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Sopravvissuta ad Auschwitz
Un libro che dà forza alla voce di Liliana Segre, sopravvissuta ai campi di sterminio, fra le ultime testimoni viventi della Shoah A cura di Stefano Bentivogli
Leggere questo libro nei giorni in cui si ricordano i 60 anni dalla liberazione di Auschwitz è stata un’esperienza particolare, sicuramente più coinvolgente di quanto ho potuto sentire nelle trasmissioni andate in onda in Tv per celebrare la ricorrenza. Emanuela Zuccalà, autrice del libro e giornalista freelance di cui si possono leggere gli articoli su Io donna del Corriere della Sera e Avvenire, è anche nostra amica e collaboratrice della redazione di Ristretti Orizzonti. Avendo avuto occasione di incontrarla e di discutere con lei di giornalismo ed informazione non mi stupisce di ritrovarla come autrice di un libro come questo (di suo già conoscevamo Risvegliato dai lupi. Un francescano tra i carcerati), che racconta la vita di una donna eccezionale, tra le ultime testimoni dirette degli orrori della Shoah, lo sterminio degli ebrei durante la seconda guerra mondiale. Di Liliana Segre non si è saputo nulla fino al 1990 e la sua storia ha rischiato di rimanere sconosciuta fino a quando non c’è stata la sua decisione di diventare testimone della Shoah, fino a quando l’urgenza di avere poco tempo ancora per raccontare non le ha fatto superare il dolore, il disagio e la paura di dover ricordare ancora, stavolta pubblicamente. Liliana viene deportata ad Auschwitz-Birkenau a quattordici anni e rimane nel campo di sterminio per un anno, all’arrivo delle truppe russe ed americane viene fatta marciare insieme alle sue compagne dalla Polonia alla Germania in un altro lager dal quale viene poi liberata a guerra finita. Il racconto della sua storia non finisce qui, continua con la sua vita da ex-deportata, continua con il ricordo di quell’esperienza della quale fa fatica a liberarsi, fino alla decisione di diventare testimone e raccontare. Il libro si conclude con una raccolta di lettere, messaggi, temi, bigliettini di studenti ed insegnanti che hanno partecipato agli incontri con Liliana. È la storia di una bambina di famiglia borghese che, con l’arrivo delle leggi razziali del governo fascista, si trova in breve tempo amputata di tutto. La casa, la libertà, la famiglia sono solo l’inizio delle perdite, fino all’internamento a Birkenau dove privazioni e sofferenze diventano una realtà totalizzante. La deportazione è raccontata nella dimensione vissuta da una bambina, anche le situazioni più drammatiche sono narrate con il pudore ed il tono tenue di chi la sofferenza ha dovuto subirla senza alcuna protezione e difesa. Una ragazza-nulla, lei, e anche alcune sue compagne, che di fronte a tanta violenza sono spesso costrette a rinunciare alla propria umanità per continuare a vivere. Liliana riesce nel racconto a coinvolgere l’intimità di chi legge perché non ha mai un tono struggente ed eroico, non si sofferma sui particolari atroci, non urla dolore e vendetta, racconta la sofferenza continua che le ha tolto anche le lacrime per piangere. L’essere sopravvissuta, per puro caso, le consente di riprendersi fisicamente, ma il ritorno in Italia segna l’inizio di un lungo cammino dove la fatica di convivere con la sua anima saccheggiata ostacola continuamente la sua voglia di normalità. Questa testimonianza supera la conoscenza dei fatti storici e spinge alla riflessione personale, fa veramente impressione il racconto dell’indifferenza dei tanti che hanno assistito ai rastrellamenti ed alla deportazione chiudendo gli occhi o voltandosi dall’altra parte, quella che è stata definita la “zona grigia”, le persone che hanno spianato la strada, col loro far finta di niente, agli artefici materiali dello sterminio. A questa indifferenza Liliana contrappone la solidarietà concreta dei detenuti di San Vittore. “E così furono i detenuti di San Vittore: sporchi, affacciati dalle loro celle a quella balconata, che con benedizioni e con addii, con arrivederci ci buttavano giù una piccola cosa qualunque, un’arancia, un paio di guanti, una sciarpa di lana, un pezzetto di cioccolato. Era un oro liquido che scendeva su di noi: era la pietà. Ci gridavano: ‘Vi vogliamo bene, fatevi coraggio. Non avete fatto niente di male’. Furono straordinari i detenuti di San Vittore: non li ho mai dimenticati. Non c’è una volta in cui non abbia parlato agli studenti di quegli uomini che potevano essere ladri e assassini, ma prima di tutto erano uomini. I detenuti di San Vittore furono capaci di pietà, ricchi nella loro povertà assoluta di detenuti in tempo di guerra. Fu un viatico umano indimenticabile. Grazie, detenuti di San Vittore. Grazie dopo sessant’anni”. È triste dover ammettere che oggi in carcere, in tempo di pace, si rischia sempre più di incontrare non tanto pietà e umanità, quanto piuttosto cinismo ed indifferenza, ‘farsi ognuno la propria galera’ è diventato quasi un comandamento. Liliana Segre ha rifiutato la vendetta e l’odio come strumenti per conservare la memoria e questo la rende una testimone eccezionale, ma le porte che questo libro apre alla riflessione sono veramente tante e leggerlo è riscoprire l’importanza di conservare la memoria degli uomini e delle donne vittime della deportazione, impedendo che della Shoah resti solo qualche paragrafo tra le pagine dei libri di storia.
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