mai stato realmente affrontato, per gli eroinomani una cura c’è (che non può "guarirli", ma almeno li aiuta a vivere un po’ meglio), ed è rappresentata dal metadone. Assunto ogni giorno, libera la persona dipendente dall’assillo della crisi di astinenza, quindi dalla necessità di procurarsi l’eroina, e le permette di avere una vita abbastanza regolare. Fuori dal carcere questa soluzione è ormai sufficientemente collaudata, ma per renderla efficace anche con i detenuti vanno superati alcuni problemi supplementari. Chi entra avendo già una terapia sostitutiva prescritta dal Ser.T. deve soltanto poter proseguire la cura, ma sono in molti ad entrare in contatto con il Servizio Tossicodipendenze soltanto dopo l’arresto, in particolare tra gli stranieri. Com’è possibile diagnosticare la tossicodipendenza a queste persone, se mancano le condizioni "ambientali" perché la malattia si espliciti? (Se l’eroina non c’è o, comunque, è quasi impossibile trovarla, una persona smette per forza di farne uso, che sia dipendente cronica o meno). Allora, come ci si deve comportare? Nell’impossibilità di individuare i veri malati, il metadone deve essere prescritto a tutti i consumatori di eroina, anche a coloro che non sono affetti da dipendenza cronica (con il rischio che sia proprio il metadone a renderli dipendenti in maniera irreversibile)? Oppure non deve essere prescritto a nessuno (ignorando il reale bisogno di alcune persone, che non possono mantenere un equilibrio psicofisico senza il supporto di questo farmaco)?La somministrazione "a scalare" è un aiuto minimo e doveroso per rendere meno traumatica la disintossicazione forzata e non credo debba essere messa in discussione, mentre l’attenzione va rivolta principalmente ai programmi "di mantenimento"; sono questi che presentano le maggiori contraddizioni, ancor più evidenti in un istituto penale, dove le persone detenute scontano pene molto lunghe. A Padova i compagni che assumono metadone a mantenimento sono una ventina; qualcuno di loro ha pene decennali, quindi l’eventualità (o la certezza) che riprendano l’uso dell’eroina è lontanissima nel tempo.
Quali obiettivi, a breve e a lungo termine, ci si propone con la somministrazione del metadone?
All’esterno del carcere, come detto prima, il metadone garantisce al tossicodipendente una migliore qualità della vita. La particolarità della condizione detentiva non consente di focalizzare con altrettanta chiarezza i risultati che si perseguono con questa cura: il carcere raramente offre opportunità di vita sociale e di sviluppo delle potenzialità individuali; per chi è malato offre ancora di meno, spesso neanche la vaga speranza di guarire. Un tossicodipendente, fuori, passa dal Ser.T., prende il metadone, poi va a lavorare e la sera torna dalla sua famiglia (se ha la fortuna di avere una casa e un lavoro). In carcere va in infermeria, prende il metadone, poi torna in cella e, se ha un po’ di sale in zucca, se ne sta buono fino al mattino successivo, altrimenti comincia a sbattersi per avere degli psicofarmaci, o qualche "quartino" di vino. Un farmaco tira l’altro e, tutti assieme, servono per "andare via con la testa", per sottrarsi un po’ all’angoscia della detenzione. Quindi, la possibilità di sballarsi consente di patire meno la detenzione? Credo di no, perché in carcere anche lo sballo è un momento triste e la qualità della vita è data piuttosto dalla capacità di mantenersi lucidi, di alzarsi alle sette del mattino e uscire dalla cella alle otto, per sfruttare quel poco che l’istituzione offre. Spesso chi usa farmaci psicoattivi non ce la fa a seguire i ritmi obbligati della vita carceraria, si alza quando gli altri sono già usciti dalle celle, è sempre "imbambolato", e le sue giornate finiscono con il ruotare intorno alla distribuzione della terapia. Per non prendere nulla ci vuole una gran forza di carattere, soprattutto nei primi tempi della detenzione, ma ci vorrebbe anche molta coscienza da parte dei medici, perché qui è ben più facile iniziare a prendere farmaci psicoattivi che smettere di prenderli, e questo vale anche per il metadone. Non per nulla, quando lo scorso ottobre abbiamo fatto un’inchiesta sull’assistenza sanitaria, non abbiamo raccolto voci di compagni che, avendo chiesto farmaci di questo tipo, non li avevano ottenuti, mentre molti chiedevano aiuto per riuscire a smettere (due intervistati lamentavano problemi derivanti dall’assunzione del metadone). Sarebbe quindi necessaria un’indagine per accertare se i detenuti che assumono metadone partecipino alle attività culturali e sportive o, comunque, se vi siano nelle loro giornate degli indicatori di una migliore qualità della vita rispetto ad altri detenuti tossicodipendenti che, trovandosi in condizioni psicofisiche simili, non abbiano il supporto della terapia metadonica. Visto il numero abbastanza esiguo dei detenuti che assumono metadone a mantenimento, questa ricerca sarebbe anche semplice, ma finora non mi pare sia stata fatta. Il dubbio che mi sorge, a questo punto, è che il metadone, come avviene su più vasta scala con gli psicofarmaci, possa essere usato come strumento di controllo sociale: le persone che ne hanno bisogno sviluppano anche una subdola forma di dipendenza dall’istituzione, perché è attraverso di essa che ricevono la sostanza necessaria al proprio "benessere". Chi è in terapia non pianta grane, quindi è un "buon detenuto". Non mi convince troppo invece la motivazione, secondo la quale il mantenimento metadonico servirebbe soprattutto per evitare episodi di overdose all’uscita dal carcere. So bene che di queste tragedie ne accadono molte: così sono morti diversi compagni che conoscevo e, tuttavia, anche quest’aspetto del problema va visto nei dettagli. Intanto andrebbe fatta una distinzione tra i tossicodipendenti con pene brevi e quelli con pene lunghe: può avere un maggior senso dare il metadone a una persona che esce tra un anno, per ridurre il rischio che muoia di overdose, ma ha meno senso il darlo a una persona che uscirà tra dieci anni. Mantenerla in stato di dipendenza attiva per tutto questo tempo mi pare una cosa sproporzionata, rispetto ad un obiettivo di prevenzione tanto lontano. In dieci anni senza farmaci psicoattivi, forse, potrebbe costruirsi un percorso diverso, anche maturare una maggiore consapevolezza del proprio problema di dipendenza dall’eroina, in vista della scarcerazione. Poi c’è il discorso della prevenzione interna, perché non è un mistero che l’eroina circoli anche dentro le carceri (di più nei Circondariali, di meno nelle Reclusioni, per vari motivi). Anche su questo andrebbero fatti degli studi (non so se già ci siano), per capire se con la disponibilità del metadone diminuisca, oppure no, il ricorso all’eroina; se nelle carceri dove le terapie metadoniche sono prescritte più largamente si verifichino meno episodi di overdose, etc. Tutte queste cose io non le so, anche se mi occupo della salute in carcere da diversi anni, e dubito che le sappiano tante altre persone che esprimono pareri a favore o contro l’uso del metadone. Perché le informazioni su questo aspetto del problema non circolano a sufficienza? Credo che a molti (a me per primo), piacerebbe pure sapere quali risultati a lungo termine si conseguono con le terapie metadoniche somministrate durante la detenzione. Ad esempio, se le persone che hanno terminato la pena proseguono all’esterno la terapia, se mantengono i contatti con il Ser.T., se riescono ad avere una qualche forma d’inserimento sociale… Non sto chiedendo cose impossibili, tipo una "miracolosa" disintossicazione, sto chiedendo se un percorso di riduzione del danno può avviarsi anche dall’interno del carcere e se, fuori dal carcere, vengono fatte delle verifiche sull’esito di questi percorsi.
Ci sono delle alternative alla somministrazione del metadone in carcere?
A questa domanda vorrei rispondere in maniera volutamente provocatoria: la migliore alternativa, non solo al metadone, ma al 90% dell’assistenza farmacologica fornita in carcere, sarebbe la maggiore presenza di operatori specializzati. Un colloquio di mezz’ora la settimana, con un medico del Ser.T., o un educatore, o uno psicologo, credo rappresenti la massima aspirazione di ogni detenuto tossicodipendente, che oggi è abituato a vedere queste persone ogni sei mesi, ben che vada. Per motivi detti e ridetti (poco personale, troppi detenuti, etc., etc.) tutti i "buchi" dell’assistenza sanitaria sono riempiti con la prescrizione di farmaci. Merita invece di essere analizzata un’idea "alternativa", almeno per quel che riguarda gli episodi di overdose all’uscita dal carcere: nella già citata inchiesta dello scorso ottobre oltre il 50 % degli intervistati tossicodipendenti ha dichiarato di ritenere utile la somministrazione di farmaci "antagonisti" nell’imminenza della scarcerazione. Che io sappia, questa possibilità viene sfruttata pochissimo. Infine ci sarebbe il versante dell’informazione e della sensibilizzazione, strumenti irrinunciabili per prevenire ulteriori danni alla salute delle persone già alle prese con la tossicodipendenza, ma anche per tutelare quella di coloro che non sono tossicodipendenti ma rischiano di divenirlo in carcere, dove la prima dipendenza è quella dai farmaci (significativamente, l’infermiere che li distribuisce è chiamato, in gergo, "lo spacciatore"). Ma nel campo dell’informazione e della prevenzione in realtà, in questo come in molti altri istituti, non esistono interventi sistematici, qualcosa viene fatto nelle Sezioni a Custodia Attenuata, oppure con progetti limitati nel tempo, che presto passano senza aver lasciato un segno. È questo, invece, un terreno che dovrebbe essere battuto di più, perché il miglioramento della qualità della vita passa anche per una informazione più profonda e un maggior coinvolgimento dei tossicodipendenti stessi nell’occuparsi, in prima persona, del proprio destino.
Francesco Morelli Metadone in carcere
Ce ne parla Donatella Zoia, medico a San Vittore
È importante la presa in carico, la valutazione continua con il paziente degli obiettivi, del "dove stiamo andando" e "cosa vogliamo raggiungere"
Parlando di metadone credo sia assolutamente necessario premettere che il metadone è un farmaco, e, come tale, va considerato, da qualunque punto di vista se ne parli. Pertanto, come dice Francesco, la persona tossicodipendente e la sua cura (che sia il metadone o altro) richiedono una presa in carico medica e psico-sociale, nella quale la "morale non c’entra nulla. Le prove a livello scientifico (studi, pubblicazioni etc., anche molto recenti), ci dicono che il metadone è un farmaco sostitutivo sicuro per chi è affetto dalla dipendenza da eroina, quando sia usato secondo uno standard e dei criteri appropriati di presa in carico. La maggior parte dei paesi europei tende a privilegiare i trattamenti a mantenimento erogati da programmi a bassa soglia, basandosi sulle risultanze scientifiche che indicano un miglior funzionamento del metadone se somministrato a lungo termine
Fatta questa necessaria premessa, è sicuramente utile e importante affrontare il tema della terapia metadonica in carcere, sfatando alcuni "luoghi comuni" e affrontando invece la problematica nel suo complesso.
Il metadone, in carcere come fuori, viene prescritto a persone per le quali è possibile fare una diagnosi di tossicodipendenza, a persone, cioè, che presentano una sindrome astinenziale o un’intossicazione acuta. Nel primo caso è ovvio che la prescrizione e la somministrazione di metadone diventano fondamentali al fine di alleviare lo stato di malessere causato dall’astinenza. Nel secondo caso la valutazione è più complessa, perché nella fase acuta di intossicazione non si danno farmaci sostitutivi, e la loro necessità va valutata una volta passata questa fase acuta, e, sostanzialmente, se compaiono sintomi astinenziali. Chi come me lavora in un carcere giudiziario, sa quante sono ogni settimana le persone che entrano con sintomi seri di astinenza e quanto ha modificato la modalità di presa in carico il poter somministrare il metadone. Il primo luogo comune da sfatare, a questo proposito, è che in carcere l’eroina e le sostanze d’abuso in generale non ci sono o sono quasi impossibile da trovare. Molte ricerche e studi Europei (condotti in particolare in Inghilterra, nel Galles e in Germania, ma anche in molti altri paesi) evidenziano come il problema dell’uso di sostanze (eroina, cocaina ma anche altre sostanze d’abuso) sia molto elevato nelle carceri e come circa il 50% dei detenuti con problemi di tossicodipendenza continuino ad usare droghe all’interno del carcere. Questo dato scientifico ci dice che il problema della dipendenza resta invariato sia dentro che fuori dal carcere, e che quindi va affrontato nel suo complesso sia dentro che fuori. Come sottolinea Francesco, dunque, il problema è, come sempre, quali sono gli obiettivi di una terapia e di un trattamento. Dico "come sempre" perché non si tratta di un problema specifico della tossicodipendenza per qualunque malattia ci si pone il problema di "quale terapia" "quale trattamento" "per raggiungere quali obiettivi". Allora è su questo che dobbiamo ragionare e confrontarci, ma non si può farlo in assoluto. Cioè, non possiamo dire che tutti i tossicodipendenti devono arrivare a….. Dobbiamo dire che per ciascuna persona che ha un problema di dipendenza da sostanze è necessario individuare terapie, obiettivi, punti di riferimento ecc. Il metadone, come dicevo all’inizio, è un farmaco, e non va neppure enfatizzato, perché sicuramente, da solo, non risolve il problema. Per questo sottolineo che è importante la presa in carico, la valutazione continua, con il paziente, degli obiettivi, del "dove stiamo andando" e "cosa vogliamo raggiungere". E questo vale sia in carcere che fuori. Ad esempio, che obiettivo vogliamo raggiungere se scaliamo il metadone mentre una persona è in carcere? Che quando esce abbia risolto il problema tossicodipendenza? Forse questo è possibile, ma non semplicemente perché per un anno o due anni la persona non usa sostanze! È possibile se lo scalaggio avviene in un contesto terapeutico, che permetta di affrontare il problema da diversi punti di vista e se, al momento dell’uscita dal carcere, ci sarà un servizio che effettuerà un’altrettanto seria presa in carico, non importa se tra sei mesi o tra cinque anni. ‘importante è che il "percorso terapeutico" continui secondo le esigenze della persona e non secondo la durata della sua pena. È vero che la presenza di operatori specializzati è un’alternativa possibile sia alla terapia metadonica che ad altri farmaci, ma a questo, rispondo con un’altra provocazione: è anche vero che in carcere si sta male (e non intendo solo fisicamente) e che in carcere è difficile affrontare i problemi profondi che hanno portato le persone all’uso di sostanze e alla carcerazione, e pertanto, l’uso di qualunque tipo di sostanza (farmaci droghe o altro) diventa funzionale al superamento del malessere che ciascuno vive in carcere.
È verissimo che su tutto questo (percorsi, trattamenti, riduzione del danno) andrebbero fatti studi e verifiche serie, e che in Italia siamo molto indietro rispetto ad altri paesi che, invece, raccolgono sistematicamente dati e verificano progetti e interventi, ma questo dipende, secondo me, dal fatto che in Italia siamo molto più ideologici che in altri paesi relativamente al trattamento delle dipendenze.
E concludo con un ulteriore spunto di riflessione: se davvero consideriamo il metadone come un farmaco e pertanto non ne diamo un giudizio ideologico, che problema c’è se alcune persone continuano il trattamento per 10 anni (o per una vita), se alcune persone scalano il metadone in carcere, se altre vengono nuovamente indotte prima dell’uscita, se ad altre ancora vengono prescritti antagonisti in previsione della scarcerazione? Se il trattamento è soggettivo, inserito in un programma, nulla di questo dovrebbe preoccuparci. Dovremmo piuttosto chiederci (e chiedere ai vari Servizi territoriali): chi continuerà a seguire questa persona fuori dal carcere (o viceversa all’ingresso)? Come si affronterà il problema di un’eventuale ricaduta? A chi potrà rivolgersi per il problema della casa se non vuole andare (o non è il caso che vada) in una Comunità Terapeutica? Chi e come verificherà la sua terapia mentre è in una Comunità Terapeutica? Chi e come si occuperà di lui se c’è anche un problema psichiatrico? Credo che affrontare questi problemi (e molti altri simili) sia l’unico modo serio per parlare di trattamento della dipendenza, farmacologico o meno, perché sono così strettamente correlati.
Donatella Zoia Quanto
conta riflettere sullo stile di vita di ciascuno di noi,
Se ne è parlato a un corso di sensibilizzazione all’approccio ecologico-sociale ai problemi alcolcorrelati
Il temporale e il raggio di sole
Quando arriva un temporale e sei all’aperto, d’istinto cerchi un riparo, un rifugio sicuro. Ma quando il "temporale" l’hai creato tu, e sei tu quel temporale che arriva a devastare la normale esistenza, non esistono rifugi. Puoi solo soffermarti a guardare in te e cercare di capire il perché di quello che ti è successo. Di questo abbiamo parlato nel Corso di sensibilizzazione all’approccio ecologico-sociale ai problemi alcolcorrelati e complessi, che ha visto a Padova, dall’8 al 13 aprile 2002, l’impegno e la partecipazione attiva di 32 corsisti provenienti da diverse province del Veneto, sotto la direzione del dottor Pier Maria Pili. Durante le 50 ore di studio intensivo lo staff dell’A.C.A.T. e i relatori ci hanno portato a riflettere soprattutto sullo stile di vita di ciascuno di noi, che spesso determina anche il perché si inizia a bere e ad usare sostanze tossiche. Ognuno a seconda della propria esperienza ha potuto sviluppare le sue riflessioni, io sto continuando a farlo anche ora. È sano ripensare al proprio passato, per non ripetere più quei gesti, quelle azioni che hanno provocato quel temporale che ha devastato la tua vita e i tuoi affetti, sradicandoti dall’esistenza sociale e famigliare. E creando molte sofferenze.
Ma che cosa ci ha dato questo corso, dedicato ai problemi alcolcorrelati?
La composizione dei corsisti, particolarmente diversificata nella provenienza e nelle professionalità, ha costituito la vera ricchezza del corso. È stata una settimana intensa e produttiva, sia sul piano emozionale che su quello scientifico. Dalle lezioni e dal confronto nei gruppi e nelle comunità, favoriti da un clima "caldo" di accettazione reciproca, sono emersi contenuti nuovi e stimolanti che ci hanno portati ad alcune conclusioni importanti:
Alcune considerazioni personali a margine del corso
Abbiamo parlato molto, durante questo corso, del nostro passato, perché certo è parte di noi, il luogo e il tempo dal quale proveniamo. Ma anch’io ritengo un grande errore, in particolare per chi è detenuto, restare avvinghiati come un’edera al muro del nostro passato, se lo si fa si rischia di vivere in un tempo che di fatto non esiste più. Dal passato bisogna saper apprendere anche dalle esperienze sbagliate, farne tesoro, custodire le emozioni più belle, ma poi bisogna lasciarlo andare, abbandonarlo, lasciarlo dietro di noi. Per un periodo della mia vita, nel tentativo di cercare rimedi ai disastri combinati nel passato, come molti ho vissuto proiettato solo nel futuro. Progettavo scrupolosamente il mio domani, perché tutto ciò che facevo, e fanno quelli che continuano a usare questo sistema di vita, è vivere in prospettiva futura. L’ho fatto per troppo tempo. Non funziona! Pensare a quello che accadrà tra un’ora è già roba da maghi. La lezione che ne ho tratto, da questa settimana di studi, mi fa ritenere sano il vivere l’oggi. L’attimo esatto che sto vivendo. La definizione "Vivere alla giornata" è intesa come una persona che vive senza preoccuparsi troppo di cosa gli succederà domani. Non è ciò che intendo. Esiste un’altra definizione ed impostazione del concetto: "Vivere l’oggi vivere ora!". La vita è adesso, in questo preciso istante in cui sto scrivendo, per quest’istante è la musica che sto ascoltando mentre scrivo, questo primo raggio di sole che penetra coraggioso attraverso le sbarre e viene a dirmi buon giorno. Sono le persone che amo, le persone con cui lavoro, i progetti condivisi. Quante volte in carcere diciamo: "Sono sfortunato, la vita è stata avara con me, troppe sofferenze, non ho avuto niente dalla vita a parte molti anni di galera da scontare". Ma forse non ci siamo chiesti tanto spesso cosa abbiamo dato noi agli altri, alla vita. Vivere l’oggi vuol dire lavorare bene oggi, creare buone relazioni umane, farne tesoro, vivere esperienze positive, imparare cose nuove. Il domani si baserà soprattutto su quanto di buono stiamo facendo adesso. Non so cosa farò quando avrò terminato tutti i miei debiti con il carcere. Potrò decidere in piena libertà, ragionare senza condizionamenti, con la mia testa. Ma sono certo che qualunque sarà la strada che potrò e saprò scegliere, dovrò domandarmi se è gratificante, giusta per me e per chi mi sarà vicino. Soprattutto se mi permetterà di vivere con dignità nel contesto sociale che mi sarò scelto. Naturalmente queste sono valutazioni che nascono da una somma di esperienze, ma l’A.C.A.T. ha avuto per me un ruolo importante. Ho anche imparato a fidarmi un po’ degli altri. Costruirsi delle sicurezze rigide, credere di avere la risposta giusta, il punto di vista esatto porta ad autoisolarsi e di conseguenza all’esclusione. Chi vorrebbe avere a che fare con una persona che crede di avere già capito tutto dalla vita e per la quale nessuno ha niente da insegnarle? Lasciarsi prendere qualche volta per mano e farsi guidare è salutare, come hanno detto con forza Nicoletta Regonati ed Aldo Agus dell’A.C.A.T. Io penso oggi di cominciare a fidarmi di più degli altri, più cose conosco più mi rendo conto di quanto poco conosco, più esperienze faccio più mi accorgo di quante esperienze non ho fatto. A ripensare oggi, a quasi 45 anni d’età, a quel ragazzino di 19 anni, che credeva di conoscere il mondo e lo sfidava, provo una grande tenerezza, ma anche tanta rabbia per quanto ero ingenuo e stupido. La maggior parte della mia vita l’ho trascorsa in carcere, ma oggi sto vivendo con la consapevolezza che il mio domani dipende solo da me, dalle scelte che faccio oggi. In questo momento. A questa consapevolezza sono arrivato, tra l’altro, grazie al lavoro fatto nel club di cui faccio parte, anche se forse chi non ha mai frequentato un club faticherà a comprendere il livello di comunicatività che si instaura tra le persone sedute a cerchio, mentre senza paura di critiche si parla dei propri disagi. Al termine della settimana di studi, chi ha dato la sua adesione potrà a pieno titolo iniziare l’esperienza di servitore-insegnante in un club A.C.A.T. Ho saputo che molti dei miei compagni e compagne di corso sono entrati già nei club, accrescendo la loro conoscenza e mettendo in pratica quanto appreso. Da parte mia, ho rafforzato la convinzione che nessuno basta a se stesso. Che noi abbiamo senz’altro bisogno degli altri, ma anche gli altri hanno bisogno di noi. E io voglio esserci.
Nicola Sansonna I detenuti e le detenute devono stare separati per "ovvi motivi"
Riflessioni sulla sessualità in carcere e dopo, a partire dallo "strano" incontro di un detenuto della redazione di Ristretti con la redazione femminile della Giudecca
L’articolo che segue raccoglie le riflessioni di un detenuto che è entrato in "permesso premio" nell’Istituto Penale Femminile della Giudecca, come volontario che lavora nella nostra redazione. L’abbiamo inserito nella rubrica "Sani – dentro" perché la discussione con le donne detenute ha toccato i temi degli affetti, della negazione della sessualità, della difficoltà di tornare "normali" dopo l’anormalità della detenzione, dunque della fatica di restare sani quando si è "dentro".
Quando rientri da un permesso non hai nessuna voglia di scrivere quello che hai provato. Dopo anni di emozioni controllate gli spunti non mancherebbero ma, uscendo, assieme alla vita libera riscopri il piacere della riservatezza, negato dal carcere. Il traguardo rieducativo, infatti, "impone" che tu sia un libro aperto, che confessi (meglio se davanti a un pubblico) le tue debolezze e i tuoi desideri. In un certo senso non importa se reciti, l’importante è parlare molto, in modo che i vari operatori possano raccogliere elementi per capire se sei sincero o se fai la commedia. Io mi sono adeguato, pur continuando a credere che le "confessioni intime" non dovrebbero essere mai richieste e, a maggior ragione, riguardo ai permessi. Quindi ne parlerò il meno possibile, facendo soltanto delle eccezioni in casi particolari. Questo, mi pare proprio lo sia.
Durante l’ultimo permesso sono entrato alla Giudecca, in un carcere femminile! Mi hanno forse scambiato per una donna? Neanche per sogno, ci sono entrato in veste di "volontario": ho consegnato il documento d’identità, depositato gli oggetti personali negli armadietti dei visitatori; in portineria mi hanno perfino chiamato "signore"! Ho potuto incontrare le compagne della redazione veneziana… cosa che sul momento non mi è parsa tanto strana: collaboriamo da quasi tre anni, sia pure a distanza, e di loro conoscevo i nomi e le storie, pur non avendole mai viste di persona. Che si sia trattato di un piccolo evento l’ho capito in seguito, ripensando alle modalità della riunione: nell’ufficio degli educatori, con la porta aperta e alla presenza di quattro volontari veri, cioè persone non - detenute. "I detenuti e le detenute devono stare separati, per OVVI MOTIVI", scrivono, in un tema, gli studenti di terza media che abbiamo incontrato lo scorso mese a Limena. I ragazzi riescono a dire, con naturalezza, ciò che gli adulti non osano: bisogna evitare qualsiasi occasione di possibile intimità tra detenuti di sesso diverso. Sarebbe "pericoloso" (oltre che immorale). Del resto, per molte persone è scandaloso pure che i detenuti vogliano avere degli incontri intimi con i propri partner liberi, figurarsi che cosa penserebbero se nelle carceri vi fossero spazi di vita comune tra uomini e donne. Per conto mio, ho percepito subito una notevole affinità con le donne della Giudecca: condividiamo la stessa esperienza e abbiamo, chi più chi meno, gli stessi problemi, nel rapporto con l’esterno, con le rispettive famiglie. Di questo abbiamo parlato ed anche con franchezza. Non intendo, però, fare una cronaca dell’incontro; preferisco approfondire il tema di cui abbiamo discusso "la sessualità vietata ai detenuti", perché penso che su questo argomento si debba lanciare un’iniziativa forte, per uno svecchiamento culturale che chiama necessariamente in gioco anche chi è estraneo ai problemi strettamente carcerari. Sulla nostra strada ci sono due grossi ostacoli: la concezione del sesso come vizio e la sua degradazione a "bene di consumo". La religione ne fa il peccato per eccellenza e il materialismo ce lo fa percepire come un privilegio. Sul primo problema Adriano Sofri ha scritto un articolo, di grande lucidità intellettuale, dal titolo "Il sesso del prigioniero mandrillo". Ne riporto integralmente un brano, che vorrei aver scritto io: "Il sesso è piacere e vizio: è peccato. Dunque, la privazione sessuale non ha bisogno neanche di essere presa in conto nei codici, nominata nei regolamenti, per essere imposta come costitutiva della prigionia. Essa appartiene alla necessaria afflizione: di più, essa è il cuore dell’afflizione. Tutto ciò ha fatto dimenticare che la privazione sessuale è una barbarie che si aggiunge alla privazione della libertà e al dolore: e fa apparire l’ipotesi della possibilità regolata di una relazione sessuale come un cedimento spericolato e lussurioso fatto al piacere, cioè alla peccaminosa superfluità, dell’animale umano in gabbia. Vi si svela il fondo sessuofobico di ogni reclusione e di ogni castigo". Sul secondo aspetto non mi pare vi siano analisi altrettanto precise, ma è sufficiente ricordare la famosa canzone di un altro Adriano, Celentano, "Chi non lavora non fa l’amore", per rendersi conto che il sesso bisogna "meritarselo" e rappresenta pure uno degli strumenti di controllo sociale più efficaci. Quando la religione aveva ancora un peso preponderante nella definizione delle convenzioni, bisognava essere sposati per poter fare del sesso in maniera lecita; oggi bisogna essere "produttivi"… pensate allo sconcerto che suscitano le storie d’amore tra persone disabili, o tra malati di mente. Questo atteggiamento viene giustificato (con una logica un po’ nazista), con il "rischio" che nascano dei bambini a loro volta ammalati, quindi senza un futuro. Ma è soltanto una scusa; nei fatti, in una comunità che si pone come traguardo più alto la produzione (di beni e servizi), io credo che chi è improduttivo rappresenti un peso, un’anomalia da correggere, una "sottospecie" dalla quale è necessario differenziarsi il più possibile. Poiché la vita sessuale è l’elemento che più accomuna tutti gli uomini, a fronte di tante diversità (dalla cultura, alle fattezze, etc.), ecco che il vero spartiacque tra i "normali" e gli "anormali" è il pacifico riconoscimento del diritto alla sessualità per i primi e la negazione dello stesso per i secondi. E non c’è dubbio che noi detenuti apparteniamo alla seconda categoria: per la legge siamo "soggetti socialmente svantaggiati", proprio come per i disabili e i malati di mente. Questo vuol dire che le persone normali faranno il possibile per "aiutarci" e, allo stesso tempo, per ribadire la distanza che c’è tra noi e loro. L’amore in carcere? Quando mai? Al massimo c’è la perversione, lo sfogo animalesco, la prostituzione… In questi mesi ho letto tanti documenti sulla sessualità dei detenuti, dai trattati scientifici ai racconti, a volte deliranti, a volte fortemente ironici degli internati nell’Ospedale Psichiatrico Giudiziario, ma non ho trovato nulla che riguardi il dopo – carcere, quando si presume che la persona rimessa in libertà riprenda una vita "normale", anche sotto il profilo sessuale. Forse si dà per scontato che sia così e, quindi, non c’è nemmeno il bisogno di parlarne… Una risposta certa non ce l’ho, posso soltanto dire che nelle prime uscite in permesso ho scoperto tante altre "disfunzioni", piccole e grandi, che il carcere mi ha provocato: la messa a fuoco della vista è bloccata sui cinque metri, la dimensione della cella, e oltre questa distanza vedo immagini annebbiate; non riesco a orientarmi, a riconoscere le vie e le piazze della città, dopo dieci anni vissuti percorrendo sempre lo stesso corridoio; le notti le passo insonni, perché mi manca la rudezza della branda (i letti veri sono troppo "comodi") e anche il sottofondo di rumori del carcere. È molto difficile sentirsi "normali" quando ti usano per degli esperimenti (saranno di tipo sociale, ma la parte della cavia la fai ugualmente) e forse questo è un motivo in più dei tanti fallimenti sulla strada del reinserimento: tutto è "scientifico", studiato e collaudato. Troppo scientifico e troppo poco umano… a un certo punto senti il bisogno di ribellarti, anche solo per demolire le certezze di quelli che credono di sapere tutto di te.
Francesco Morelli
|