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Gozzini addio?
Generazioni diverse di detenuti a confronto: quelli che hanno vissuto gli anni delle rivolte, del carcere disumano, che poi sono passati attraverso il carcere rinnovato dalla riforma, con il sistema dei benefici e una condizione un po’ più vivibile, e quelli che entrano in galera oggi, con la paura di veder rapidamente sparire ciò che di buono ha portato la legge Gozzini
di Mario Salvati dal carcere di Treviso
Siamo tre vecchi brontoloni entrati in carcere appena maggiorenni e che, nel corso degli ultimi trent’anni, sono stati detenuti in moltissimi istituti di pena di tutta Italia trascorrendo più della metà della nostra vita in galera. E ora vorremmo confrontare le nostre esperienze maturate in questi tre decenni con quelle delle nuove generazioni, che il carcere oggi lo vivono molto diversamente. Negli anni 70 il carcere era il “nulla”, era repressione, era solo luogo di espiazione della pena in senso punitivo e vendicativo, che non teneva in alcun conto la persona, per la quale non esisteva alcun progetto o intenzione di recupero. In carcere regnavano la contestazione e la disperazione, sfociate poi nelle famose e dolorose “rivolte” che hanno comportato, per chi allora era detenuto, nuove condanne, maltrattamenti, trasferimenti in carceri distanti dal luogo di residenza, tutte misure che ci diminuivano le già pochissime possibilità di difenderci ai processi a causa della lontananza dall’avvocato e dal tribunale di competenza. I trasferimenti poi ci toglievano anche la possibilità di mantenere il rapporto affettivo con la famiglia (e molti avevano la moglie giovane, figli piccoli e genitori anziani). Questo stato di cose ha generato quanto di peggio si può concepire: sopraffazione, ogni sorta di violenza, degrado ed abbrutimento della persona. Anche chi era dall’altra parte del cancello, gli agenti che all’epoca erano “militari”, assorbiva quel “clima” finendo con l’adeguarsi e diventare parte integrante di quel vivere degradato che di fatto è al di fuori di ogni regola civile. La drammaticità di quella situazione ha dato spazio a una corruzione materiale e morale così diffusa, da diventare quasi la regola. Ha generato di conseguenza anche una solidarietà all’interno degli istituti di pena, fatta di amicizie, alleanze e sodalizi, che poi si è trasferita fuori ed è degenerata, innescando una spirale di egoismi, violenza e sopraffazione senza confini sia all’interno, sia all’esterno delle carceri. Era anche il periodo del terrorismo, anni violenti nella società e anche in carcere. La risalita è stata molto lenta ma progressiva, ora però purtroppo stiamo vedendo una drammatica inversione di rotta e cioè, lentamente, con leggi restrittive, ci stanno togliendo quanto in trent’anni eravamo riusciti a conquistare. Nel nostro intimo, speriamo davvero di non tornare a quei tempi così pesanti e dolorosi. Dopo anni di rivolte e contestazioni, il primo barlume di “luce” lo abbiamo avuto con la riforma penitenziaria varata nel 1975. Improvvisamente, dal “nulla assoluto” ci siamo ritrovati il bagno in cella, che prima in molti istituti non c’era (esisteva il “bugliolo”). Ci siamo ritrovati le varie commissioni sorteggiate tra noi detenuti per controllare il vitto (prima era assurdo solo pensarlo), la commissione sportiva, la presenza in carcere di medici specialisti ed infermieri. E ancora, il televisore in una saletta, i fornelli a gas per cucinare, e poi potevamo finalmente spedire e ricevere la corrispondenza senza la censura, e ci consentivano (cosa prima inimmaginabile) di telefonare ogni settimana ai famigliari. Ma il vero cambiamento è iniziato con l’introduzione dei benefici penitenziari, un cambiamento epocale. All’inizio se ne parlava molto ma senza convinzione, quasi con paura di fronte ad una svolta che tanto poteva incidere sulla vita dei detenuti, delle loro famiglie e di tutta la società. Improvvisamente molti di noi si sono ritrovati da “senza speranza” ad uscire dal carcere in permesso, in semilibertà, in lavoro esterno… Di giorno in giorno, lentamente, anche il rapporto tra carcere, società e mondo del lavoro cambiava. Vi erano le prime aperture al volontariato, arrivavano le prime disponibilità ad assumere un detenuto a lavorare. Grazie ai permessi si potevano coltivare gli affetti famigliari, quindi, anziché disgregarsi, molti rapporti si sono rinsaldati e soprattutto, grazie a questo lumicino di speranza, molte persone uscite dal carcere sono riuscite a reintegrarsi nella società senza commettere più reati.
Ora nelle carceri le rivolte violente e distruttive non esistono più, ma c’è un degrado che non si capisce dove possa sfociare
Forse, anzi sicuramente, non eravamo preparati ad un cambiamento di simile portata: forse non ne comprendevamo appieno il senso, infatti il cammino è stato lento. C’era stupore, incredulità, diffidenza, rancori, sodalizi strani… Perché le cose cominciassero a modificarsi davvero, si è dovuto attendere la crescita culturale e il conseguente cambiamento della mentalità sia da parte dei detenuti e loro famigliari, sia da parte di tutti gli operatori del settore e del mondo del lavoro. È un dato di fatto che molta strada è stata percorsa da allora, ma è altrettanto chiaro che molta strada si dovrebbe ancora percorrere perché questa “macchina riformista” che si è avviata a fine anni 70 produca appieno quella quantità di buoni frutti sperati e sospirati sia dai detenuti, sia dai loro famigliari e da quella parte della società civile che crede in una giustizia non assetata di vendetta. Ora almeno ci sarebbero le basi per portare avanti e migliorare il lavoro iniziato 30 anni fa. Oggi siamo invece un po’ preoccupati nel constatare che chi è preposto a legiferare e chi è preposto ad applicare le leggi, anziché apportare innovazioni basandosi sulle esperienze positive maturate in questo ultimo trentennio e cercando di migliorare l’attuazione di queste riforme, purtroppo sta progressivamente lavorando per tornare indietro con leggi restrittive, che abrogherebbero tutto quanto di buono è stato prodotto fin qui. La famosa legge Gozzini è oramai ridotta al lumicino e, come se non bastasse, viene applicata a macchia di leopardo, nel senso che alcune direzioni di carceri, alcuni Tribunali di Sorveglianza ed alcuni Magistrati di Sorveglianza applicano quei pochi benefici rimasti, mentre altri, grazie alla discrezionalità della legge, di fatto di benefici ne concedono pochissimi. Pertanto, le speranze di un detenuto dipendono esclusivamente dal carcere e dalla regione dove si trova. Da detenuti che “ne hanno viste tante” siamo preoccupati per l’inversione di marcia. Per trent’anni si è cercato di favorire l’ingresso in carcere agli imprenditori che creavano posti di lavoro. Ora gli istituti che dispongono di attività lavorative sono rarissimi. C’erano le colonie agricole, ma anche queste sono state chiuse. Semilibertà, affidamenti e permessi, non solo vengono concessi poco, ma, quando vengono dati, è per lo più nella fase finale della pena. In carcere vige la paura del rapporto disciplinare, perché un rapporto può precluderti ogni possibilità di liberazione anticipata e qualunque altro beneficio. E soprattutto, la legge Gozzini è continuamente messa in discussione, e si minaccia ogni giorno di più di restringere sensibilmente le opportunità che offre. Tutte queste restrizioni sono come sempre motivate dalla solita scusante, e cioè l’emergenza criminalità, i reati gravissimi, i disordini nelle carceri… Forse noi saremo brontoloni, ma forse chi legifera ed applica le leggi dovrebbe rinverdire la memoria scorrendo la vecchia cronaca… In quegli anni, nelle carceri d’Italia non passava giorno che non ci fosse un omicidio, evasioni, evasioni a mano armata. C’erano anche un’infinità di armi di ogni genere; accoltellamenti di cui solo i più gravi venivano segnalati alla magistratura. Quanto ai reati che venivano commessi, basta pensare alle rapine fatte con armi pesanti, ai moltissimi sequestri di persona, ai quintali di stupefacenti sequestrati. Ora non vogliamo produrre un elenco dei misfatti, vogliamo solo evidenziare il nostro punto di vista, e cioè che da una simile drammatica situazione, con il coraggio di chi ha legiferato e di quella parte della società che effettivamente ha creduto nel recupero della persona e la buona volontà di noi tutti, si è riusciti ad uscire dai cosiddetti “anni bui”, tanto è vero che i giovani che oggi entrano in carcere neppure sanno cos’era la galera, anzi spesso non credono che esistesse una simile situazione di degrado morale e materiale. Ora nelle carceri le famose rivolte violente e distruttive non esistono più. Ora al massimo può esistere qualche forma di contestazione civile e pacifica con il rispetto delle persone e delle cose e il confronto e il dialogo con le istituzioni. Anche buona parte dei reati è di tutt’altra gravità. Ora più raramente si verifica un fatto di sangue mentre un tempo era la regola, il sequestro di persona può considerarsi quasi estinto e il terrorismo di quell’epoca non è paragonabile agli isolati fatti di terrorismo di oggi. Certo, anche oggi vengono commessi reati ma non tali da far gridare all’emergenza e giustificare l’emanazione di leggi sempre più restrittive, che riporterebbero il carcere al “nulla” degli anni 70. I giovani che stanno in carcere, le nuove generazioni di detenuti, non conoscendo il passato, accettano passivamente, ma con malumore molto diffuso la repressione in atto e la mancata applicazione di quel poco che è rimasto della riforma penitenziaria. Non hanno stimoli, si imbottiscono di terapia per dormire… A nostro modo di vedere, con la conoscenza del carcere che purtroppo abbiamo, potrebbe essere in questo degrado il focolaio che in futuro può generare situazioni spiacevoli e drammatiche per tutti, come è già successo alla nostra generazione che ha conosciuto la galera precedente la riforma. Sono solo nostre riflessioni. È un guardare all’indietro per cercare di costruire il nostro futuro senza ricadere in quelle situazioni che ci hanno portato nell’illegalità. Forse saremo dei brontoloni ma nutriamo speranza che vengano abbandonate le strade delle restrizioni e coltivate le vie del recupero della persona e quindi della vita.
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