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Non voglio amici delusi
Se dopo la punizione del carcere gli amici hanno deciso di farmi subire un’altra punizione, quella dell’abbandono e della dimenticanza, e hanno reputato improduttivo usare il loro tempo prezioso con un perdente come me, allora mi convincerò che non siano mai esistiti
di Elton Kalica
C’era un sole splendente il giorno del mio arresto. La città era quasi deserta, abbandonata dalla gente che era andata al mare o in montagna per ripararsi dal caldo estivo. Qualche macchina correva solitaria inseguita dalla polvere grigia dell’asfalto per sparire dietro qualche angolo, mentre i pochi pedoni ne approfittavano per seguirla con gli occhi, unico oggetto mobile con cui distrarsi. Avevano abbandonato la città anche i miei amici: li avevo chiamati al telefono, avevo chiacchierato con loro che mi suggerivano di raggiungerli al mare e di non perdere il fresco piacevole dell’acqua, la spiaggia piena di giovani ragazze in bikini, il divertimento delle discoteche per avere in cambio solo la solitudine di una città triste, il caldo dell’asfalto e la tristezza del silenzio. Ero rimasto per caso in città. Anche la mia fidanzata era andata con le amiche in un villaggio turistico, mentre io avevo continuato a rimandare per dei futili motivi la partenza, ma forse questo strano rimanere da solo l’avevo voluto proprio per addestrarmi alla vita solitaria che avrei fatto per molti anni a venire: era una preparazione ad una vita senza amici, senza amori, circondato da altre persone tristi e solitarie. In realtà, rimanere da solo per quasi due settimane prima di entrare in carcere si rivelò molto conveniente. Dopo l’arresto, mi misi l’animo in pace per qualche settimana: sapevo che non avrei trovato nessuno degli amici nella propria casa, quindi evitai di scrivere lettere dalla mia cella d’isolamento, e reputo che questo fu un bene perché scrivere a qualcuno e aspettare risposte per settimane è più frustrante dell’isolamento in sé. Aspettavo, invece, che a settembre, col grande rientro dei vacanzieri, gli amici mi scrivessero o almeno andassero a casa mia e chiedessero notizie. Invece, quando facevo domande su qualcuno di loro, mia madre rispondeva “…ah quello! …non so! E neanche quell’altra… è da un po’ che non la vedo!”, nascondendo gli occhi e cambiando discorso. Insomma, decisi di scrivere ai miei amici e alle mie amiche, per dire che mi avrebbe fatto piacere avere loro notizie, che presto sarei uscito dal carcere e che saremmo andati di nuovo insieme a giocare a calcetto, a ballare in discoteca, o a sederci sulle panchine del parco vicino a casa. Avevo commesso un reato sì, ma per questo stavo pagando con la galera (il processo avrebbe deciso per quanto tempo), lo stavo pagando con la mia vita sconvolta dal carcere e con quella dei miei genitori costantemente angosciati. Forse la città era rimasta deserta anche a ottobre, a novembre, a dicembre e nessuno era tornato dalle vacanze, perché purtroppo nessuno mi scrisse; forse i miei amici si erano offesi, risentiti nel vedermi finire in carcere: potrebbe essere che mi odiavano, avevano avuto delle aspettative nei miei confronti - poveri loro, forse si erano costruiti le loro giovani vite intorno a me considerandomi un punto di riferimento - e ora, amareggiati dalla mia inaspettata fine drammatica, si rifiutavano di scrivermi, e persino di fare una visita di cortesia alla mia famiglia. Mi punivano della delusione che gli avevo causato, probabilmente mi incolpavano di essere sparito dalle loro vite. E non si accontentavano della punizione che lo Stato mi infliggeva per aver rotto l’armonia sociale commettendo un reato, non si accontentavano delle sofferenze dei miei genitori che avevano un figlio di vent’anni in carcere: loro, gli amici, avevano deciso di farmi subire un’altra punizione, quella dell’abbandono, della dimenticanza. Oppure, dal momento che non potevo essere più tra di loro - cioè essere sempre presente nei giorni felici, belli, dove nessuno è indispensabile, e in quelli tristi, difficili, quando si deve fare tutto il possibile per adempiere ai doveri dell’amicizia - e dato che la mia esistenza non era più di essenziale interesse per le loro abitudini, reputavano improduttivo perdere del tempo prezioso con un perdente come me, non avevano più bisogno di me.
Prima della giustizia mi aveva colpito l’indifferenza degli amici
Ricordo che, sin dalla mia infanzia, se una persona non aveva amici era considerata strana, introversa, asociale. Una persona intelligente, di successo doveva avere tanti amici e mantenere le amicizie a lungo. A scuola poi, se eri una persona socievole e stavi sempre con degli amici ti succedevano pochi guai - erano i tipi solitari che erano perseguitati dai guai - e se poi partecipavi sempre a tutte le feste, eri uno di successo. In quartiere se avevi la tua compagnia di amici andavi a giocare a calcetto, ti divertivi al cinema, eri al corrente di tutto ciò che succedeva in zona, e soprattutto ti fidanzavi con una ragazza del gruppo. E io, nonostante i rigidi orari imposti da mio padre, riuscivo sempre a essere presente e disponibile con tutti, sia quando c’era da andare a divertirsi - bere e ballare in feste travolgenti - sia quando c’era da sputare sangue, come andare a fare a botte perché un’amica si lamentava di essere stata offesa da qualcuno, oppure un amico arrivava con l’occhio nero e invocava vendetta, e spesso rischiare gli schiaffi a casa, la sospensione a scuola o anche una notte in questura. Ogni mio ricordo, bello e brutto, vicino o lontano, è legato a loro, agli amici. Peccato che si ferma in quel giorno estivo del mio arresto. L’ultimo giorno dell’amicizia. Anche se in realtà non è stato l’ultimo giorno dell’amicizia: avevo sperato a lungo di lasciare il carcere in poco tempo, e a quel punto sarei andato a trovare gli amici e tutto sarebbe tornato come prima, avremmo frequentato lo stesso bar, saremmo tornati a fare le stesse feste di prima, sarei ritornato a essere quell’amico giusto di sempre. Però, il giorno della liberazione non arrivava, le speranze di uscire in breve tempo si attenuavano sempre di più e, a quel punto, il mio amore per i vecchi amici si spense. Avevo conservato per anni un forte affetto per loro e avevo creduto che la responsabilità del loro silenzio fosse soltanto mia - loro non ne avevano nessuna colpa ed era mio dovere, una volta uscito, strisciare davanti a loro, chiedere scusa e implorare di essere accettato da loro - ma quando, finito il processo, conobbi il pugno duro della giustizia che mi aveva colpito per il reato commesso, e mi guardai intorno solo e dimenticato, mi accorsi che prima della giustizia mi aveva colpito l’indifferenza degli amici, il loro abbandono: la loro condanna molto più sproporzionata di quella del Tribunale mi aveva messo in ginocchio da molto prima. Allora cambiai prospettiva e tutto tornò limpido, e mi sentii leggero: i miei amici avevano sbagliato a non esserci nel momento più difficile della mia vita, io a loro non dovevo niente e, se finendo in carcere avevo deluso le loro aspettative, se avevano fatto dei progetti che comprendevano anche me e il mio futuro, non era mica colpa mia: era una responsabilità che non mi potevo addossare visto che io stesso non ne avevo mai fatti, di progetti sulla mia vita. Decisi allora di non pensare più ai miei amici, di convincermi che non fossero mai esistiti, di non andare mai a cercarli alla mia uscita dal carcere e, se li avessi incontrati per strada, il mio sguardo doveva essere soltanto carico di disprezzo: li dovevo guardare negli occhi tenendo la testa alta e, se mi salutavano, li dovevo odiare in silenzio. M’impegnai, poi, con solenne giuramento ad obbedire a tale decisione. Ogni estate, immagino le strade vuote come il giorno del mio arresto - sono passati anni da quel giorno, quando uno strano destino mi impose di rimanere nella città quasi deserta, per addestrarmi alla vita solitaria che avrei poi dovuto fare per molti anni, una preparazione ad una vita senza amici, senza amori, circondato da altre persone tristi e solitarie - e mi piace pensare che quando uscirò troverò quella città ancora vuota, senza nessuna faccia conosciuta in giro, soltanto pochi sconosciuti che, in quanto tali, non susciteranno in me malumore. Vorrei proprio trovare la città dove non ci sarà nessuno che, sorridente, tenterà di abbracciarmi per dire con estrema falsità: “Ma dove sei stato tutto questo tempo? Ma come sei cambiato… Andiamo a bere qualcosa al bar come ai vecchi tempi? Dai che c’è anche…”, perché non gli risponderò nemmeno, ma continuerò ad odiarlo in silenzio.
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