|
Un incontro in redazione con Federica Brunelli, mediatrice penale Dobbiamo avere la forza di ascoltare Vittime che parlano all’interno di un carcere, autori di reato che imparano a stare a sentire la loro sofferenza
a cura della Redazione
Federica Brunelli, mediatrice dell’Ufficio per la Mediazione penale minorile di Milano, la conosciamo bene, l’abbiamo già intervistata, conosciamo la sua competenza su un tema delicato come il rapporto tra vittime e autori di reato. L’abbiamo invitata in redazione perché ci aiuti a preparare questa Giornata di studi così complicata, che stiamo organizzando nel carcere di Padova, alla quale abbiamo dato un titolo molto impegnativo, “Sto imparando a non odiare”.
Ornella Favero: Vorrei cominciare la discussione da due posizioni, che si sono delineate nella nostra redazione, rispetto alla Giornata di studi sul rapporto tra vittime e autori di reato: alcuni sostengono che si devono invitare proprio tutti, anche rappresentanti di Comitati che sono schierati su posizioni molto dure, altri dicono di no, perché, volendo impostare l’incontro sull’imparare a non odiare, lo scopo non è di fare una iniziativa rappresentativa di tutte le tendenze, ma di misurarci a partire dall’esigenza di un confronto e un dialogo, non di un clima di scontro. Su questo quindi ci piacerebbe sentire il tuo parere. La seconda questione riguarda gli ex terroristi. Il Magistrato di Sorveglianza di Padova ci aveva detto che gli piacerebbe che fosse invitato a intervenire un ex terrorista pentito, però noi abbiamo delle riserve sul come organizzare questo confronto. La prima osservazione è che, se noi abbiamo deciso di ascoltare le vittime, dobbiamo rispettare il fatto che qualcuna di loro non se la senta di confrontarsi con degli ex terroristi, però è altrettanto vero che, se una vittima ritiene che un ex terrorista debba essere escluso, per esempio, dalla possibilità di avere un ruolo importante nelle Istituzioni o di essere candidato alle elezioni, come è successo con D’Elia, allora naturalmente sarebbe interessante che anche gli ex terroristi esprimessero le loro ragioni, quindi anche questa è una situazione problematica che ti sottoponiamo. La terza questione, siccome tu sei proprio una esperta in mediazione, riguarda come gestire una Giornata di confronto fra vittime e autori di reato, perché è davvero molto complicata, intanto qui ci sono e saranno presenti molti autori di reato, non reati di terrorismo, ma reati comuni, e forse servono anche delle regole su come dialogare in una situazione così delicata. Per esempio oltre alla redazione ogni anno partecipano alle nostre Giornate di studi più di cento detenuti del carcere, che però non sono, come noi, abituati a discutere di questi temi. Noi pensiamo che non possano venire impreparati, che dobbiamo prima riunirli e spiegare il senso di questa iniziativa, e il modo con cui vogliamo porci all’ascolto delle vittime, anche delle vittime di reati comuni, come quella insegnante che è stata sequestrata durante una rapina. Questi sono un po’ i problemi che abbiamo e su cui vogliamo ragionare anche con te. Marino Occhipinti: Io credo che se le persone che sono state vittime di reati accettano di entrare in un carcere, sono consapevoli di non trovare solo detenuti responsabili di furto, cioè io non credo che pensino questo, ma certo prima di decidere che possa o debba intervenire un ex terrorista, mi sembra giusto parlarne anche a loro, questo mi sembra un gesto minimo di correttezza e di chiarezza. Federica Brunelli: Io però oggi preferirei ascoltare soprattutto voi, perché poi il convegno è vostro, e mi mette anche un po’ in imbarazzo questa responsabilità di dover dire come penso sia più giusto che le cose avvengano. Quello che comunque mi ha molto colpito, quando ho ricevuto il programma della vostra Giornata di studi, è l’idea di ragionare con le vittime di reati dentro a un carcere, questa credo sia abbastanza una novità ed anche un rischio, perché è una delle prime volte che io vedo messa in opera l’idea di far parlare vittime e autori di reato in un posto “virtuoso”, uno spazio comune, al di là del fatto che siamo dentro un carcere, perché comunque noi di solito vediamo sempre spazi in cui o parlano autori di reato, o parlano le vittime. Quando ho ricevuto la bozza di programma, mi sono detta: accidenti, coraggiosi però! perché non è semplice, ed è anche una cosa poco sperimentata un confronto del genere. Qui voi, rispetto a quella puntata di Ballarò dedicata al libro di Mario Calabresi, fate un pezzettino in più: in quella trasmissione è stata data voce alle vittime, sono state ascoltate le loro storie, è stata una bella e toccante trasmissione, e probabilmente fino a vent’anni fa sarebbe stato inimmaginabile pensare di offrire uno spazio e un’attenzione di questo genere alle vittime di reato, offrire luoghi nei quali narrare le propria storie di vittima. Questo ci dice che la sensibilità è cambiata; tuttavia, secondo me, occorre evitare il rischio che a confrontarsi da oggi in poi siano dei monologhi, isolati e separati e quindi a me sembra molto importante la vostra iniziativa, perché è la scommessa di cominciare a creare dei luoghi in cui tutti i protagonisti provano a parlare insieme, quindi questo mi sembra davvero che sia il passo ulteriore che deve essere fatto. Milan Grgic: La legge tutela giustamente più le vittime che gli autori di reato, e mi sembra corretto che parlino di più le vittime. Marino Occhipinti: Le vittime sostengono il contrario però, che è sempre stata data voce agli autori di reato e molto meno a loro. Federica Brunelli: Sì, sappiamo come per lungo tempo, nonostante il processo tuteli le ragioni delle vittime, esse abbiano sempre avuto, soprattutto durante l’esperienza processuale, poca voce e poca considerazione. Marino Occhipinti: Le vittime per esempio dicono che gli scaffali delle librerie sono pieni di libri scritti da ex terroristi, delle vittime non c’è mai niente, così come nelle trasmissioni televisive vedi spesso ex terroristi, mentre le vittime le vedi molto meno. Bolognesi, presidente del Comitato vittime della strage di Bologna, è uno che dice: noi non siamo mai da nessuna parte, siamo sempre esclusi da tutto, perfino dall’avere un ruolo vero nei processi. Io credo comunque che il fatto che un incontro del genere sia organizzato in un carcere sia significativo, perché fuori di queste cose si parla o nell’ambito della mediazione penale, o in qualche trasmissione sul terrorismo. In carcere invece credo che noi pensiamo molto di più a rivendicare il diritto alla salute, agli affetti, al lavoro, però delle vittime si parla un po’ poco, perché credo che sia anche imbarazzante per noi toccare certi argomenti, sicuramente è un disagio e una fatica. Milan Grgic: Io però sono stato in carcere a Novara e ho lavorato con un terrorista, ma loro non si considerano neanche criminali. Io non so se bisogna distinguere fra reati comuni o reati politici, considerato che loro si dichiarano sempre prigionieri politici, magari ci vuole tra noi un detenuto per reati politici per affrontare questi temi. Elton Kalica: Ma parlare dei reati di terrorismo secondo me può diventare molto scivoloso, perché io vedo che qualsiasi persona che adesso parla di rapporto fra vittima e autore di reato va a finire immancabilmente sul terrorismo, perché anche il Magistrato è andato a finire sull’ex terrorista, di fatto ci ha proposto di invitare qualche ex terrorista, ma noi non vogliamo che in questa giornata si parli di vittime del terrorismo e di terroristi, noi vogliamo allargare il campo, perché questa iniziativa viene fuori da una redazione con persone condannate per vari tipi di reati, quindi non dobbiamo perderci in mezzo a questioni che poco ci interessano, anche perché non vorrei che si arrivasse a una specie di “revisione critica” di qualcosa che non ci appartiene, nessuno qui è dentro per reati di terrorismo. Un problema invece che in qualche modo è legato al terrorismo, ma che comunque ci riguarda tutti è quello della visibilità, perché noi ci teniamo anche a prendere una posizione su questa questione, considerato che abbiamo sempre sostenuto che chi è autore di un reato dovrebbe avere il buon senso di non apparire troppo, evitando se possibile di intervenire in televisione, perché così in qualche modo va ad aprire una ferita magari non ancora rimarginata alle proprie vittime, ecco di questi argomenti abbiamo discusso e vorremmo affrontarli al meglio. Federica Brunelli: Una cosa che mi sembra di aver colto è che ci sia in voi un estremo bisogno di creare una occasione che sia giusta per tutti, quindi di non fare torto a nessuno e di avere equilibrio. Non sempre però l’equilibrio nasce dalla simmetria, non è che se ho due vittime del terrorismo devo avere due terroristi e allora ho l’equilibrio. Quindi io mi sento poco preoccupata per il fatto che avremo delle vittime di terrorismo, mentre qui nel carcere di Padova non ci sono persone per reati di terrorismo, perché non si tratta di fare un convegno sul tema “terrorismo”, ma di confrontarsi su un sentimento, quello dell’odio, su cosa è, cosa produce, cosa lascia nelle persone, come e se si possa gestire e superare, un tema che può essere molto più trasversale. Quindi è logico anche esprimersi in modi “asimmetrici”, perché una vittima di terrorismo ne parlerà in un modo, e una vittima di un altro reato ne parlerà in un altro, ma l’aspetto interessante mi sembra che sia che tutti si confronteranno su questo tema. Per esempio per voi sarebbe importante sentire di cosa ha veramente bisogno una vittima? non lo so, o che la vittima ascolti come vive, come si sente una persona che ha commesso un reato e che è stata condannata e sta in carcere? perché questo secondo me è lo scambio significativo che poi può avvenire. Una cosa interessante può essere forse anche riuscire a creare un’occasione per cui le persone parlino della loro storia, più che parlare come categoria di persone, quindi che ci sia lo spazio per delle storie che sono individuali a prescindere dalla categoria dentro cui possa essere messa una persona, vittima di terrorismo, non vittima di terrorismo. Maurizio Bertani: Io ad esempio sono uno di quelli che propende con convinzione per l’invito di tutte le parti in causa, parlando di vittime, e non solo coloro che hanno messo alla base della loro esistenza la rinuncia all’odio per la consapevolezza che comunque l’odio non porta con sé nulla di positivo. Teniamo presente poi che le vittime arrivano all’odio per un torto subito che a volte è devastante, ma non hanno dentro un odio proprio, l’odio è derivato da ciò che gli è accaduto, ecco perché ritengo che debba intervenire anche chi questo odio lo ha ancora dentro e continua in un modo o nell’altro a nutrirlo, perché non posso limitare il mio ascolto solo a coloro che l’odio l’hanno accantonato. Se dobbiamo imparare a smettere di odiare, dobbiamo riuscire anche a parlarne con chi questo odio lo nutre sotto forma di rancore, di desiderio di vendetta, e comunque se si impara a dialogare, il che non è per niente facile, ritengo che possa scemare anche l’odio. Noi siamo persone che stanno scontando una pena per aver commesso un reato e forse siamo arrivati a questo reato proprio perché carichi di odio verso qualcosa o qualcuno, questo significa che imparare a smettere di odiare può solo far bene a tutti, poi naturalmente non è detto che tutti ci riescano, ma è certo che se si riesce a parlarne le cose migliorano. Per questo ritengo che non si possa escludere nessuno da questo convegno, magari invitando alcuni comitati di vittime si può anche ricevere un no, ma io ritengo che perdano una buona occasione per esprimere il proprio pensiero e raccontare la propria storia. Per quanto riguarda la questione del Magistrato di Sorveglianza che vorrebbe che al confronto partecipasse anche un ex terrorista pentito, la questione “pentito” non mi piace molto perché non si sa mai a quali fini uno si pente, ma se si tratta di ascoltare una persona per reati di terrorismo che magari si è dissociata oppure si è fatta la sua galera e adesso lotta nel silenzio per vivere la sua vita, e quella persona mi spiegasse qual è stata la molla che l’ha spinta all’odio fino a mettere in atto comportamenti devastanti, e mi spiegasse qual è stata poi la spinta che l’ha fatta retrocedere da questo odio, anche qui sicuramente ne esce una storia in cui il dialogo o l’ascolto può portarmi a sviluppare una riflessione. E quando si riflette c’è sempre qualcosa di positivo, mentre il silenzio o il non confrontarsi racchiudono in sé una continua incubazione dell’odio, e c’è da scommettere che questo odio non si stempererà, ma si cristallizzerà, diventando sempre più forte fino a rovinare anche l’esistenza di chi questo odio se lo porta dentro, ecco perche rimango da una parte preoccupato, ma dall’altra convinto che ascoltare tutti, e che tutti si rendano disponibili ad ascoltare gli altri, possa essere solo positivo. Daniele Barosco: Io sostengo la posizione opposta a quella di Maurizio, nel senso che io escluderei a priori i due estremi, sia le vittime che si costituiscono nei comitati chiedendo che la punizione, la vendetta e l’odio siano perenni, sia i terroristi o altri che non hanno fatto una ragionevole riflessione che al loro male non c’è nessun rimedio, quindi sarei proprio netto nell’eliminare a priori i due estremi, e mantenere solo quelli che entrano nella logica del tema proposto dall’incontro, “Sto imparando a non odiare”. L’idea è che tu partecipi a questo convegno solo se ti adegui a questo fatto, non c’entra poi che tu sia terrorista o delinquente comune, o famigliare di vittime di terrorismo o vittime di delitti comuni, o comitati vari, conta solo discutere per confrontarsi in maniera leale e sincera in un rapporto fra persone che hanno commesso reati e che hanno subito reati. Marino Occhipinti: Io non credo che sia poi utile riunire intorno ad un tavolo tutte persone che la pensano alla stessa maniera, non credo che ci possa essere una gran discussione o un gran confronto. Daniele Barosco: Sì, ma per sederti ad un tavolo della pace tu devi rinnegare la guerra, tu devi smettere di essere belligerante. Sandro Calderoni: Anch’io penso che, se il convegno ha al centro l’idea di imparare a non odiare, dovrò ascoltare chi questo percorso lo ha già fatto, allora può darsi che mi insegni qualcosa, viceversa se viene chi odia e continua ad odiare sicuramente non mi insegna niente, è come me. Federica Brunelli: Quando facciamo le mediazioni e appunto ci capita di invitare chi ha commesso il fatto e chi lo ha subito, di solito non arrivano alla mediazione persone che sono già “mediate”, nel senso che tutto il lavoro è da fare, quindi magari arrivano che non hanno per niente voglia di fare la pace, anzi magari hanno voglia di dire tutto il male che pensano dell’altro. Da lì si parte, cioè può essere un punto di partenza; allo stesso modo penso sia importante lasciare la libertà a chi interverrà di dire cosa pensa, senza che per forza tutto sia già risolto né in se stessi né rispetto all’altro; presterei attenzione invece al fatto di non spostare il fuoco della discussione su altro, questa non è l’occasione per parlare solo dei reati di terrorismo e di ciò che il terrorismo è stato, perché questo potrebbe far virare l’incontro su dei temi che non sono quelli su cui voi volete lavorare. Ornella Favero: Il mio timore è che il dibattito si sposti su toni anche di violenza verbale di cui io non ho voglia, però detto questo vorrei ragionare con Daniele a partire dal titolo, “Sto imparando a non odiare”. Intanto inizialmente volevamo intitolarlo “Ho smesso di odiare”, ma proprio per l’attenzione maniacale che abbiamo per le parole ci siamo resi conto che in fondo queste due frasi erano radicalmente diverse, perché “Ho smesso di odiare” era come risolutiva rispetto a un sentimento che io credo sia molto resistente e duro dentro ognuno di noi in circostanze diverse. “Sto imparando a non odiare” indica invece, anche rispetto a chi sta in carcere, un percorso difficile fatto di alti e bassi e di ritorni indietro, per cui è impensabile che uno arrivi in una situazione del genere con la patente per dire “Io non odio”. Io vorrei però che chi viene venisse con una idea che forse è diversa dall’odiare o meno, ed è quella di ascoltare, anche perché mi accorgo che sempre di più, per esempio quando andiamo nelle scuole agli incontri con gli studenti, la cosa più difficile è ascoltare, perché mettersi in una condizione di ascolto è già un passo straordinario secondo me, per cui uno che viene qui, dovrebbe arrivare con questa idea di ascoltare, pur sapendo che troverà già delle cose che lo infastidiranno. Quando per esempio ho parlato con Andrea Casalegno, che ha avuto il padre ucciso dalle Brigate Rosse, lui all’inizio mi ha detto: sì, io vengo, però guarda che io non sono uno buono, sono uno che ritiene che chi ha commesso dei reati di sangue non debba parlare in pubblico. Io gli ho risposto che noi non vogliamo quelli buoni, però ho precisato che, se viene in un carcere, ci sono persone che hanno commesso reati di sangue e che parleranno perché io intendo che parlino, e lui questa modalità l’ha accettata. Quanto all’invitare a intervenire ex terroristi, secondo me se noi capiamo davvero l’importanza delle vittime, e se in questo caso abbiamo deciso di partire ascoltando le vittime, io ritengo di dover chiedere alle vittime se accettano questo confronto. E se io voglio avviare un dialogo devo dire che mi metto all’ascolto delle vittime e accetto di definire prima le regole di questo confronto. Se comunque ci saranno o parleranno ex terroristi, come spero, io voglio chiedere a loro di non essere nella scaletta del convegno, perché non mi pare giusto dire: interverrà Olga D’Antona e poi l’ex terrorista… La cosa di cui discutiamo da tempo, e so che può risultare fastidiosa, ma è importante, è quella del protagonismo: io credo che chi ha ucciso abbia avuto nelle sue azioni un protagonismo assoluto, quello di decidere sulla vita e la morte di una persona, allora a me piacerebbe che una persona che ha commesso un reato del genere capisse che deve per una volta nella vita accettare di non essere protagonista. Per esempio, se fai un lavoro sociale, perché chiedi che questo lavoro sociale significhi candidarti alla Camera? perché non accetti di rinunciare non a un ruolo sociale, ma alla visibilità senza limiti? Daniele Barosco: La mia posizione è che io escluderei anche da questo convegno sia i Magistrati di Sorveglianza che chi si occupa di mediazione penale, perché vorrei, come persona e come detenuto, confrontarmi sul problema del rapporto tra autori e vittime di reato senza nessun tipo di pregiudizio o di condizionamento. Marino Occhipinti: Non ricordo se questo è il sesto o settimo convegno che facciamo qui a Padova, in tutti gli altri convegni i relatori sono sempre stati su posizioni simili, perché finché si parlava di lavoro in carcere o di salute, pur con punti di vista diversi tutti erano in accordo sulle linee di fondo, ma questo non è un convegno cosi, è un convegno particolare. Se si pensava diversamente si poteva anche non farlo perché questo è il convegno in cui ci sono delle vittime e ci sono degli autori di reato, e tu invece non vuoi il discorso della mediazione, che secondo me invece è l’unico possibile per avvicinarli e aiutarli in qualche modo a dialogare. Federica Brunelli: Mi piacerebbe che vedessimo insieme un filmato che ho visto e poi preso durante una conferenza a Città del Capo in Sud Africa per i 10 anni della TRC e che rappresenta un incontro tra i famigliari di una vittima dell’apartheid e un colonnello della polizia (che firmò gli ordini di tortura pur non agendo mai in prima persona) La vittima era un attivista politico, non del partito di Mandela, ma di un altro gruppo combattente, che un giorno viene portato in carcere e in carcere subisce per ordine di questo colonnello delle torture, e soprattutto ad un certo punto viene avvelenato, poi lui viene rilasciato, ma gli effetti del veleno continuano nel tempo, e lui sta sempre peggio, viene ricoverato in ospedale non cammina più perde i capelli, quindi il veleno continua a lavorare, e lui decide allora di fare causa alla polizia. A due settimane dal processo scompare e nessuno saprà più niente di lui, non si troverà mai il corpo. A quindici anni dal fatto, dopo che il colonnello aveva chiesto l’amnistia presso la TRC, il colonnello chiede di incontrare i famigliari del ragazzo, e allora fanno un incontro alla presenza di una telecamera, di un regista che riprende e che testimonia questo incontro, ma senza alcun “terzo mediatore”. Il colonnello ci va perché ha il desiderio di parlare con questa famiglia, questa famiglia ha il desiderio di parlare con lui. Fanno questo incontro, ed è molto interessante perché è assolutamente inerente al tema del vostro incontro, dunque sarebbe bello poterlo vedere insieme per capire anche cosa può accadere quando vittime e autori di reato provano a parlare insieme da soli, senza nessuno che li aiuti quando l’odio è presente, in un incontro dove non c’è nessuno se non i diretti protagonisti, quello non è un incontro di mediazione, è più un incontro come lo immagina Daniele, senza nessun esterno che intervenga. Voi ci avete invitato e noi veniamo volentieri, però non sentiteci come invasori di un vostro spazio, questa non è la nostra intenzione. Daniele Barosco: No, non è questo il problema, ma quando un magistrato dice che ci vorrebbe anche un terrorista, poi da Roma magari dicono che ci vorrebbe anche qualche vittima che ha subito violenza da qualche altra parte, poi arriva un altro che vuole chiamare anche il papà del brigadiere della polizia penitenziaria che hanno ammazzato, allora diciamo che se dobbiamo restare dentro un circuito che è gestito con i fili da un’altra parte, questo convegno per me non ha nessun senso. Se ci deve essere un confronto e un dialogo, bisogna che ci sia quella discriminante del “Sto imparando a non odiare”, perché se le parti rimangono sulle loro ragioni, allora è certo che combatteranno ognuna con le proprie armi e non ci sarà una pacificazione ma una guerra. Federica Brunelli: Io credo comunque che una quota di imprevedibilità sia inevitabile, perché magari uno arriva e pensa di essere pacificato, ma poi si siede al tavolo e invece cambia da così a così, quindi non possiamo essere certi, l’armistizio, il posare le armi non è una pace, non è la stessa cosa, per cui prendiamo atto che ci sarà una quota di imprevedibilità. Allora la presenza di mediatori serve per accompagnarvi e non per comandarvi, ma serve perché magari delle competenze, rispetto alle dinamiche si possono produrre fra autori e vittime che si parlano, noi le possiamo mettere in gioco, se ci sono dei momenti di difficoltà noi vi possiamo aiutare, perché lo facciamo come “professione”. Può essere importante cercare di accompagnare questo parlarsi insieme, che a volte se si fa da soli può essere un po’ un rischio, perché se poi uno tira fuori le cose che ha dentro, non può essere mediatore di se stesso, non siamo dei superman che riusciamo a fare tutto, quindi in questo senso la presenza di Adolfo Ceretti e la mia dovete viverle in questo senso, e certo non come un togliervi lo spazio. Lucia Faggion (volontaria): Io penso che già il titolo “Sto imparando a non odiare” indica un percorso, che ha comunque delle ricadute, per cui non si può essere cosi schematici, cioè per parlare di questo sentimento dell’odio bisognerebbe avere il coraggio di affrontare parecchie sfaccettature, non solo quello che dal punto di vista negativo può arrecare provare odio, ma anche avere il coraggio di saperlo affrontare nel senso opposto, cioè che cosa può dare l’odio, che cosa può rappresentare per una persona provare questo sentimento, come può anche aiutarla provare un sentimento di questo genere magari in un primo momento. Secondo me, come ha detto Ornella, sarebbe importante che ci fossero persone disposte all’ascolto e al confronto, ma se ci fosse anche qualcuno che non avesse nessuna intenzione di allontanarsi da questo sentimento, ma ne parlasse senza nasconderlo, secondo me ci potrebbe in realtà aiutare, e non dobbiamo avere paura di affrontarlo da varie angolature, e anche vedere o sentire una testimonianza dove si dice “Io odio”, non trovo che dobbiamo aver paura di questo. Io invece, come Elton, sono dubbiosa nei confronti di un intervento di ex terroristi perché mi dispiacerebbe che i mezzi di informazione parlassero solo di questo, che poi all’esterno si dica che c’era la D’Antona e poi c’era un ex terrorista, e basta. Elton Kalica: La riflessione che volevo fare io è che quel giorno non possiamo cercare né di essere protagonisti, e nemmeno che sia protagonista soltanto chi dice quello che noi speriamo che dica, allora a me va bene che la discriminante sia quella di “Sto imparando a non odiare”, che è anche il titolo che abbiamo scelto, ma io credo che a questa ne vadano aggiunte anche altre. Noi detenuti innanzitutto siamo qui dentro perché in qualche modo siamo stati vittime del nostro odio, oppure abbiamo coltivato questo odio per un periodo più o meno lungo nell’arco della nostra vita e abbiamo fatto del male a qualcuno e siamo finiti in carcere. Noi abbiamo sempre detto che, per come è il carcere oggi, per quanto è difficile la vita in carcere, vuoi per il sovraffollamento, per la mancanza di lavoro, per le cure sanitarie che non vengono erogate come si deve, per mancanza di regole certe, l’odio che avevamo prima non è che è venuto meno, ma anzi continua a crescere, magari prendendo direzioni diverse ma comunque cresce. Allora siccome qui noi siamo una redazione di un giornale e il lavoro di informazione ci ha sempre spinto a ragionare, questi ragionamenti ci hanno portato a pensare e dire che dobbiamo imparare noi prima di tutti a non odiare. Ma come facciamo ad imparare a non odiare se viviamo in una condizione in cui è difficile non odiare, perché lo sappiamo tutti che a stare in carcere, esser privati della libertà, dover subire delle restrizioni che vanno oltre a quelle che sono previste e tollerate, diventa istintivo che l’odio cresca. Allora abbiamo deciso di farcelo insegnare da persone che sono state vittime di reato, che hanno odiato perché si sono viste danneggiate in vario modo, e poi hanno fatto un loro percorso, e allora noi le stiamo chiamando per farci spiegare e per capire come si arriva all’abbandono dell’odio, sperando poi che questa lezione che loro ci danno sia possibile trasmetterla ad altre vittime che vivono nell’odio, o meglio che a causa dell’odio non vivono. Ecco, speriamo che i loro interventi abbiano questo duplice effetto, il primo che magari qualcuno di noi impari a non coltivare l’odio, cosi quando esce fuori invece di andare a farsi giustizia da sé o invece di risolvere i problemi in modo sbagliato, scelga altre strade, e il secondo effetto, che quelle vittime, che non fanno altro, in un clima di tensione come quello di adesso, che aggiungere benzina al fuoco, aggiungere odio e intolleranza, magari ci ripensino un po’. Ornella Favero: Io voglio tornare sul ruolo dei mediatori, perché secondo me è fondamentale la loro presenza, proprio per la presunzione, che è anche di tanti di voi qui dentro, che si possano affrontare questi problemi da soli. Voi da soli, scusatemi ma credo che non ne sareste stati capaci, se non fossero venuti per esempio gli studenti nessuno avrebbe ragionato sul fatto che anche un furto può cambiare la qualità della vita di una persona, perché noi, compresi noi volontari, diciamo tutti che il furto è un reato minore, e basta. Allora secondo me dobbiamo capire che sia le vittime, che gli autori di reato, che noi cittadini comuni non sempre siamo capaci da soli di imparare a non odiare, il ruolo della mediazione penale è questo secondo me, è il capire che ci sono delle situazioni di conflitto in cui un detenuto non può fare un percorso di vera riflessione sul reato se non si misura con le persone fuori, se non impara ad usare anche le parole giuste per assumersi la sua responsabilità, e qui mi sembra che lo diciamo spesso, quindi secondo me è centrale il discorso della mediazione penale. La formula che voi usate regolarmente, per esempio, “Io ho pagato il mio debito”, è significativa di una difficoltà ad assumersi davvero le proprie responsabilità nei confronti delle vittime. Io ribadisco brutalmente che il debito non è pagato, attenzione però, io sono favorevole al fatto che le pene siano inferiori, preferirei che un detenuto sapesse di dover scontare una pena non troppo pesante, ma avesse la consapevolezza che nessuna pena ripaga chi ha subito un reato, tu quel pezzo di vita della persona non lo ricostruirai più. Per questo quando siamo agli incontri con gli studenti, è importante fare attenzione alle parole. Per esempio un’altra cosa che ripeto sempre con un po’ di cattiveria, ma ci vuole delle volte, trovo insopportabile quando dite “Sì, ho commesso un reato grave, ma poi ho capito che mi sono rovinato la vita”. Se tu dici che hai capito di esserti rovinato la vita non hai capito niente, perché tu devi sforzarti di dimenticarti della tua vita in quel momento, e dire “Ho capito che ho rovinato la vita a delle persone”, poi verrà anche il fatto che te la sei rovinata tu, però se non hai questa consapevolezza che il debito è cosa diversa dalla pena, secondo me non si fanno grandi passi avanti. Daniele Barosco: Sono d’accordo, l’unica cosa che non vorrei è che i giudici condizionassero un tavolo di ragionamento sulle vittime e gli autori di reato e che si parlasse di mediazione penale senza ribadire a sufficienza che deve essere un atto volontario e non subordinato ad un obbligo o a un interesse. Federica Brunelli: È vero quello che dici tu, che spesso i giudici parlano della mediazione penale non come un passo libero e volontario, ma come un percorso obbligato. Come esperto al Tribunale di Sorveglianza, mi capita spesso di confrontarmi sul tema della mediazione, della riparazione e insisto sempre sul fatto che la mediazione deve essere appunto libera e volontaria e se diventa una prescrizione, tanto più la prescrizione di un fare o di un dare per esempio una somma di denaro decisa a priori dal collegio, non ha più senso, non è più riparazione, che – al contrario – dovrebbe nascere da un consenso. Altrimenti ogni azione rischia di essere una pena travestita da riparazione, ma è una pena perché la logica non cambia. Allora io vengo al vostro convegno per dire queste cose, e secondo me è un’occasione, e ci sarà anche la d.ssa Giuffrida che è dirigente del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria che parla di questi temi in modo corretto, quindi potrà dire anche lei qualcosa rispetto alla sperimentazione che si sta cercando di fare in Italia con tanta fatica, però devono essere delle sperimentazioni che siano di mediazione e di giustizia ripartiva e non altro. Sarebbe già importante che magari si capisca che forse la vittima non li desidera i cento euro, che magari il denaro non corrisponde per niente a quello che le vittime desiderano, per cui secondo me è importante che le vittime che interverranno dicano quello che desiderano e di cosa ha bisogno una vittima, e che tutti, compresi i magistrati, le ascoltino. Cosa passa nella testa di chi afferra una persona e le punta una pistola addosso Se ripenso al rapinatore che mi ha usata come ostaggio per una rapina in banca Quando chi ha subito un reato e chi lo ha commesso sono di fronte
di Elena Baccarin
È una mattina come le altre, qui a scuola. Solita routine tranne per uno scambio d’orario per il Progetto “La Scuola entra in Carcere”. Sono in Quinta con i colleghi che si occupano del progetto. Stiamo aspettando che arrivino i detenuti che ci presenteranno la loro esperienza. Gli studenti sono un po’ emozionati, un po’ curiosi e mi chiedono qualche consiglio sulle domande che possono fare. Io sono molto tranquilla, non come la prima volta che ho affrontato questo incontro. Mi sento di potere rassicurare i ragazzi con l’esperienza di chi ha già potuto appurare di persona che i detenuti sono persone normali e sapendo che dalla porta della classe non entrerà nessun alieno. E infatti così è: entrano le persone che conosco e mi metto ad ascoltare i loro discorsi. I ragazzi a volte fanno domande a bruciapelo e mi allarmano perché sembrano mancare di sensibilità, costringendo a rievocare solo per curiosità personale frangenti di vita che credo dolorosi. Mi spaventa il fatto che siano così fermamente convinti che a loro non accadrà mai di commettere un reato. Ma poi riflettendo penso che, forse, alla loro età la pensavo anche io così perché a 18 anni, in genere, non si sono ancora vissute quelle esperienze che ci portano al fondo di noi stessi e che, in un attimo, potrebbero farci compiere qualcosa di drammatico. Durante il primo racconto a tratti sono un po’ assente, penso alle mille cose da fare. I ragazzi cominciano a chiedere sottovoce se conosco il motivo per cui quei signori sono finiti in carcere… ed ecco che uno di loro dice di essere stato un rapinatore. Qualcosa inizia ad agitarsi dentro di me, un ricordo non troppo lontano ma che credevo oramai messo da parte. Invece, non è così. Una forte tensione mi assale, mi manca quasi il respiro e vorrei uscire dalla stanza mentre sento il racconto di quello che succedeva durante una rapina “tipo” ad una banca. Non ci vedo quasi, poi, capisco che l’unico modo per riprendermi è proprio approfittare di questa occasione che la vita mi ha posto di fronte in modo così inatteso, proprio quando mi sembrava che non ce ne fosse più bisogno. Sono sempre stata convinta che la vita sia una spirale meravigliosa che attraverso i suoi incomprensibili giri ci pone sempre di fronte a quello che non abbiamo superato, a quello che ci fa paura ma che, con ostinazione, cerchiamo di mettere a lato, rimandando ad un altro momento. Ecco il momento è arrivato. Chi ha subito un reato e chi lo ha commesso sono di fronte, ma più che vittima e colpevole ci sono due persone qualsiasi: io e Nicola. Se ripenso al rapinatore che mi ha usata come ostaggio per una rapina in banca, non riesco a ricordare molto di lui, forse solamente gli strattoni che mi ha dato, le sue imprecazioni urlate al cassiere, il piccolo cerchio gelido della sua pistola puntata sulla mia nuca. Questa, di tutte, è la sensazione di cui ho fatto più fatica a liberarmi. Non mi riesce di vedere Nicola sotto quella veste, non riesco a immaginare nella veste del rapinatore l’uomo che appare qui, davanti a me, così mite. È un momento intenso, fatto di rabbia repressa e di forte emozione. Posso finalmente chiedere alcune cose, per cercare di capire cosa passa nella testa di chi, in quei momenti, a sangue freddo, afferra la prima persona che gli capita davanti e le punta una pistola addosso. Nella mia testa, in quei momenti si alternavano due pensieri a ritmo intermittente: “Adesso mi spara se non gli aprono” e “Non si sente mai che nelle rapine uccidano gli ostaggi”. Una consolazione, forse anche se in quei momenti non c’è il tempo di riflettere: il tempo si dilata e sembra tutto un sogno e si vorrebbe credere che non sta capitando proprio a noi. Il confronto con Nicola è rincuorante, mi conferma la validità della mia seconda supposizione. Forse è stata solo una mia impressione, ma anche Nicola mi sembrava stupito ed emozionato da questo scambio inaspettato. Succede a tutti i detenuti di cambiare la propria vita? Di voler rimediare?
E alla fine dell’incontro c’è stato un momento molto emozionante perché nell’abbraccio che Nicola mi ha dato mi sembrava di avvertire il desiderio quasi di scusarsi, lui per qualcun altro, per quello che mi era successo. È stato l’incontro di due estranei che, senza saperlo, avevano in comune qualcosa. Avrei voluto chiedergli molto altro ma non me la sentivo davanti agli studenti e, in seguito, non me la sono sentita di riaprire il discorso. Non mi pareva di avere il diritto di tirare fuori ricordi di un passato che forse bisogna anche lasciare andare prima o poi. E mi chiedo se sia più utile continuare a parlare di un vissuto sbagliato e lontano o se faccia male riportarlo alla luce spesso. In fondo, non è lui che mi ha fatto del male. Chissà cosa ne è stato del vero rapinatore che ha preso me: se ci penso non riesco ad immaginare che possa essere come Nicola mi appare. Continuo a vederlo aggressivo e violento, freddo e implacabile. Senza cuore. Mi chiedo: forse on sono in grado di perdonare? Di dare una seconda possibilità a chi ha sbagliato? Non so se potrei fidarmi di lui. Lo sto scoprendo ora, da persona coinvolta. Succede a tutti i detenuti di cambiare la propria vita? Di voler rimediare? Ho creduto molto nell’importanza di questa esperienza tra il carcere e la scuola per il mio desiderio di conoscere, di sapere quello che c’è oltre al meccanismo della perfetta vita quotidiana che non trova spazio per reati, vittime e colpevoli. Di solito queste cosa riguardano sempre qualcun altro e ne sentiamo parlare alla tv e sui giornali. Andare in visita in carcere è un’esperienza forte che molti dovrebbero fare. Il mio ricordo è fissato sul rumore delle porte che si chiudono man mano che si procede all’interno. È la sensazione più intensa che mi è rimasta. E ora, quando mi capita di passare in auto nei pressi del carcere di Padova, mi soffermo sempre a pensare che dentro a quel blocco ci sono tante persone che vivono. Anche in altri momenti, mentre sto per uscire o per fare altre cose mi capita di pensare alla routine del carcere. Prima, non l’avrei fatto. E le persone che ho incontrato lì dentro sono solo persone come le altre che vedo all’esterno: è molto facile guardare negli occhi di questi uomini e trovarci l’umanità, la fragilità, la stessa pasta di cui siamo fatti tutti. Ma, mi chiedo, riuscirei a trovare queste stesse cose negli occhi di quel rapinatore? In certi occhi c’è anche qualcosa di sfuggente che inquieta. Un tentativo di risposta a una persona che ha subito una rapina Per una volta mi sono trovato col pensiero dall’altra parte di un’arma Non vi è ragionamento che possa compensare lo stato di malessere di una vittima, si può solo provare un totale smarrimento di fronte a lei. E non c’è neppure nessuna scusante che giustifichi da parte dell’autore il suo reato
di Sandro Calderoni
Sono un detenuto e svolgo attività di volontariato all’interno di questa redazione da ormai parecchi anni. E tra le varie cose che di solito si fanno in un ambiente dove si produce e si riceve informazione, visto il contesto particolare in cui ci troviamo, cerchiamo anche di far conoscere come realmente è il carcere e chi ci sta dentro. Quattro anni fa è iniziato il progetto “Il carcere entra a scuola. Le scuole entrano in carcere”, proprio perché si voleva dare ai giovani un’idea del carcere come è visto da chi lo vive da dentro e inoltre fornire delle conoscenze che permettessero loro di valutare e considerare il carcere senza tutti quei luoghi comuni che media, film e altri tipi di informazione tendono a disegnare. Man mano che il progetto andava avanti, mi rendevo conto che ha mutato molto anche il mio atteggiamento, perché la curiosità e la voglia di conoscere dei ragazzi è disarmante, al punto da portarmi spesso a confrontarmi con il mio passato. E mi sono accorto così che anch’io avevo i miei luoghi comuni, le mie convinzioni e i miei falsi idoli, e, importante per me, mi sono reso conto che questa esperienza mi sta arricchendo molto, proprio grazie al fatto che nel confrontarmi con persone che vengono da fuori, come gli studenti e gli insegnanti, scopro dei punti di vista, dei ragionamenti e delle esperienze che mi pongono in una prospettiva che, sotto molti aspetti, oltrepassa il senso egoistico e opportunistico della propria visione della vita. Questo pensiero si è rafforzato quando ho letto l’articolo di Elena Baccarin, un’insegnante che ha raccontato la sua esperienza come vittima di una rapina in banca, ha descritto il suo stato d’animo quando era in ostaggio del rapinatore, i pensieri che le passavano per la testa e il timore di morire… per una volta mi sono trovato dall’altra parte di un’arma e sono stato davvero male. Mi sono reso conto che persone, che conducono la loro vita serenamente, si vengono a trovare a volte in situazioni totalmente al di fuori dai loro schemi, in balia di un’altra persona, che per raggiungere un suo scopo non esita a rompere l’armonia altrui. Non vi è ragionamento che possa compensare lo stato di malessere di una vittima, si può solo provare un totale smarrimento di fronte a lei. E non c’è neppure nessuna scusante che giustifichi da parte dell’autore il suo reato. Quello che c’è invece quasi sempre é solo una leggerezza, un’ indifferenza al valore della persona che possono unicamente mortificare e deludere chi subisce reati. Prima non vedevo questo, ero un rapinatore, in particolare un rapinatore di banche, e nonostante la gravità del reato in sé, ero convinto che prelevando denaro, con un’arma in mano per spaventare gli altri, in sostanza non recavo un particolare danno psicologico alle persone che assistevano al fatto, anche perché, con una certa presunzione, ero sicuro che non avrei mai fatto del male se non fossi stato in pericolo io stesso. Ora non sono certo di questo, ora capisco che solo per il fatto di avere un’arma in mano vuol dire che mettevo in conto anche di doverla usare. Non so se questa mia consapevolezza, riassunta in queste poche righe, che mi è stata donata dal racconto della professoressa, possa ridare un po’ di serenità e tranquillità a lei, credo che non vi sia una ricetta per questo, ma so comunque che grazie a lei forse ho cominciato a capire come si sente una vittima di un reato. Un tentativo di risposta all’insegnante, vittima di una rapina Un confronto che a me può fare solo del bene, anche dentro la sofferenza Conosco molto bene la parte del carnefice e, ripercorrendo con la memoria alcuni fatti del mio passato, mi rendo conto di quanto male posso aver procurato
di Maurizio Bertani
Ho avuto modo, frequentando la redazione di Ristretti Orizzonti nel carcere di Padova, di affrontare anche temi delicati e complessi nel corso delle discussioni. Negli ultimi mesi la nostra attenzione si è rivolta ad esaminare in modo più approfondito la sofferenza provocata, con gesti a volte sottovalutati da chi li compie, alle vittime di ogni tipo di reato. Ho avuto modo inoltre di leggere la lettera di una insegnante di una scuola che partecipa al progetto “Il carcere entra a scuola. Le scuole entrano in carcere”, che si è trovata nella condizione di vittima, essendo stata sequestrata durante una rapina in banca con un’arma puntata alla testa e usata dai rapinatori come scudo e deterrente nei confronti degli impiegati. Ho potuto così capire tutta la sua sofferenza e la paura che ha provato. Devo ammettere che come rapinatore questa storia mi ha molto colpito, personalmente non ho mai pensato di collocare fra le vittime anche persone che di fatto sono state coinvolte nell’esecuzione di un reato per un caso fortuito, o meglio sfortunato, e invece, sbagliando, ho sempre considerato come vittime solo tutte quelle collegate a reati di sangue. Questo scritto mi ha costretto a ragionare e a valutare criticamente il mio modo superficiale di pensare, che mi obbligava a cercare giustificazioni che mitigassero le mie responsabilità. Ma non ne ho trovate, non si può infatti affermare che esista il caso fortuito, almeno nella situazione descritta dalla professoressa. È logico che la rapina riguarda due attori principali, il rapinatore e la banca, ma di fatto dobbiamo riconoscere che esistono molteplici figure che vi prendono parte e sicuramente la loro non è una parte secondaria, pensiamo a tutti gli impiegati, che lavorano all’interno dell’istituto bancario, ai clienti, che al momento della rapina si trovano in banca, infine a tutti coloro che vengono coinvolti come vittime di reati collaterali, pensiamo a quelle persone a cui viene rubata l’auto per commettere la rapina. Insomma, le figure coinvolte sono tante e tutte subiscono violenza fisica o psicologica, e volere sdrammatizzare non solo è stupido, ma diventa offensivo verso quelle vittime che si sono viste, anche solo per poco tempo, defraudate della propria vita e della propria tranquillità esistenziale. Personalmente non mi sono mai trovato dalla parte della vittima, conosco molto bene la parte del carnefice e ripercorrendo con la memoria alcuni fatti, mi rendo conto di quanto male posso avere procurato ad una persona tranquilla che esce al mattino da casa salutando magari i suoi cari, e poi verso la fine della mattinata si trova di fronte un individuo armato, che per quanto autocontrollo possa avere, sicuramente urla, è agitato, punta un’arma e prende in ostaggio, seppur momentaneamente, tutti i presenti. Ho rivissuto attraverso la lettera di questa insegnante i mille volti e le mille paure che ho incontrato nel corso della mia dissennata vita, e che superficialmente giustificavo a me stesso come paure momentanee e da relegare esclusivamente allo spazio e al tempo del reato, non rendendomi conto dell’impatto psicologico che chi subisce tali violenze si porta dentro nel tempo. Una rapina può porre la persona che l’ha subita in uno stato di timore e paura di fronte a qualsiasi situazione, anche la più banale come un eccessivo trambusto o un alzar di voci, insomma credo si finisca per essere estremamente condizionati nei rapporti sociali, e provare un’angoscia che diviene allo stesso tempo un mal di vivere, e tutto questo per una violenza subita. Allora mi chiedo: valgono oggi le mie scuse a tutte quelle persone che ho trasformato in vittime? Sicuramente sì, se non fosse per la paura che vengano travisate come frutto di una scelta opportunistica, che è poi il senso di malessere che mi impedisce di porle. Sicuramente posso dire che l’imparare a parlare, o meglio a dialogare, anche dentro un contesto particolare come la redazione di Ristretti, mi ha aiutato a rapportarmi e a confrontarmi con gli altri, siano essi detenuti, volontari, studenti, o la professoressa, che tramite il suo scritto ha dato l’avvio a mille domande e ad altrettante risposte, aprendo con me un dialogo che mi ha portato a ragionare in modo meno leggero e superficiale. Ho imparato che le vittime di qualsiasi reato subiscono violenza, e che la violenza incrementa nell’animo umano l’odio; che, per un autore di reati, sentire le vittime che parlano del loro odio per la violenza subita, da una parte non è piacevole, e può essere un sentire pesante. Ma se questo confronto mi consente di conoscere le loro sofferenze, se questo mi porta a ragionare, e a fare valutazioni fino ad oggi mai fatte, allora mi convinco sempre più che questo confronto può fare a me solo del bene, anche dentro la sofferenza. Abbiamo bisogno di evitare di asserragliarci nel nostro personale fortino E invece, quando si subisce un furto nella propria abitazione, nel luogo dove più di ogni altro sono custodite speranze, ricordi e miserie, la voglia è quella di chiudersi e lasciarsi dominare dalla paura
di Alberto Verra
Mia mamma anziana ha subito da poco il classico furto in casa con scasso della porta, nulla di paragonabile alle vere vittime che hanno perso un loro caro, però devo dire che la reazione immediata a questo genere di eventi da parte mia è sempre la stessa, ovvero vorrei che le forze dell’ordine dessero una punizione spropositata agli autori del reato. Certo a freddo la reazione è diversa, più equilibrata e soprattutto dopo, quando ricordo Stefano (NdR: Alberto ha conosciuto Stefano e ha letto i suoi articoli, il racconto della tossicodipendenza che lo aveva portato a rubare per la droga) e penso che anche lui avrà fatto arrabbiare tanta gente, rimango disorientato e mi domando: se avessi sorpreso Stefano a rubare in casa di mia madre quale sarebbe stata la mia reazione? Certo mi sarei arrabbiato, ma non avrei voluto una punizione che lo annientasse definitivamente. Dunque la mia relazione con “Ristretti” mi ha reso più equilibrato, almeno a freddo. Forse tutti abbiamo solo bisogno di comunicare di più, abbiamo bisogno di essere meno dissociati gli uni dagli altri e di sentirci aperti al mondo, evitando di asserragliarci nel nostro personale fortino. E per questo (oltre che per rivedervi) verrò il 23 maggio alla Giornata di studi su vittime e autori di reato. Quando si subisce un furto nella propria abitazione, nel luogo dove più di ogni altro sono custodite le proprie speranze, ricordi e miserie, la sensazione è quella di una bruciante ferita fisica. Si viene colpiti in quel prolungamento psichico che è parte integrante della persona, questo non viene mai percepito dal ladro, che viceversa spesso considera l’atto poco più di uno scherzo da ragazzi, una bravata di cui vantarsi al bar. Il furto in casa non è poi così poca cosa come talvolta si tende a considerarlo, specie se colui che lo subisce è persona anziana o fragile, e ritengo che spesso le pene per questo tipo di reato siano lievi, soprattutto quando la condanna “ufficiale” viene “slavata” da un patteggiamento, vari benefici, quando non completamene annullata dall’indulto. Non dobbiamo però mai perdere di vista i fatti, perché i fatti non si patteggiano, né si possono far rivivere con riti abbreviati e questo lo dico per sgombrare il campo da pregiudizi rispetto a quel che sto per scrivere. Nel maggio del 2004 entrai per la prima volta all’interno delle mura di un carcere, per assistere ad un convegno sulle misure alternative alla detenzione, invitato dalla redazione di “Ristretti”, qui conobbi detenuti, volontari e altre persone. La cosa che ricordo meglio è stata una piccola frase detta sottovoce da un detenuto e che nel tempo si è trasformata in uno spunto per varie riflessioni. Parlavo con lui quando, ad un certo punto, il mio interlocutore, vedendo passare un altro detenuto poco distante, dopo averlo salutato con un cenno della mano, mi sussurrò col fare di una vecchia portinaia: “Quello è un delinquente…”. Qui sta il punto. Alle orecchie di un uomo libero e mediamente onesto come ho l’ardire di considerarmi, quella frase risultò comica oltre misura, in quanto, nell’opinione generale di coloro che non hanno mai avuto a che fare con il carcere (o come dico oggi in tono scherzoso: quelli che stanno fuori perché non li hanno ancora presi), un galeotto vale l’altro, dunque diventa paradossale, in apparenza, che qualcuno che ha commesso reati rilevanti definisca “delinquente” un individuo che nel sentire comune è classificato come suo “collega”. Con il tempo, ho capito che la frase poteva essere assunta a paradigma per spiegare le reazioni dell’uomo, sia quando è vittima, sia quando è aggressore: ognuno di noi pone se stesso come misura rispetto al mondo circostante, questo è il fattore che più d’ogni altro condiziona il giudizio sugli eventi, mentre la solidarietà scatta solo se c’è l’identificazione. Vittima e autore di reato: serve la consapevolezza reciproca dell’esistenza dell’altro
Stretto tra questi due argini rappresentati dal prendere se stessi come misura e l’incapacità di identificarsi con l’altro, diventa difficile porre delle basi, affinché vittima e aggressore instaurino un dialogo. Come avviare questo rapporto? Una regola sulla misura della punizione da dare la si può ricavare dalla gravità del danno, a cui deve essere proporzionata, ma come possiamo ricavarne un’altra sull’accettazione del reo da parte della vittima? Come fare per tagliare il filo che lega la vittima al suo aggressore in modo definitivo, liberando entrambi? Il tempo può dare una mano, ma in alcuni casi non basta e in altri quel filo può essere solo assottigliato, ma mai definitivamente reciso, solo la consapevolezza concreta e reciproca dell’esistenza dell’altro, che deve arrivare fino alla possibile identificazione, può dare un risultato. Chi è la vittima? Colui che subisce un danno, e questo può andare anche al di là della legge. Dunque, anche il detenuto è vittima? Certamente, seppur, qualcuno dirà, vittima più che altro di se stesso. Questo aspetto, questo punto di vista può aiutare i due soggetti ad identificarsi e quindi innescare quel processo che attraverso la solidarietà porta al riconoscimento. In fondo secondo me la rieducazione non è altro che la sensibilità verso la condizione altrui, e qui devo dire che sotto questo aspetto anche parecchi cittadini “onesti” dovrebbero ricevere pure loro una qualche forma di rieducazione. Il senso inverso a questa direzione, ovvero l’azione che poggia sugli istinti, sulla convenienza e sulla superficialità, ci metterebbe su una strada che prima o dopo avrebbe come capolinea il lager e la ripetizione di orribili esperienze Mi rendo conto che tutto questo bel discorso poi si scontra con la realtà, con la strutturazione perversa dell’uomo e quella similare del mondo, ma alternative non ce ne sono, siamo costretti a perseguire la via maestra dello studio per arrivare a una comprensione dell’azione umana, ricercandone l’origine e le radici profonde, questo è il passamano al quale aggrapparci per non farci travolgere dall’istinto. Rimangono le lacrime delle vittime di oggi e di ieri che non potranno, in certi casi, essere asciugate ma solo rispettate, e questo rispetto lo si esprime soprattutto agendo in modo tale che le lacrime di domani siano il più possibile limitate. Questo rispetto va giudicato da questo risultato, non da quante persone sono rinchiuse in prigione. Io credo però che nessuno può permettersi fughe in avanti, riuscire a consolidare e ottimizzare leggi come la “Gozzini” è il massimo obiettivo possibile oggi, come domani e forse anche dopodomani, più in là non si può andare, il mondo non è ancora pronto e ancor meno pronti sono la maggior parte dei detenuti. Pudore, prudenza e riflessione, servono sia da parte di coloro che invocano un ritorno al passato, sia da parte di chi ancora non ha capito fino in fondo quello che ha fatto. Allora io penso che un rapporto tra vittime e autori di reato possa essere possibile solo nell’ambito di una capacità di prendere decisioni misurate ed equilibrate da tutte le parti. Un’ultima cosa devo dire. La legge “Gozzini” è un grande momento di civiltà, ma solo usandola con molto buon senso, rendendosi conto che è un qualcosa di fragile, la si potrà consolidare e rafforzare. Uno scambio di riflessioni con Sergio Segio “Ho pagato il mio debito” Ma davvero il mondo si divide fra quelli che vogliono cacciare, escludere, condannare a una pena perpetua Caino, e quelli che invece pensano che Caino, quando si è fatto la galera, ha chiuso i conti e nessuno può pretendere da lui più nulla?
Leggere il libro di Giovanni Fasanella, “I silenzi degli innocenti”, è stata quasi una scelta obbligata, quando abbiamo deciso di affrontare in modo non occasionale, ma con forza e chiarezza, il tema del rapporto tra autori e vittime di reati. Le testimonianze delle vittime del terrorismo, che Fasanella è riuscito a raccogliere, sono piene più di angoscia e di rabbia, che di odio. In tutte, poi, c’è un dolore particolare: quello di aver visto le proprie storie raccontate soprattutto dai terroristi, che lo sapevano fare, e non avere né la forza né la capacità di prendere in mano la penna e provare a raccontarsi. Il libro di Fasanella è arrivato con una felice intuizione a chiudere questo buco nero, e a dare davvero la possibilità a queste persone di riprendere in mano le fila della propria vita, e della vita dei loro cari, per non perdere la memoria. Quando Giovanni Fasanella ci ha invitati a intervenire sul suo blog, “La Storia Nascosta”, abbiamo accettato volentieri, con l’idea di partecipare a una riflessione collettiva sui temi, che più ci stanno a cuore in questo momento: la responsabilità, il rapporto con le vittime, la riconciliazione, la mediazione tra vittime e autori di reato. Ne è nata una discussione serrata, in particolare con Sergio Segio, che qui riportiamo. Rientrare nella società in punta di piedi
di Ornella Favero
Arriviamo a questo blog un po’ con la consapevolezza di non c’entrare molto, con il dibattito sul terrorismo, ma un po’ anche con la voglia di ragionare insieme. Noi possiamo portare un’esperienza particolare: per noi intendo io, Ornella Favero, che faccio volontariato in carcere (sono responsabile di una rivista con una redazione di detenuti a Padova) e i detenuti che con me discutono ogni giorno. Il desiderio di entrare in questo blog ci è venuto quando in carcere abbiamo ospitato Olga D’Antona: forse per la prima volta detenuti, colpevoli di reati di sangue, si sono misurati così da vicino con il dolore, e non con l’odio delle vittime. Durante il processo credo sia impossibile qualsiasi confronto, e dopo c’è il carcere, e le vittime spariscono, anzi c’è di peggio, a volte il carcere trasforma i detenuti in vittime, per quella perversione del sistema per cui, invece di avere tempi e spazi per riflettere sul loro reato, le persone vengono rinchiuse e abbandonate a se stesse senza confronto con il mondo esterno. Mi ha colpito, nelle nostre quotidiane discussioni, un detenuto albanese, colpevole di un duplice omicidio per vendetta, quando ha detto che la più grande sofferenza per lui non è stata la galera, ma il perdono del padre di una delle vittime. Perché la sua ragione di vita era sempre stata l’odio, e così si è sentito perso. Questo ci ha fatto riflettere anche su un’altra questione, che è il linguaggio, “le parole per dirlo”. Incontrando in carcere gli studenti (abbiamo un progetto che porta in carcere, a confrontarsi con i detenuti, centinaia di ragazzi), abbiamo notato quanto importanti siano le parole: la frase, per esempio, “Ho pagato il mio debito con la Giustizia” ha qualcosa di orribile, perché è un modo per monetizzare il reato e far dimenticare alle persone di avere una responsabilità nei confronti di altre persone, e non di una entità astratta come lo Stato. Ecco, qui ci riallacciamo al vostro blog: quando si dice di un terrorista “ha pagato il suo debito”, le vittime spariscono. Il libro di Giovanni Fasanella, “I silenzi degli innocenti”, lo abbiamo letto in tanti, nel mio gruppo: sono testimonianze che ti prendono allo stomaco e non ti lasciano respirare, e hanno finalmente fatto capire a tante persone, in particolare responsabili di reati di sangue, che non ci sono debiti che si saldano con anni di carcere, gli anni di carcere magari possono essere anche troppi a volte, ma il debito vero resta, resta con le vittime e non si estingue. Avere la consapevolezza di questo significa che forse oggi tante vittime non chiedono a chi ha ucciso di non rientrare mai più nella società, forse chiedono loro solo di rientrarci in punta di piedi, guardandosi intorno nel loro cammino e accettando di essere qualche volta meno protagonisti. Condannati ad una pena eterna di Sergio Segio la voglia di escludere per sempre gli ex detenuti dal consorzio civile, dalle prerogative che rendono cittadini e titolari di diritti si è ormai fatta, passo dopo passo, senso comune. Senza grosse resistenze. Non sono più considerate sufficienti le pene detentive, le misure di sicurezza e quelle accessorie e interdittive previste dal codice: introdotte dal giurista Rocco durante il fascismo, in questo clima paiono persino garantiste. Le pene accessorie (interdizione legale, interdizione dai pubblici uffici, dall’elettorato attivo e passivo, da una professione o un’arte, impossibilità di contrattare con la pubblica amministrazione, esercizio della potestà genitoriale, etc.), ai sensi di legge, possono sempre venire meno, o per la decorrenza del tempo previsto o, in caso di interdizione perpetua, attraverso l’istituto della riabilitazione. La cui concessione, tradizionalmente, si verifica con il contagocce, specie nel caso dei reati connessi alla lotta armata, ma quel che conta è che, almeno, sia prevista. Il salto all’indietro − verso il Medioevo e la gogna, cioè lo stigma che renda sempre riconoscibile il reo e la sua colpa − si è reso vieppiù manifesto con la vicenda che ha riguardato Sergio D’Elia, di cui è stata contestata l’elezione a deputato. Riabilitato ai sensi di legge, ma non nel senso divenuto comune. Quello che dice che “si può essere ex detenuti, ma mai ex assassini”: è il leit motiv proposto quasi ogni giorno da giornali e programmi televisivi, oltre che, comprensibilmente, da famigliari di vittime. In genere ci si riferisce agli ex terroristi, ma questa posizione prevedibilmente è ora tracimata, arrivando a comprendere qualsiasi autore di gravi reati. Chiudendo così il cerchio, dato che gli autori di piccoli reati, tradizionalmente tossicodipendenti e immigrati, sono, per così dire, costitutivamente privati di diritti e di considerazione sociale. Negli Stati Uniti si sono inventati la regola del “tre colpi e sei fuori”, nel senso che sei dentro a vita. Qui, invece, sei dentro anche quando sei fuori: l’ex detenuto diventa un gruppo sociale stigmatizzato a priori e per sempre, una tipologia umana di indesiderabile. Anche tecnicamente, pre-giudicato. Giudicato una volta per tutte. Eppure, il ritorno alle regole e alle forme della democrazia, all’impianto di diritti e doveri, dovrebbe essere considerato il costituzionale, positivo coronamento della finalità principale della pena. Invece, dopo la lunga campagna contro D’Elia (ma anche contro chiunque degli ex detenuti ed ex terroristi non si sia reso silente e invisibile), da ultimo, assistiamo al rancore trasversale: polemiche sono state alimentate anche contro la candidatura della sua compagna, incensurata dirigente del Partito radicale e promotrice dell’associazione umanitaria Nessuno Tocchi Caino. Ma, a dispetto delle Sacre scritture, per linciare Caino ora c’è la ressa. Ormai è diventato un coro, assordante, pervasivo. Talvolta sguaiato, talaltra genuinamente riflessivo. Traversa destra, centro e anche sinistra. L’assunto di fondo è che, di fronte a gravi reati e in particolare all’omicidio, la pena non può mai avere termine. Anche all’interno del volontariato che opera nelle carceri pare essersi fatta strada tale considerazione. Ha scritto infatti Ornella Favero, responsabile di Ristretti Orizzonti: “Quando si dice di un terrorista ‘ha pagato il suo debito’, le vittime spariscono. […] Non ci sono debiti che si saldano con anni di carcere, gli anni di carcere magari possono essere anche troppi a volte, ma il debito vero resta, resta con le vittime e non si estingue. Avere la consapevolezza di questo significa che forse oggi tante vittime non chiedono a chi ha ucciso di non rientrare mai più nella società, forse chiedono loro solo di rientrarci in punta di piedi, guardandosi intorno nel loro cammino e accettando di essere qualche volta meno protagonisti”. All’irrimediabilità di una vita interrotta deve dunque corrispondere una pena ininterrotta, che travalichi le stesse condanne e accompagni per sempre il reo, quale che sia il suo atteggiamento e la sua riflessione. Un fine pena mai, concettualmente analogo all’ergastolo e alla stessa pena capitale. Del resto, l’invito insistente al silenzio è l’altra faccia, la forma garbata della richiesta di morte civile, di pena perenne. La quale, a sua volta, è allusione simbolica e concreta alla pena di morte. Quando si sostiene che ogni qual volta si citi un ex terrorista, anche non in ragione del suo passato ma pure del suo presente, occorra ricordare i reati da lui compiuti, non si fa altro che teorizzare la pena della gogna. Così si nega che quella persona abbia possibilità di un presente, si afferma che la tal persona, che pure è stata condannata ed ha scontato la sua pena, non può avere veste pubblica se non a partire dal suo etichettamento in quanto “terrorista” o “assassino”. Come nella colonia penale di Kafka, si vuole apposto un marchio indelebile sulla sua fronte. E davvero non si capisce perché l’attenzione alle vittime dei reati debba automaticamente comportare l’imposizione del silenzio e di un surplus di pena e di esclusione sociale per gli autori dei reati, se non in una logica squisitamente autoritaria, da Stato etico. Attenzione alle vittime che è certo doverosa, nella misura in cui però si fonda su di un riconoscimento di pari dignità per tutte le vittime, di destra o di sinistra che siano gli autori o quale che sia la condizione di rilevanza sociale delle vittime. Così, in tutta evidenza non è, come bene ha commentato la madre di una delle vittime della repressione poliziesca, di fronte al fatto che l’attuale Parlamento ha deciso come data in memoria delle vittime del terrorismo il 9 maggio, anniversario dell’uccisione di Aldo Moro, anziché come da alcuni proposto il 12 dicembre, giorno della “madre di tutte le stragi”, quella di piazza Fontana. Il che equivale a leggere un libro partendo dalla fine e stracciando tutti i primi capitoli. Ha scritto Lidia Franceschi: “Mi sono chiesta e mi chiedo, soprattutto oggi dopo il 9 maggio, ma il dolore appartiene solo a certe categorie di parenti? Nell’Etica di questo Stato di Diritto noi parenti delle vittime delle forze dell’ordine abbiamo il diritto al riconoscimento del nostro dolore oppure siamo i reietti di questo paese? [...] Mai ho sentito ricordare, da coloro che coprono alte cariche istituzionali, i morti di Mussumeli, di Reggio Emilia, delle Fonderie Riunite di Modena, di Avola, di Battipaglia, di Genova o il nome di Ardizzone, Pinelli, Saltarelli, Serantini, Franceschi, Giuseppe Tavecchio, Giannino Zibecchi, Giorgiana Masi, Piero Bruno, Walter Rossi, Pierfrancesco Lorusso... Carlo Giuliani e tantissimi altri giovani che hanno pagato con la vita l’ostinata caparbietà di non volere una democrazia solamente formale [...]. Questi sono i cittadini italiani di cui non si parla mai o se ne parla per criminalizzarli, facendo di ogni erba un fascio per bollarli e liquidarli come pericolosi sovversivi. Essi rappresentano la non-memoria di questa nazione”. Egualmente importanti le considerazioni di altri, che pure hanno avuto famigliari uccisi, ad esempio Nando Della Chiesa: “Per arrivare a una pacificazione dovremo essere capaci di mettere queste due vittime [Calabresi e Pinelli] sullo stesso piano. Calabresi è stata la prima vittima di un omicidio politico legato alla teoria della lotta armata. E Pinelli una vittima innocente della repressione”. O le parole di Adriano Sofri: “Franco Serantini, senza famiglia, orfano da orfanotrofio. Fu massacrato da poliziotti in strada e in questura, abbandonato a crepare in una cella di isolamento. In che giorno della memoria toccherà a lui?”. Naturalmente, non si tratta di mettere in “competizione” le vittime, di “pesarle” con soggettivi e indecenti bilancini, a seconda della maggiore o minore distanza da sé, né di negare le responsabilità, collettive e individuali, scaricandole su altri o su dinamiche oggettive. Si tratta di essere intellettualmente onesti e culturalmente laici nel ricostruire la storia, laddove il dolore e le sofferenze di chi è stato personalmente colpito o coinvolto non esauriscono il discorso. Evitando che la storia stessa venga fatta diventare un blob informe e incomprensibile. Come succede quando, come lo scorso 21 marzo a Milano, si sceglie di commemorare le vittime della mafia sotto la lapide che ricorda due magistrati uccisi da Prima Linea. Sfugge il nesso, mentre è forte e oggettivo il rischio di creare categorie antistoriche, e anche di strumentalmente confondere storie e identità degli autori dei reati, ma in qualche modo anche delle vittime. È per questo processo di confusione e di revisione storica se, come ha detto Manlio Milani, famigliare di una delle vittime della strage di piazza della Loggia a Brescia, “quando si parla di ‘anni di piombo’ ci si riferisce solo al terrorismo di sinistra”. Si è così progressivamente costruito un inossidabile senso comune, un incattivito sentimento pubblico, secondo cui tutte le tragedie − e le nefandezze − di questo Paese sono da attribuirsi alla lotta armata di sinistra. Ed è così, come comprovano varie ricerche, che i più giovani − ma non solo loro − sono convinti che le stragi di Piazza Fontana, quella di Piazza della Loggia, quella della stazione di Bologna siano state opera delle BR. Ma ciò non pare preoccupare né scandalizzare nessuno. Eppure è il segno della grande sconfitta della verità, di una imponente falsificazione, non innocente e non casuale. Tesa a preservare impunità e carriere, catene di omertà e complicità, autoassoluzioni e Ragioni di Stato, che continuano a tenere ermeticamente chiusi molti “Armadi della vergogna”. Portare la responsabilità di gravi reati, e tanto più di aver tolto la vita ad altri, è certo un dato intramontabile e irrimediabile. Ma tale è nella coscienza delle persone coinvolte e nella memoria di quelle colpite. Non può divenire prescrizione e pena aggiuntiva extra legem. A meno di accettare di mettere tra parentesi il diritto e i suoi confini, per accedere a forme private di giustizia. Sarebbe un modo di dare assurdamente e postumamente ragione a chi, negli anni Settanta, sosteneva le ragioni della rivolta armata, a fronte di una democrazia svuotata e corrotta, di una giustizia inadempiente alla quale si proponeva di supplire con una giustizia. Linciare Caino? No, noi parliamo solo di responsabilità e di una cosa un po’ fuori moda, la “delicatezza” di Ornella Favero
Caro Sergio, vorrei cominciare queste mie riflessioni mettendo in chiaro una cosa: io non sono in alcun modo rappresentativa del volontariato, sono una persona che ha fatto delle riflessioni insieme a un gruppo di detenuti che discute accanitamente su questi temi. E sono anche una che gli anni del terrorismo li ha vissuti stando dentro Lotta Continua, dunque qualche mia idea penso di essermela costruita, allora come ora non stando alla finestra. A me sembra che quello che tu scrivi appiattisca la realtà in una maniera che mi ricorda un po’ il nostro passato, quando eravamo amanti delle distinzioni nette tra il bene e il male, e ci sentivamo spesso “titolari” del bene. Prima di tutto, io non faccio parte di nessun coro, né sguaiato, né genuinamente riflessivo (immagino che sia questa la definizione che mi dedichi, giusto?). Che cosa vuol dire il coro, poi? Posizioni così differenti, come quella di chi dà la caccia a Susanna Ronconi e le impedisce di lavorare ovunque vada, e la mia, che esprime un dubbio, sul fatto che forse, per chi ha commesso reati di sangue (non solo gli ex terroristi), sarebbe meglio avere un po’ di discrezione e un po’ meno protagonismo, credo che non abbiano nulla in comune, e parlare di “coro” svilisce questo dibattito con una specie di ricatto intellettuale, per cui se sei aperto, democratico e fai volontariato in carcere non dovresti muovere nessuna critica del genere, altrimenti ti accodi a quelli che vogliono la morte civile di detenuti ed ex detenuti. Tu scrivi che “davvero non si capisce perché l’attenzione alle vittime dei reati debba automaticamente comportare l’imposizione del silenzio e di un surplus di pena e di esclusione sociale per gli autori dei reati, se non in una logica squisitamente autoritaria, da Stato etico”. Magari provo a spiegarmi meglio, magari non sono stata abbastanza chiara, ma prima ti pongo una domanda: tu pensi che persone, impegnate in ambito sociale, che fanno volontariato, che si battono per i diritti dei più deboli siano persone disinserite, escluse, prive di un ruolo sociale? Perché io di questo sto parlando, sto parlando del fatto che mi piacerebbe che chi ha commesso reati di sangue si esponesse meno e facesse se gli è possibile, come migliaia di persone in questo Paese, un lavoro sociale importante, ma lontano dai riflettori. Io in questo non vedo proprio un surplus di pena, altrimenti tanti di noi che non usufruiscono di quella cosa orrenda che si chiama “visibilità”, ma danno un apporto di enorme valore alla società, dovrebbero sentirsi dei condannati a scontare una pena eterna. Io poi ho trovato molto significativa la lettera di Manlio Milani, presidente dell’Associazione “Famigliari vittime di Piazza della Loggia”, che diceva a Sergio D’Elia “Ho sempre ritenuto però che se Lei – dopo essere stato riconosciuto come cittadino con pieni diritti – si fosse immediatamente dimesso dalla commissione per un rispetto verso i colpiti dal terrorismo, avrebbe fatto un gesto profondamente significativo sia sul piano politico che sul piano umano”. Condivido questa posizione, e penso di poterlo fare anche se non sono una vittima (mi dà abbastanza fastidio, tra l’altro, quando si afferma che le vittime possono dire qualsiasi cosa, gli altri no, sennò fanno parte del coro di quelli che linciano Caino). Non credo assolutamente che lo Stato debba proibire di candidarsi o di avere un ruolo nelle istituzioni a chi ha commesso reati di sangue, penso però che chi ha compiuto un atto, che secondo me in un certo senso è di protagonismo estremo, come quello di decidere della vita e della morte di altri uomini, dovrebbe “darsi come pena” quella di rinunciare a un po’, dico solo a un po’, di protagonismo. Punto e basta. Ricordo sempre, in una discussione con le donne in carcere alla Giudecca, quando le madri detenute parlavano del ritorno in famiglia, che deve essere fatto in punta di piedi, altrimenti nessun figlio ti riaccoglierà così, tranquillamente. Ecco, io ho voluto usare questa immagine, di rientrare nella società “in punta di piedi” e starci con discrezione. Siccome non sono una ipocrita, ti faccio anche un piccolo esempio che ti riguarda, e spero che tu capisca questa minuscola critica, fatta da una che per altro apprezza molte delle posizioni che hai sostenuto e il contributo che hai dato a una maggiore comprensione degli anni del terrorismo: il titolo del tuo libro, “Una vita in Prima Linea” mi sembra che abbia qualcosa di eroico che a me, ma forse sono io una rompiscatole, pare poco rispettoso delle persone che, per quel tuo stare in prima linea, hanno perso un loro caro. Se in Internet inserisci l’espressione “essere in prima linea” escono fuori medici, magistrati, preti che si battono “in prima linea”, quindi credo di conoscere abbastanza bene l’italiano per pensare che “stare in prima linea” dia l’idea di persone che non hanno paura a esporsi con coraggio anche su fronti difficili. Certo, c’è l’idea della guerra, ma anche e soprattutto del battersi da protagonisti. Che poi è la stessa sensazione che mi ha dato l’altro tuo libro, “Miccia corta”: quello di una missione un po’ da eroi per liberare le terroriste prigioniere. Sono dentro al coro che vuole ammazzare Caino, per queste annotazioni linguistiche? Può darsi, io so però che le parole sono importanti, ed è per questo che trovo sgradevole anche quando una persona responsabile di un reato di sangue dice “Ho pagato il mio debito”. Io credo che sia retorico dire che questo significa condannare queste persone a una pena eterna, ma sono anche convinta che se queste stesse persone smettessero di dire “ho pagato il mio debito” farebbero un piccolissimo atto di umiltà, di cui qualche volta magari le vittime, ma anche tanti onesti cittadini un po’ meno sensibili dei volontari in carcere, sentono il bisogno. Ho parlato recentemente, per preparare il nostro convegno nel carcere di Padova, che si intitola “Sto imparando a non odiare”, con Benedetta Tobagi e Antonia Custra, e forse per la prima volta ho capito cosa vuol dire che la pena non ti abbandona mai: allora cosa c’è di scandaloso nel pensare che chi ha ucciso dovrebbe magari fare meno carcere, ma avere più “delicatezza”, più consapevolezza di doversi muovere in punta di piedi e di avere un debito che non può essere pagato? Imparare a confrontarsi anche con le vittime dei reati di ogni giorno Noi raccontiamo il carcere, loro ci insegnano come stare al mondo Gli studenti, gli insegnanti e i volontari hanno l’esperienza, l’intelligenza, l’umanità e la sensibilità per farci pensare a cosa significa vedere la vita con gli occhi addolorati e spaventati delle vittime
di Elton Kalica
Sicuramente sono stati tanti gli studenti che ho visto e conosciuto ai tempi della mia vita scolastica, però gli studenti che ho incontrato durante questi quattro anni di progetto di conoscenza tra scuole e carcere non solo superano di gran lunga il numero di quelli che ho visto in dodici anni di scuola, ma hanno anche una qualità della comunicazione diversa: i miei compagni di scuola volevano parlare sempre del più e del meno e non avevano mai tempo e pazienza per ascoltare, invece questi studenti ascoltano sempre con curiosità e attenzione. Di solito vediamo arrivare gruppi di trenta o quaranta studenti. Loro prendono subito posto tra le sedie messe in fila per l’occasione e si guardano un po’ intorno come se, prima delle nostre facce, volessero raccogliere nella memoria l’arredo della nostra aula. Ma l’aula della nostra redazione ha poco di galera – otto computer, due stampanti, due scanner e tanti tavoli – e presto i ragazzi finiscono per concentrarsi su di noi. Ci scrutano con curiosità. Forse qualcuno è anche un po’ deluso dalla nostra “normalità” fisica e d’abbigliamento. Ma da questi incontri ho imparato che il primo luogo comune a crollare, anche se in parte, è l’immaginario del carcerato brutto, sporco, cattivo e con la palla al piede. Dico in parte, perché il fatto di non essere brutti e sporchi, oppure di non avere la palla al piede, non ci libera anche dall’essere cattivi. La cattiveria credo sia distribuita in tutti gli esseri viventi, però qui dentro il livello di cattiveria è di una concentrazione maggiore, ma quando abbiamo di fronte i ragazzi ci scrolliamo tutti di dosso la pelliccia del lupo, la mettiamo sul tavolo e diciamo che quella pelliccia si chiama “illegalità” e indossarla non è uno scherzo, perché poi si finisce in galera e si rovina la vita a qualcuno, e anche a se stessi. Ma c’è un nesso tra le nostre “ragazzate” di una volta e il carcere?
Con il tempo ci siamo accorti che il modo migliore per ragionare è il confronto continuo. Negli incontri con gli studenti ci si confronta tanto e ciò che noi diciamo spesso è frutto di lunghe discussioni. Ma questo non basta. Allora, ci riuniamo in redazione con i volontari esterni che ne fanno parte e ne discutiamo anche dopo aver finito gli incontri con gli studenti: devo dire che con loro il confronto è ancora più duro. Ricordo che una volta c’erano tra noi anche degli insegnanti, oltre i soliti volontari, e abbiamo cominciato a discutere su alcuni comportamenti che qualche studente ha a scuola e che spesso sfiorano l’illegalità. Si parlava di un ragazzo che si è messo a fare della “pazzie” per una compagna di scuola e per esprimere il suo sentimento imbrattava i muri della scuola scrivendo delle frasi d’amore. In realtà, l’argomento non era facile da trattare, perché in un ambiente maschile come il carcere si è portati a fare il tifo per il ragazzo, e qualcuno casca anche nel solito discorso da bar: “Ma cosa vuoi che sia, queste cose le abbiamo fatte tutti… in fondo, non c’è nulla di male!”. Per fortuna che le insegnanti e le volontarie hanno una visione più reale dei limiti attraverso cui si può esprimere un sentimento e ci hanno fatto osservare che forse non è un caso che il ragazzo in questione abbia dei grossi problemi nello studio e nel comportamento, così come non è una caso che il suo idolo sia quel fotografo famoso finito in carcere per estorsione. Qualcuno continuava ad essere dell’idea che è normale avere come idolo a quell’età Fabrizio Corona, e che questo non significa essere un delinquente, ma le osservazioni delle insegnanti sono state intelligenti perché hanno stimolato la riflessione. La maggior parte di noi ha fatto simili bravate, andava male a scuola, aveva come idolo qualche delinquente, e quindi quel ragazzo assomigliava molto a come eravamo noi. A quel punto non potevamo più dimenticarci di essere in carcere, anche per reati gravissimi, e come per magia è nato in noi il dubbio che forse poteva esserci un nesso tra quelle “ragazzate” di una volta e il carcere. Dunque è stato inevitabile anche per me pensare alle mie, di bravate, e a quella voglia di trasgredire alle regole per essere notato da qualche ragazza, per distinguermi dagli altri e non passare inosservato (il mio forse è un caso particolare, perché ricordo che sia i professori che i miei genitori si stupivano del mio comportamento, visto che andavo brillantemente negli studi), ma inevitabilmente ho visto chiaramente il legame diretto che c’è tra quella testa di c. che ero e l’entrata in carcere, perché anche se ho trovato in questo paese troppo spesso avvocati ladri, procuratori spietati e giudici cinici, sono stato io con la mia condotta a diventare l’oggetto delle loro azioni penali, e a volte anche delle loro persecuzioni, sono stato io che mi sono comportato da delinquente, e tutto per dimostrare di essere uno di quelli che scavalca i cancelli, che imbratta i muri e che non ha paura di nulla. I ragazzi ci raccontano a volte come ci si sente ad essere vittime di reati
Durante l’ultimo incontro abbiamo discusso su quale sarebbe la giusta pena per uno che guidando ubriaco investe delle persone. Quasi sempre gli studenti che incontriamo nelle scuole manifestano un grande disappunto sulle pene che vengono date in simili casi, sostenendo che ci debba essere tanta più galera per i responsabili. Allora il discorso si è subito fermato su quel caso del ragazzo rom che ha investito quattro giovanissimi uccidendoli sul colpo, e che è stato poi condannato a sei anni di carcere. Quanto è stata giusta la pena inflittagli?, ci si domandava. Anche in questa discussione non è mancato un iniziale smarrimento da parte di alcuni detenuti che vedevano nella condanna del rom la volontà da parte del giudice di dare una pena esemplare, perché di regola un omicidio colposo rimane pur sempre un fatto raramente condannabile con il carcere, e c’entra poco il bere. In realtà qui dentro siamo tutti abituati a calcolare il male in anni di galera, e a guardarci intorno per vedere quanti anni ha preso uno e quanti anni ha preso l’altro e per valutare chi è stato più fortunato e chi più sfortunato. Ecco perché di fronte ad una tragedia così grande, anche i detenuti più abituati al confronto, come chi frequenta una redazione di giornale come la nostra, finiscono per valutare una ubriacatura in anni di galera invece che in vite umane perse. Ma poi Ornella, la responsabile del nostro giornale, ci ha fatto notare che le vite dei ragazzini rimasti vittime di questo incidente non sono l’unica cosa da considerare nella valutazione di una condanna così singolare. Lei giustamente ha ricordato che il guidatore del mezzo era al volante ubriaco e in più, invece di prestare soccorso ai ragazzi, è letteralmente scappato. Non solo. Dopo essere stato scoperto e messo agli arresti domiciliari, ha avuto un atteggiamento del tutto incosciente rispetto alla gravità del fatto, perché si è addirittura prestato a fare la pubblicità di occhiali e merci varie, sfruttando la sua fama da “ragazzo cattivo”. Ascoltando Ornella, la mia iniziale esitazione è raddoppiata: se all’inizio mi rifiutavo di fare una valutazione su questo fatto perché trovavo difficile mettermi sia nei panni di una delle vittime sia nei panni del guidatore criminale, dopo quel ragionamento mi sono accorto che c’era qualcosa di sbagliato nelle teste di molte persone. Un episodio di questo tipo dovrebbe lasciare inorriditi, dovrebbe provocare soltanto sentimenti di condanna nei confronti del guidatore ubriaco che uccide quattro ragazzi, insomma il ripudio dovrebbe essere istintivo e non si dovrebbero cercare “attenuanti” partendo dall’idea che anche a noi piace bere, e che “può succedere” di guidare con un bicchiere di troppo in corpo. Invece se non ci fosse stata una volontaria a prenderci verbalmente a schiaffi, nessuno sarebbe stato capace di pensare semplicemente a quanto orribile è svegliarsi e rendersi conto di aver ucciso quattro ragazzi. Solo dopo questa discussione, qualcuno ha cominciato a riflettere e forse ha capito che questa libertà di fare tutto ciò che si vuole non se la può permettere nessuno, anzi l’autore di un fatto del genere deve per lo meno avere il buon senso di comportarsi in modo attento e schivo e di chiudere la porta in faccia a qualsiasi commerciante ruffiano e senza scrupoli. Nella nostra redazione discutiamo sempre, prima e dopo gli incontri con gli studenti, perché i ragazzi non solo vengono qui per conoscere il carcere ed evitarlo nella vita, ma ci raccontano anche come ci si sente ad essere vittime di reati, o comunque ci insegnano a provare a mettersi nei panni delle vittime e pensare quanto si soffre a vedere i ladri in casa o a essere sequestrati durante una rapina. È un punto di vista a cui difficilmente pensiamo, perché siamo in carcere, o forse perché siamo sotto punizione e passiamo il tempo concentrati su noi stessi e sulle nostre sofferenze. Loro sì che lo fanno. Gli studenti, gli insegnanti e i volontari hanno l’esperienza, l’intelligenza, l’umanità e la sensibilità per pensare cosa significa vedere la vita con gli occhi addolorati e spaventati delle vittime, e se vogliamo vivere una vita diversa dalla galera, se vogliamo essere delle persone meno cattive e più umane, dobbiamo imparare prima di tutto ad ascoltarli. Il carcere in Italia spesso non si limita a non rieducare, ma crea delle ulteriori vittime Un solo confronto, un solo faccia a faccia tra vittima e autore di reato, ha una valenza “rieducativa” che non avrà mai una mera carcerazione, di qualsiasi durata sia
di Graziano Scialpi
I mostri bisogna affrontarli. È il solo modo di sconfiggerli. Sia che si tratti di mostri “altri”, di esseri che hanno fatto o possono fare del male, sia che alberghino dentro di noi. Mostri più insidiosi, che ci accompagnano in ogni momento della nostra vita e non smettono mai di perseguitarci. A volte sonnecchiano, a volte dormono. Ma sono sempre lì, pronti a risvegliarsi. Mettere a confronto autori e vittime di reati significa affrontare i mostri. Perché ogni reato genera mostri, tanti mostri. E purtroppo le risposte giuridiche e sociali a questo problema sono pressoché inesistenti. La legge si limita a prendere il “mostro” più ovvio e appariscente, l’autore del reato, e a toglierlo dalle strade per un periodo più o meno lungo. Ma di tutti gli altri mostri, quelli che fanno i danni peggiori e più a lungo, non se ne occupa nessuno. Nessuno li affronta, perlopiù si preferisce ignorarne persino l’esistenza. Sempre più spesso negli ultimi tempi si sente lamentare che lo Stato dimentica le vittime dei reati, che non fa nulla per loro, che si “preoccupa” solo dei criminali. Indubbiamente c’è del vero in queste affermazioni. Ma le risposte a questo problema che vengono avanzate ormai da tutte le forze politiche, senza o con minime distinzioni, non sono vere risposte. Proporre “pene più severe”, “tolleranza zero”, “certezza della pena” e “risarcimenti economici” significa non aver compreso i nodi cruciali della questione. Significa voler ridurre le vittime a personaggi ai quali è solo l’impossibilità di compiere una vendetta spietata a togliere il sonno, significa voler quantificare e monetizzare il danno subito. E il fatto che anche gli stessi criminali tendano a quantificare e a monetizzare il danno che hanno arrecato, per minimizzarne la reale portata morale, induce a un’analogia inquietante. In questi ultimi anni, grazie al progetto “Il carcere entra a scuola”, abbiamo potuto incontrare e confrontarci con centinaia di ragazzi e docenti. Spesso è capitato che qualche ragazzo, e a volte anche qualche docente, avesse subito dei reati e ci hanno raccontato a fatica la loro esperienza e il loro vissuto. Ancora più significativi sono stati i confronti con persone quali Olga D’Antona, vedova di Massimo D’Antona, giurista ucciso dalle Brigate Rosse, che ci hanno permesso di comprendere, quasi di toccare con mano lo sconquasso che subisce la vita di una persona a cui è stata assassinata una persona cara. Queste esperienze ci hanno portato alla conclusione che un solo confronto del genere, un solo faccia a faccia tra vittima e autore di reato, ha una valenza “rieducativa” che non avrà mai una mera carcerazione, di qualsiasi durata sia. Ed è mia personale convinzione che questi confronti abbiano fatto bene anche a molte delle vittime che, forse per la prima volta, hanno potuto affrontare i mostri che le perseguitavano. Perché, senza prendere in esame i casi estremi, quando una persona subisce un furto, uno scippo, una rapina, il più delle volte quello economico è il danno minore. Magari la questione fosse così semplice. Hai subito il furto di 500 euro? Bene, ti restituisco i 500 euro e tutto torna come prima. Ma le cose non stanno così. Il vero danno è la paura che si impadronisce della vittima e non la abbandona più, è il senso di insicurezza che da allora in poi la accompagna in ogni momento della giornata, è la perdita della fiducia, è la violazione dell’intimità e del privato è un peggioramento permanente della qualità della vita. È un mostro che la accompagna in ogni momento della giornata. In molti paesi europei, come in Gran Bretagna, esistono strutture, sia pubbliche che di volontariato, dedicate all’assistenza alle vittime di reati. Strutture dove la persona che ha subito il reato può incontrare psicologi specializzati e gruppi di sostegno, spesso composti da altre vittime che hanno vissuto e superato esperienze simili, che la aiutano a elaborare il trauma, ad affrontare i mostri e a sconfiggerli. E sembra che funzionino perché dopo un primo incontro, organizzato da amici o spesso dagli stessi poliziotti che hanno raccolto la denuncia o sono intervenuti sul luogo del reato, la maggior parte delle persone ci ritorna volontariamente perché ne trae conforto. Da noi, purtroppo, non solo pressoché non esistono strutture simili, ma non si sentono nemmeno proposte in questo senso. Eppure sono personalmente convinto che il semplice sapere che il delinquente ha subito una condanna esemplare non allevi le sofferenze della sua vittima, che ci sarebbe bisogno di ben altro aiuto per consentirle di tornare a una vita accettabile, se non normale. Il detenuto medio non solo non pensa alle vittime dei propri reati, ma si sente lui stesso una vittima
Un passo fondamentale, a mio parere, sarebbe anche favorire il confronto tra le vittime e gli autori dei reati. Perché, nella mia ormai decennale esperienza carceraria, sono giunto alla ferma conclusione che, salvo rare eccezioni, solo questo tipo di confronto può portare a una vera svolta, a quella “rieducazione” auspicata dall’art. 27 della Costituzione. Se questo confronto può essere utile alla vittima del reato, per il detenuto diventa un passo quasi irrinunciabile. Perché, diciamocelo chiaramente, alla maggioranza di noi detenuti delle vittime non importa nulla. Non ci pensiamo proprio per niente. I pochi che riflettono sulle conseguenze che i loro reati hanno avuto per le altre persone, lo fanno o perché hanno la fortuna di avere strumenti intellettuali e culturali superiori a quelli della media dei reclusi o perché, nella lotteria dei penitenziari italiani, sono capitati in un carcere dove sono stati stimolati e aiutati a intraprendere questo non facile percorso. Ma si tratta di eccezioni, non della regola. In questo senso, il carcere in Italia rappresenta un fallimento quasi totale. Non si limita a non rieducare, ma crea delle ulteriori vittime. Questa è la realtà dei fatti: il detenuto medio non solo non pensa alle vittime dei propri reati, ma si sente lui stesso una vittima. E questo non accade perché si tratta di criminali spietati, senza cuore ed egoisti, ma semplicemente perché i reclusi sono esseri umani come gli altri. Al momento attuale, una persona che commette un reato finisce in carcere a scontare una pena, spesso ad anni di distanza dalla commissione del reato. Alla privazione della libertà, già di per sé pesante, si aggiungono una miriade di altre occasioni di sofferenza: l’inattività forzata a causa della mancanza di lavoro e di opportunità di impiegare il tempo in modo costruttivo; problemi economici; il fatto di dover pesare sulla famiglia; la perdita del lavoro, se c’era, e spesso della casa, con le conseguenti preoccupazioni sul ritorno in libertà; le difficoltà di mantenere rapporti significativi con i propri cari e soprattutto con i figli; gli ostacoli per fare una semplice telefonata a casa; il condividere pochi metri quadri con sconosciuti che non si sono scelti; i piagnistei sempre uguali che si sentono ripetere ogni giorno dagli altri detenuti; difficoltà per curare le malattie. A questo si aggiunga che le figure, come educatori e psicologi, istituzionalmente preposte a stimolare tali riflessioni, sono perennemente sottorganico e riescono a stento a tamponare le emergenze quotidiane. Inoltre educatori e psicologi del carcere sono figure “anomale”: fanno parte dell’istituzione, decidono del futuro del recluso, non sono tenuti al segreto professionale. Di norma il detenuto li vede come “nemici”, non come professionisti con cui aprirsi senza riserve. Data questa situazione è materialmente impossibile che il detenuto non finisca per sentirsi profondamente come una vittima. Ed è da questo dato di fatto che bisognerebbe partire in ogni tentativo di rieducazione e risocializzazione. Anche il detenuto è una vittima e il modo più efficace per costringerlo a rivedere le proprie azioni è metterlo di fronte alle vittime vere. Perché, come dicevo, il criminale, il recluso è innanzitutto un essere umano e funziona da essere umano. Di norma, per compiere reati, “spersonalizza” la vittima. Non prende in considerazione la persona che c’è dietro e che danneggia, ma solo il bottino. Un po’ come i medici negli ospedali troppo spesso non trattano pazienti, ma malattie, per cui il sig. Mario Rossi cessa di essere tale e diventa un “femore fratturato” o un “fegato cirrotico”. Così lo scippatore ignora l’anziana, vede solo la borsetta. La conseguenza è che spesso in carcere si tende a monetizzare il danno e si sentono ragionamenti del tipo: “E che sarà mai? Gli avrò portato via 300 euro in tutto… devo essere perseguitato in questo modo per 300 euro?”. Ma quando queste stesse persone si trovano di fronte la ragazza in lacrime che gli racconta come, dopo aver trovato i ladri in casa, ora ha paura di tutto e non si sente più al sicuro nemmeno nella propria abitazione, tutto cambia. Non sono più “solo 300 euro”, è una ragazza terrorizzata che potrebbe essere una figlia o una sorella. È una vita cambiata in peggio, per sempre. E queste sono cose che non lasciano indifferenti, perché anche i reclusi sono persone umane, capaci di affetti, con madri, padri, mogli e figli a cui vogliono bene. Se il recluso medio non esita a impadronirsi dei soldi altrui, difficilmente danneggerebbe di proposito e in modo così grave quella ragazza nella quale vede sua figlia. Quando la vittima si trasforma da “bottino” a essere umano tutto cambia e inizia la vera riflessione. E, mi permetto di aggiungere, quando il delinquente, il recluso, il criminale, assume le forme di un essere umano, tutto cambia. Il mostro non è più così mostruoso e lo si può affrontare e sconfiggere più facilmente. Spezzare la catena della vendetta Il perdono è stato come respirare un’aria che non mi spettava Se il padre della persona che hai ucciso dice che non ti odia più, ti senti come perduto, ti manca la terra sotto i piedi, ti assale una sofferenza che prima nemmeno immaginavi
di Dritan Iberisha
Sono in carcere per duplice omicidio. Voglio raccontare cosa è stato per me odiare ed essere odiato, e anche cosa succede quando uno che ti odia per il male che gli hai fatto, poi ti perdona. Nella mia vita ho fatto del male a diverse persone. A volte ero spinto dall’odio che avevo verso di loro perché mi avevano fatto del male a loro volta, altre volte invece soltanto per motivi futili. Però quella volta che ho ucciso è stato per una vendetta. Sia prima di entrare in carcere, sia nei primi anni di carcerazione non ho mai pensato se le cose che facevo erano giuste oppure no. Sapevo che dovevo farle e basta. Odiavo quelli che avevano ucciso una persona a me cara e il dovergli dare la caccia l’avevo preso come una ragione di vita. Non pensavo alle conseguenze per le loro famiglie e per la mia, e poiché l’odio era assolutamente più forte della paura per il carcere, non temevo nemmeno di andare in galera. Non mi interessava di vivere o di morire. Nel mio paese, dopo la caduta del regime comunista, non c’era più ordine pubblico e i Tribunali non funzionavano più. Quando qualcuno commetteva un crimine, se non veniva preso in flagranza di reato difficilmente veniva punito, perché molti poliziotti erano stati licenziati in quanto comunisti e allora non c’era più nessuno che faceva indagini. Vedere qualcuno che ha ucciso girare per la città tranquillamente il giorno dopo non è facile per i famigliari o gli amici della vittima. Quindi molte persone hanno cominciato a ritornare a quell’insieme di norme tramandate che è il Kanun e a farsi giustizia da soli. Sembra strano, ma si pensava che la fine del regime avrebbe rapidamente prodotto un maggior benessere in Albania, invece ha sfasciato tutte le istituzioni e ha fatto ritornare in vita una specie di legge che ha regolato la vita del mio popolo nei tempi antichi, quando in Albania le persone non avevano uno Stato. In questo clima anch’io ero convinto che dovevo essere più duro e più cattivo degli altri per sopravvivere. Anzi pensavo che quella era l’unica cosa da fare e che non c’erano alternative. Dovevo seguire alla lettera la regola dell’occhio per occhio, dente per dente. Passati appena quattro anni di carcerazione i miei famigliari mi hanno mandato la notizia che il padre di una delle vittime aveva deciso di perdonarmi di avergli ucciso il figlio e che la faida con lui era da ritenersi chiusa. Questa notizia per me è stata buona, e nello stesso tempo in qualche modo “umiliante”. Mi sono sentito troppo male. Mi sentivo un essere umano che respirava un’aria che non gli spettava. Mi chiedevo giorno e notte come mai lui aveva trovato la forza per perdonarmi, mentre io non avevo mai pensato di perdonare suo figlio e chiudere per primo con quella tragedia. In quella occasione sono arrivato alla conclusione che odiare non solo non porta da nessuna parte, ma ti fa unicamente stare male, e ti costringe a cercare ossessivamente di fare del male a qualcun altro. E il paradosso è che quando hai trovato il tuo nemico e lo hai ucciso, non ti liberi dal malessere, ma continui a sprofondare ancora di più nella bestialità della violenza e non riesci più a distinguere il buono dal cattivo, ma perdi ogni rispetto per l’essere umano. Secondo me odiare è facile, invece smettere di odiare è difficilissimo, ma quando questo avviene, succedono delle reazioni imprevedibili, come nel mio caso, in cui l’umanità di quel padre mi costringe a convivere con un rimorso in più. Anche se sto scontando la mia pena, per me non vuol dire che ho pagato il male che ho causato ad altri, perché so benissimo che nessuno potrà mai restituire ai familiari delle vittime i loro cari. Ecco perché dico che un conto è quello che si paga con la giustizia, e cioè il carcere, un altro conto è quello che devo alla mia coscienza e ai famigliari della vittima del mio reato, perché io immagino che per loro il dolore rimarrà per sempre e di certo non si cancellerà quando arriverà il mio fine pena.
|