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I giovani che delinquono sono fragili
Giulia De Marco, presidente del tribunale per i minorenni di Torino, è contraria all’inasprimento delle pene per i giovani che commettono reati. Lo ipotizza un disegno di legge che ora il ministro Castelli, sulla scia delle polemiche per il permesso a uno degli assassini di Desirée Piovanelli, intende riportare all’attenzione del Parlamento. Per accontentare quella parte dell’opinione pubblica sempre più giustizialista, che non crede alla possibilità di un recupero per chi, da ragazzo, ha sbagliato
A cura di Marino Occhipinti
Mattia aveva solo quattordici anni quando, due anni fa, partecipò all’orribile assassinio di Desirée Piovanelli, sua coetanea. La notizia che il ragazzo potrebbe presto ottenere un permesso premio e, forse, scontare gli otto anni di pena che gli restano in una comunità, ha ovviamente indignato l’opinione pubblica. Riaccendendo ancora una volta il dibattito sulla presunta morbidezza del nostro sistema penale minorile. Se il disegno di legge del ministro Castelli sullo smantellamento dei tribunali minorili è stato bocciato dal Parlamento, la sua proposta di inasprire le pene per i minorenni giace in Commissione Giustizia alla Camera. E – come lo stesso Castelli ha ricordato in un’intervista a Panorama – «se il Parlamento decide di muoversi, può tirarlo fuori dal cassetto. Nei prossimi giorni chiederò a Gaetano Pecorella, presidente della Commissione Giustizia, se intende riproporla all’attenzione dei deputati». Una spada di Damocle pronta a cadere su pressione dell’opinione pubblica, insomma. Come l’altra proposta, avanzata da altri parlamentari, di abbassare l’imputabilità dei ragazzi da quattordici a dodici anni: il sogno di tornare alle vecchie case di correzione, con i piccoli galeotti in tuta a righe che si portano i giocattoli nelle celle. Sintomi che il recupero del minore, concetto per il quale si sono combattute tante battaglie culturali, non piace più. Sempre Castelli a Panorama: «È difficile abbattere il pensiero unico totalmente concentrato sul recupero del minorenne. I fatti nuovi di questi giorni hanno molto impressionato un’opinione pubblica che non ama il giustizialismo indiscriminato, ma esige maggior rigore nei confronti dei responsabili di terribili delitti». Eppure la nostra legislazione penale minorile, accusata di troppa flessibilità e di offrire troppe alternative al carcere, sembra funzionare bene: otto giovani su dieci sottoposti alla messa alla prova (la sospensione del processo perché il ragazzo segua un percorso di recupero) tornano a una vita normale, senza che i loro reati lascino tracce sulla fedina penale. Non solo: i crimini commessi dai ragazzini sono diminuiti, negli ultimi anni. Certo, la recidiva resta ancora alta, ma riguarda i reati meno gravi (furti, droga). E allora perché far leva su singoli, seppur gravissimi casi, per invocare una filosofia della repressione? Abbiamo letto parecchi interventi su questo spinoso e preoccupante argomento, tra i quali anche quelli del presidente del tribunale per i minorenni di Torino, Giulia De Marco. L’abbiamo intervistata.
Da tempo lei si occupa di procedimenti penali che vedono coinvolti giovani ragazzi. Alla luce della sua esperienza, pensa che sarebbe stato davvero necessario abolire i tribunali per i minorenni? Il disegno di legge Castelli, che prevedeva di sostituire i tribunali per i minorenni con sezioni specializzate presso cento tribunali italiani, con sedi da individuarsi, è fortunatamente stato bocciato dalla Camera dei deputati. L’associazione italiana dei Magistrati per i minorenni e per la famiglia si è battuta per la bocciatura di quel disegno di legge che distruggeva settant’anni di giustizia minorile, e ha trovato una grandissima adesione in tutte le forze politiche, nelle associazioni cattoliche, nel volontariato e anche in un settore dell’avvocatura.
Secondo lei si potrebbe rinunciare al contributo fornito dagli esperti laici presenti nei collegi giudicanti, che in caso di approvazione delle modifiche sarebbero diventati solo dei consulenti esterni? Assolutamente no. L’esclusione della componente onoraria all’interno dei collegi giudicanti rischiava di eliminare la fonte primaria della specializzazione dei tribunali per i minorenni. Non è infatti attraverso dei periodici corsi di formazione che si crea la specializzazione in un settore che riguarda la famiglia e i minori, ma tramite il confronto quotidiano con specialisti di altre discipline. I giudici onorari, svolgendo prevalentemente la loro attività fuori dai palazzi di giustizia, portano una cultura-altra, diversa da quella giuridica, e consentono ai magistrati di giudicare e intervenire sulle situazioni familiari e sui comportamenti dei ragazzi attraverso una lettura anche psicologica, sociologica, pedagogica, criminologica. Solo continuando così, su questa strada, pensiamo di rendere vera giustizia. Fra l’altro il tribunale che presiedo, quello del Piemonte e della Valle d’Aosta, ha un organico di soli nove magistrati: se non fosse per la presenza dei giudici onorari e per la loro disponibilità, non saremmo in grado di funzionare.
Perché non si riesce ad abbassare la recidiva dei ragazzi che passano dagli istituti di pena minorili? È una questione di scarse risorse economiche e professionali o piuttosto di percorsi inadeguati? Più che di recidiva alta, parlerei di fase adolescenziale critica. I nostri ragazzi appartengono a famiglie disgregate o gravemente problematiche; non hanno ricevuto cure primarie adeguate o una educazione affettuosamente e autorevolmente contenitiva. In adolescenza, questa loro fragilità spesso li porta alla devianza sotto forma di inadempienza scolastica, uso di droghe o alcol, fughe da casa e talvolta reati. Se sono aiutati, sostenuti, se si indovina il progetto giusto, i ragazzi tornano sulla retta via. Le risorse effettivamente sono poche, soprattutto negli ultimi anni, e per questo i progetti sono spesso standardizzati invece che individuali. Gli operatori suppliscono con molta buona volontà ma c’è il serio pericolo che subentri un senso di frustrazione. Il problema maggiore, in questi ultimi anni, è rappresentato dai ragazzi stranieri soli – non accompagnati, li definisce la legge – senza nome, senza documenti, senza fissa dimora. Non è facile agganciarli e il carcere per loro diventa inevitabile. Cosa ne pensa della proposta di punire un ragazzo a partire da dodici anni?Sono profondamente contraria a un abbassamento dell’età imputabile. I ragazzi di oggi hanno più nozioni ma sono meno maturi di quelli delle precedenti generazioni. Spesso essi stessi sono figli di genitori con tratti di personalità adolescenziale.
E quali potrebbero essere i rischi del trasferimento di questi giovani nelle carceri per adulti al compimento dei diciotto anni e non più, come vorrebbe il ministro Castelli, a ventuno? Sono altrettanto contraria, anche se mi rendo conto che è ingiusto che chi commette un reato anche non grave, a diciotto anni e un giorno, vada direttamente in un carcere per adulti e chi commette un reato grave, a diciotto anni meno un giorno, abbia un trattamento diverso. Ma nel nostro ordinamento in molte materie ci sono sbarramenti connessi all’età: la stessa soglia dei quattordici anni è un limite che porta, dalla presunzione assoluta di non imputabilità, alla verifica caso per caso.
Per concludere: quali rimedi potrebbero veramente migliorare la giustizia minorile, che non siano solo repressivi ma che vadano verso il reale recupero sociale? Penso che dovrebbe essere creato un sistema sanzionatorio diversificato per i minorenni che delinquono. Se la condanna al carcere deve essere considerata residuale, come dice la nostra Corte Costituzionale, che senso ha un Codice penale che prevede quasi costantemente la pena della reclusione?
La messa alla prova: Quando il giudice sospende la pena
Il minorenne entra nel carcere minorile solo su provvedimento di un giudice. I minori fermati o arrestati dalla polizia finiscono invece al Centro di prima accoglienza, una struttura collocata in una sede distinta. Solo con l’udienza di convalida, entro quattro giorni, il giudice decide se applicare la custodia cautelare in carcere o altre misure: prescrizioni di studio o lavoro, permanenza in casa, collocamento in comunità. Il giudice, all’udienza preliminare o durante il dibattimento, può sospendere il processo e decidere la messa alla prova per un massimo di tre anni. Il ragazzo imputato, seguito dall’ufficio di Servizio sociale per i minorenni (che dipende dal Dipartimento della giustizia minorile), si impegna per raggiungere degli obiettivi (studio, lavoro, volontariato, richiesta di perdono o risarcimento delle vittime) da realizzare in famiglia o in una comunità. Se la prova ha successo il reato è estinto e dunque non compare sulla fedina penale. In caso contrario, riprende il processo ordinario e il ragazzo sconta la pena a cui viene condannato (per un minore, il massimo è ventuno anni). Per il recupero di un ragazzo in comunità si spendono 52-104 euro al giorno. Un adulto detenuto in carcere costa circa 260 euro.
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