Editoriale

 

Il vocabolario del dolore e del rispetto

 

di Ornella Favero

 

 

A chi ci chiede perché abbiamo deciso di organizzare una giornata di ascolto delle vittime proprio dentro un carcere, potremmo rispondere che il desiderio ci è venuto prima di tutto quando ci siamo accorti di quanto inadeguate sono le parole con le quali parliamo dei reati e della sofferenza che suscitano. Sono inadeguate spesso le parole delle persone detenute, ma lo sono anche quelle dei volontari, per una ragione semplice: perché quasi nessuno di noi è abituato a parlare non delle vittime, ma con le vittime.

La prima scoperta di quanto, a volte, le parole sono appuntite, irritano, feriscono l’abbiamo fatta negli incontri con gli studenti: non si può dire, per esempio, “c’è scappato il morto” se hai ucciso magari un ragazzo come te in una rissa; non si può dire “ho capito di essermi rovinato la vita” se la vita prima di tutto l’hai rovinata a qualcun altro, che non aveva nessuna colpa; non si può dire “ho sbagliato e ho pagato” senza ricordare che qualcun altro continua a pagare prezzi altissimi per il tuo gesto, e il suo dolore non ha un momento in cui si conclude, non c’è fine pena che sani una situazione come quella, per esempio, di una moglie che ha perso il compagno, come è successo a Olga D’Antona. O di una figlia che ha perso il padre, ucciso dai terroristi, e ci scrive che “non si diventa un ex assassino. Semplicemente perché io non divento un’ex-orfana, perché il mio papà non torna. Piacerebbe anche a me che questa realtà fosse reversibile, ma non lo è. E anche chi ha saldato il proprio debito con la giustizia, dovrebbe tener conto che rimane comunque per sempre una responsabilità verso le vittime”. Sembrano così semplici, a scriverle, e invece forse anche noi volontari abbiamo paura di queste parole, che ci inchiodano a una attenzione alle vittime diversa, che non sia solo rituale, che non sia sempre una specie di formale bilanciamento del fatto che noi ci occupiamo dei diritti dei detenuti, e ogni tanto ci sentiamo in dovere di nominare le vittime. E invece io credo che noi volontari ci dovremmo ritagliare un ruolo nuovo, dovremmo saper conciliare il rispetto dei diritti di chi è stato privato della libertà con il desiderio delle vittime di vedere riconosciuto il proprio diritto a non essere offese di nuovo dalla disattenzione, dalla superficialità, dal silenzio distratto della società. E anche dalla presunzione di chi pensa che la questione si possa liquidare con la scorciatoia della solita frase “le vittime possono dire qualsiasi cosa”. Come dire che le vittime sono autorizzate a manifestare qualsiasi sentimento, di odio, rancore, rabbia, a noi però spetta il compito di riportare il dibattito alla ragionevolezza e all’equilibrio. Io credo invece che noi non siamo in grado di farlo, se prima non proviamo a capire quali sono le parole che possono esprimere un vero rispetto per le vittime, se non proviamo a parlare di più con chi ha subito reati, a “sentire” i suoi bisogni, a spingere perché il carcere divenga un luogo aperto anche al confronto tra chi ha subito reati e chi li ha commessi.

Di questo vogliamo discutere, cominciando da una verità elementare: che spesso tutti, magistrati, operatori penitenziari, volontari, pensiamo di sapere cosa vogliono le vittime. Ma raramente abbiamo la possibilità di ascoltarle, di interrogarle, di confrontarci con loro.

Con la Giornata di Studi “Sto imparando a non odiare” abbiamo voluto fare solo questo: costruire un percorso di ascolto.

 

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