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Lettera
aperta ai giornali "normali"
Siamo i redattori di un giornale "anormale": anormale, perché realizzato da detenuti; anormale, perché si occupa seriamente di carcere e disagio, in un momento in cui si preferisce parlare di città sicure e basta; anormale, perché sulla sicurezza ha il coraggio di avanzare delle proposte e di chiedere di confrontarsi su quelle. Siamo stati fra gli organizzatori, pochi giorni fa, di una Giornata di Studi dedicata al tema "Carcere: Salviamo gli affetti", che ha richiamato a Padova, all’interno della Casa di Reclusione, tantissime persone (più di 300) e pochi giornalisti. Niente da dire, per carità, sappiamo le leggi che regolano l’informazione, ed evidentemente quel fatto non faceva notizia. Eppure, visto che alla gente oggi interessa particolarmente parlare della propria sicurezza, forse un po’ di attenzione in più lo meritava. Da quella Giornata di Studi è uscita una bozza di proposta di legge, elaborata da una commissione tecnica (c’erano parlamentari, magistrati, avvocati, operatori penitenziari, detenuti), che propone tra l’altro, anche per le carceri italiane, dei colloqui "intimi", senza controlli visivi, tra detenuti e famigliari. Oddio, anche il sesso in carcere!, dirà più di qualcuno. Ebbene, per tornare al tema della sicurezza, vorremmo proporvi qualche osservazione meno superficiale:
Ora, se l’insicurezza arriva da chi commette reati, è evidente che chi sta in carcere è la fonte prima dell’insicurezza passata e la fonte quasi certa dell’insicurezza futura, e le cifre, da questo punto di vista, parlano chiaro, c’è un 70 % di recidivi (se non di più) tra chi esce dal carcere. Dunque, o ci trasformiamo in un regime, e teniamo in carcere a vita chi ha commesso una rapina, o siamo uno stato civile, e dunque aggrediamo il problema da un altro lato, quello dell’effettivo reinserimento di queste persone nel tessuto sociale. Come tenere lontana dal crimine più gente possibile? Siamo un paese che ama parlare di famiglie, che per la famiglia farebbe di tutto: allora, per una volta, non smentiamoci, occupiamoci di famiglie. Di famiglie che colpe non ne hanno, a meno che non si ritenga una colpa avere un parente in carcere, perdere il suo sostegno, anche economico, gravarsi di spese per gli avvocati, ritrovarsi a vivere la vergogna e il marchio di "moglie o figlio di detenuto".
Due sono allora le proposte uscite dal carcere di Padova, da questa Giornata di Studi sugli affetti:
Per finire, di che cosa ha più paura una "sana" famiglia italiana? Di un detenuto, che esce dal carcere abbandonato da tutti, senza più una moglie e dei figli e l’orgoglio e la volontà di ricostruirsi una vita per loro, o di un detenuto che, durante la carcerazione, è stato aiutato a salvare i suoi legami familiari e a sperare in un futuro più decente? Sembrerebbe una domanda scontata, ma non lo è affatto finché si continuerà a parlare di sicurezza in termini di pene maggiori e città-fortini, e non si investirà nulla sul dopo-carcere, salvo spendere invece montagne di soldi per mantenere gente in carcere. E finché chi fa informazione non saprà far altro che mostrare i fatti che creano insicurezza, e non le possibilità e i modi di interrompere la catena che questa insicurezza la provoca: carcere - dopo carcere in stato di abbandono - reato - carcere.
La redazione
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