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Com’è difficile maneggiare le storie vere come se fossero romanzi! Ne abbiamo parlato in redazione con Carlo Lucarelli, scrittore, ma anche ideatore e conduttore della trasmissione “Blu notte” Nicola
Sansonna (Ristretti): Che cosa ti ha
portato a scegliere di scrivere romanzi noir? E insegnare in carcere ti è stato
in qualche modo utile per il tuo lavoro? Carlo
Lucarelli: Ci sono delle storie che
appassionano il lettore più di altre per quello che raccontano e per come sono
raccontate, e la stessa cosa succede agli scrittori, quando ti accorgi che hai
più voglia di raccontare un certo tipo di storia, in un certo modo, che altre.
A me è successo da ragazzino, diciamo verso i 15 anni, quando ho cominciato a
scrivere mi sono accorto che le storie che volevo raccontare erano molto vicine
a quelle che mi piaceva leggere, e che erano storie “noir”, storie che
avevano a che fare con la metà oscura. A me piacevano le storie misteriose, che
quando cominci a raccontarle non sai come vanno a finire, mi piace quando queste
storie vengono raccontate con la tecnica della “suspense”, del colpo di
scena quando sono storie che toccano una realtà strana, che non conosco, che mi
fa paura e sto lì pagina per pagina a vedere cosa succede. Mi chiedete poi se il venire qui dentro in carcere può avermi dato qualcosa dal punto di vista del mio lavoro. Quando sono entrato la prima volta l’ho fatto con la curiosità di chi non sa niente di un mondo che conosce solo attraverso la letteratura o il cinema. Naturalmente pensavo che sono anche uno scrittore di gialli e credevo di imparare delle cose, ma subito non è stato così perché in realtà con i miei “studenti” ci siamo ritrovati a parlare di tutt’altre cose, con uno scambio che non era tra io, scrittore di gialli… voi che i gialli li avete vissuti e allora mi raccontate delle cose, questo non c’entrava niente, anche perché per parlare di certe questioni serve una buona intimità e noi non la potevamo avere. Il contributo che ho avuto nel cercare di raccontare un certo tipo di sensazioni, un certo tipo di mondo è stato di venire io a sentire tutta una serie di cose che erano diversissime da come me le immaginavo. Letterariamente mi sono sempre immaginato, per esempio, un carcere come un posto immobile e silenziosissimo, e non era vero, mi immaginavo un posto in cui il tempo è bloccato, fisso, in cui tutti hanno il tempo di fare quello che vogliono all’infinito, tanto sono qui; e mi stupii la prima volta che venne l’agente a dire: “Tempo scaduto, via tutti!!!”… Ed io: “Come tempo scaduto, c’è tanto tempo!”. Le altre cose che ho imparato, sono state riguardo al linguaggio che si usa in galera, e mi ricordo un bellissimo confronto che facemmo su questo argomento, e lì ho imparato proprio dalla rivista, leggendo “Ristretti Orizzonti”.
Il giornalista informa, lo storico analizza e studia, lo scrittore racconta una storia in modo che uno si emozioni
Marino
Occhipinti (Ristretti): Quando hai
cominciato a fare trasmissioni televisive a partire da casi di cronaca nera
realmente avvenuti, ti sei reso conto dell’invasività che possono avere i
giornalisti nella vita delle persone? Perché un conto è maneggiare storie di
fantasia, un altro è maneggiare come romanzi delle vicende di vita vissuta. Carlo
Lucarelli: Certo, hai ragione, e ci abbiamo
pensato parecchio. Io sono arrivato alla televisione perché mi hanno chiamato,
era il ‘97/’98 e RAI 2 voleva fare un altro programma del tipo “Telefono
Giallo”, cercavano qualcuno che lo facesse e volevano usare uno scrittore e
non un giornalista. Ho fatto allora la prima trasmissione che era “Mistero in
Blu”, e ho portato lì esattamente le stesse cose che facevo nella scrittura.
Non essendo un giornalista l’ho fatto da scrittore di romanzi gialli: prendo
una storia misteriosa e cerco di capire come si può raccontare dal punto di
vista della tecnica narrativa, raccolgo tutte le informazioni possibili,
costruisco la storia attorno ad un personaggio, che nei vecchi casi di
“Mistero in Blu” di solito era la vittima dell’omicidio. E poi comincio a
raccontare tutto, utilizzando anche i consulenti, che sono due giornalisti che
collaborano con me e mi portano degli elementi nuovi, e un poliziotto della
scientifica di Bologna, Silio Bozzi, a cui telefonavo quando scrivevo romanzi
per conoscere le parti tecniche, del tipo come si prendono le impronte digitali.
Il nostro compito nel programma è sempre stato quello di raccontare delle
storie, non di indagare… quando poi abbiamo cominciato a raccontare vicende
“quasi storiche”, allora il mio compito era di trattare queste vicende
sposando insieme due cose che erano difficilissime, da una parte cercare di
renderle più accattivanti ed emozionanti possibile, perché il compito dello
scrittore è proprio questo, il giornalista informa, lo storico analizza e
studia, lo scrittore racconta una storia in modo che uno si emozioni. In genere
lo fai con una storia non vera, quindi puoi fare quello che vuoi, basta creare
quelle emozioni. Quando però ti capita, come in questo caso, di avere a che
fare con delle storie vere, arriva il punto nodale, da una parte devo creare
emozioni, dall’altra farlo solo con fatti veri. Ci sono due problemi che ho
visto nel fare la trasmissione, uno era proprio la verità, cosa vuol dire fatti
veri? Vorrei raccontare una storia il più obiettivamente possibile, ma come si
fa? Mi sono accorto, sin dai tempi dei delitti più raccontabili, perché più
facili, ma soprattutto con questi ultimi casi che sono pieni di misteri,
depistaggi, narrazioni che non sono obiettive, lì mi sono accorto che diventa
veramente difficile perché non ti puoi fidare delle cose che ti vengono dette.
Il primo problema è che noi ci troviamo di fronte a tante informazioni
difficili da verificare, l’altro problema è proprio quello della invasività,
e questo l’abbiamo visto ancora di più con questi casi più grossi che
appartengono davvero a una nazione: se ti metti a raccontare della strage di
Bologna non è che stai raccontando la storia di Mambro e Fioravanti, racconti
di un momento della storia d’Italia che non appartiene alle persone che
l’hanno vissuta ma appunto alla storia d’Italia. Se c’è un mistero in
quella storia lì va raccontato perché è un mistero che riguarda tutti. Noi poi ci siamo confrontati spesso con giornalisti di altri programmi più biechi dei nostri, e un conto è dire che oggettivamente una storia la racconto perché credo che debba essere raccontata, e un altro è dire: lo faccio senza il rispetto per nessuno. Quando non hai rispetto fai di tutto, butti lì delle cose false e vai ad investigare anche su quegli aspetti della vita delle persone che non c’entrano niente con il caso. E poi c’è anche un “rispetto linguistico”: certi termini non li abbiamo mai usati anche se ci avrebbero fatto comodo. Per esempio non abbiamo mai detto la parola “cadavere” in tutta la trasmissione, o “mostro” o simili.
Esiste una verità giudiziaria della quale io devo tenere conto e dalla quale non mi posso distaccare più di tanto
Francesco
Morelli (Ristretti): Le ipotesi
investigative su un “caso” di cronaca nera presentano sempre dei rischi, sia
quando la ricostruzione viene eseguita prima del processo, sia a sentenza fatta.
Prima del processo, perché possono condizionare la “serenità” dei giudici,
che dovrebbero decidere in base a quanto si accerta in aula e a niente altro,
tanto meno ad un’opinione pubblica orientata dalle idee dei giornalisti e
degli scrittori. Dopo il processo, perché le “ricostruzioni”, per essere
interessanti, devono introdurre elementi di dubbio, in qualche modo devono
suggerire che la verità è diversa da quella (o non è tutta quella) accertata
dai giudici stessi. Però,
quando c’è una verità processuale, una persona condannata deve accettarla e
portarne il peso: anche se sa di essere innocente è tenuta a comportarsi da
colpevole, ad espiare, a sottoporsi alla “rieducazione”, altrimenti viene
etichettata come “irriducibile”, “irrecuperabile”. Ma almeno, quando una
persona viene assolta, o riconosciuta colpevole solo in parte, secondo me
avrebbe il diritto di pretendere che la società accetti queste conclusioni, che
non siano più fatti tanti “ricami” sulla questione se la sentenza è giusta
o sbagliata. Carlo Lucarelli: Questo è un grosso problema perché io finché scrivevo romanzi gialli avevo a che fare con una verità oggettiva, me la inventavo io, o meglio non è che me la inventassi io, la trovavo dentro la mia storia. Quando mi sono trovato ad avere a che fare, prima come collaboratore di giornali, ma soprattutto con la televisione, con fatti realmente avvenuti, io mi sono occupato di casi misteriosi irrisolti, casi in cui la verità giudiziaria, quando c’è, comunque è dubbia e molte volte non c’è affatto, e lì mi sono trovato spiazzato perché ero abituato a considerare la verità “senza aggettivi” e invece mi sono visto messo di fronte alla verità della realtà, che è una verità con aggettivi, verità giudiziaria, verità storica, verità del buon senso, verità politica, devi metterci un aggettivo, non c’è una verità sicura. E ho cominciato ad avere a che fare con tutte queste verità e a doverle testimoniare tutte. Certo esiste una verità giudiziaria della quale io devo tenere conto e dalla quale non mi posso distaccare più di tanto, però come metodo, essendo io un autore di romanzi gialli, puoi dirmi anche chi è stato ad uccidere ma io devo sapere di più, non mi basta sapere chi è stato, voglio sapere come ha fatto ad entrare da quella finestra, perché conosceva la vittima in quel modo, per quale motivo è successo tutto questo, ho bisogno di tanti perché e molte volte la verità giudiziaria questo non me lo dice. Allora io parto da lì, questa è la verità giudiziaria, però questo mistero qui chi me lo spiega? Noi abbiamo sempre cercato di fare questo, che è però anche un grosso problema perché molte volte ci si ritrova ad avere a che fare, soprattutto per certi grandi misteri italiani, con verità giudiziarie che non ci sono, o sono talmente lontane dalla verità del buon senso che qualche dubbio ti viene, e noi cerchiamo di rendere conto di questi dubbi.
Raccontare come se io non avessi nessuna idea particolare e dovessi documentare tutte le ipotesi diverse
Francesco
Morelli: Tanti problemi noi li vediamo
molto direttamente nel rapporto con i media; ci viene in mente proprio il caso
recente in cui hanno ritirato fuori il mostro di Firenze e parlavano di Pacciani
come il responsabile; ma se non sbaglio Pacciani è stato assolto. Lì è
difficile anche capire se c’è una verità, non soltanto di distinguere la
verità oggettiva, giudiziaria, storica. Carlo Lucarelli: Lì dovrebbe essere una responsabilità di chi racconta queste cose, di fare uno sforzo enorme anche contro quella che può essere la sua opinione personale. In realtà se vuoi raccontare quella storia dovresti farlo depurandola intanto di tutte queste sedimentazioni giornalistiche che ci sono state. Il caso del “Mostro di Firenze” è eclatante da questo punto di vista; io mi ricordo che da ragazzino, quando leggevo le sue vicende sui giornali, anch’io ero convinto come tanti che fosse una persona alta più di due metri perché c’era un’impronta molto grande per terra, e poi scopro, occupandomi di questo caso assieme al poliziotto che adesso ha scritto il libro, che l’impronta numero 46 era di un carabiniere che l’ha lasciata sul luogo, ed è chiaro che i carabinieri l’hanno saputo subito ma non è che sono andati a informare i giornali dicendo: “Quella impronta è nostra perché siamo stati poco professionali”, e così quella notizia è rimasta, e si è sedimentata. Alla fine, una volta depurata la storia, anche se io ho una teoria che mi piace, nel fare la trasmissione ho cercato il più possibile di raccontare come se io non avessi nessuna idea particolare e dovessi documentare tutte le ipotesi diverse.
Non c’è un modo di raccontare le belle notizie e un modo di raccontare quelle brutte, ma c’è un modo di raccontare le storie in maniera appassionante
Ornella
Favero: Mi ricordo che una volta hai detto
che il tuo primo lavoro è stato di “coloritore di cronaca nera”. Allora
forse puoi insegnarci a rendere più appetibili anche le buone notizie? Carlo
Lucarelli: Io avevo già scritto due
romanzi gialli quando mi ha
chiamato un giornale locale di Imola che stava ampliando le pagine di cronaca
nera, e il ragionamento un po’ scherzoso e un po’ serio era proprio questo:
siccome qui non succede niente, vedi di occupartene tu che sei uno scrittore di
gialli, prendi la vecchietta che è caduta per le scale e inventati qualcosa!!
Si diceva per gioco naturalmente, perché non volevo creare un allarme
“anziane signore che cadono per le scale a Imola”, ma il ragionamento non
era sbagliato. L’idea era: cerco di raccontare una storia che magari può
sembrare noiosa usando le tecniche della letteratura, del giallo soprattutto,
che rendono comunque avvincente qualunque avvenimento. Certo si pensa che i
giornalisti abbiano meno questo problema, perché non dovrebbero raccontare
storie creando emozioni ma cercando di informare, però è vero anche che ci
sono alcune storie che vanno “aiutate”. Il fatto poi che ci siano tante brutte notizie sui giornali ti porta a inseguire quello che c’è di sempre più eclatante, non basta un omicidio ma deve essere un omicidio efferato per andare in prima pagina, non basta un incidente, deve essere un incidente con un sacco di morti. Allora siamo sempre a cercare cose eccezionali ed è facile capire questo meccanismo; con le notizie buone è più difficile, ne parlavo di recente con un mio amico, Gianpiero Rigosi, che è anche lui uno scrittore, e dicevamo che ci sono dei fatti, delle belle storie che quando te le racconti dici: “Oh, allora non è poi così brutta la vita”!! “Allora non accadono solo cose brutte”! E ognuno di noi si è messo a pensare ad un piccolo esempio, niente di eclatante, che avesse a che fare con le buone notizie. La storia che ho raccontato è questa: io insegno alla scuola “Holden” a Torino, un giorno siamo per strada, stiamo ritornando alla scuola, gli altri studenti sono avanti e io un po’ indietro con una studentessa molto giovane e bella, magrissima come una modella; mentre chiacchieriamo vedo un signore sui 70 anni, molto grosso ed anche molto brutto, che la guarda, la sta letteralmente radiografando, le prende proprio le misure. Un po’ mi scoccia e mi viene da pensare: “Che cazzo di mondo è, che uno si mette a guardare una ragazzina in questo modo, lui così schifoso!!”. Ad un certo punto questo qui si stacca e punta su di lei, ed io ero già pronto per dire: “Senta un po’, primo, può essere suo nonno, secondo, lei è con me!!”, pronto quasi a litigare con lui. Questo arriva e fa alla ragazza una domanda che io non mi sarei mai aspettato: “Scusi, lei ha la patente?”. Lei gli risponde di sì e lui ci fa vedere che ha la macchina incastrata tra due auto e non riesce ad aprire lo sportello: “Sono due ore che sto aspettando una persona magra come lei che ci può entrare!!!”. La ragazza è entrata come una sogliola ed ha tirato fuori la macchina, questo significa che io pensavo che il mondo è una schifezza, che c’è una specie di orco pronto a sbranare una ragazzina, ma mi sono sbagliato, in realtà questo qui poteva essere un tranquillissimo nonno che aveva solo bisogno d’aiuto. è una bella notizia. Sono stati tutti ad ascoltare, io l’ho raccontata così, l’ho fatto come avrei raccontato una brutta notizia, cioè un giallo, l’ho basata sul mistero e l’ho raccontata come una cosa eccezionale che non ci aspettiamo che accada così, e ho cercato di costruire nella narrazione di questa cosa dei caratteri che ci interessassero. Allora non è che c’è un modo di raccontare le belle notizie e un modo di raccontare quelle brutte, ma c’è un modo di raccontare le storie in maniera appassionante, creando la tensione e arrivando alla fine con una specie di colpo di scena che ti fa capire tutta l’eccezionalità della vicenda, che poi in quel caso non era granché eccezionale, era semplicemente uno che aveva chiesto aiuto ad una ragazza.
In televisione si parla soprattutto di casi eccezionali
Stefano
Bentivogli (TG 2 Palazzi): è vero che c’è
modo e modo di raccontare le cose, sta di fatto che si scelgono sempre i casi
comunque eccezionali, perché più sanguinari, meno risolti, i più violenti di
solito. Secondo te questa cosa alla fine umanizza il criminale o non fa altro
che accentuare l’immagine di mostro? Perché a questo punto se il carcere
cerca di aprirsi verso la città, come sta facendo qui, qualcuno può temere che
si apra una città di mostri. Allora questo modo di far televisione sul crimine
porta a riavvicinare noi all’esterno o ad isolarci ancora di più? Carlo Lucarelli: Ci sono modi diversi di raccontare il crimine, e ce n’è uno che è abbastanza vicino alla nostra concezione di scrittori: quando scrivi un romanzo “noir” per forza di cose devi andare a cercare le ragioni di ognuno, di quello che faceva il buono e di quello che faceva il cattivo. In questo senso non esiste un mostro, non c’è uno che è fuori della razza umana, ma c’è una persona che ha un mare di problemi. Seguendo questa strada, io credo che anche raccontare i crimini più efferati possa significare comunque umanizzare e avvicinare la gente a qualcosa che è successo, se invece tu hai una vittima e un mostro e basta, questo sicuramente spaventa e allontana. È anche vero che in televisione si parla soprattutto di casi eccezionali, lo spazio dell’informazione è talmente ristretto che passano soltanto quelli, adesso però ci sono programmi televisivi che hanno il coraggio di mettersi lì a raccontare veramente la realtà. Non so se l’avete visto, ma c’è stata una serie televisiva, Residence Bastogi, che ha seguito con le telecamere la storia di un quartiere di Roma dove si vive in condizioni di forte disagio, dove molte persone sopravvivono con i furti, il piccolo spaccio di droga, sono piccole storie di vita però molto intense.
Chi ha un punto di vista particolare, come si ha stando qui dentro, riesce a vedere delle cose che da fuori non si vedono
Elton
Kalica (Ristretti): Quando dobbiamo dare
notizie che hanno a che fare col carcere, noi che ci viviamo “dentro” stiamo
attenti a non cadere in una specie di piagnucolio, di lamentosità diffusa. Tu
che cosa ci consiglieresti per evitare il rischio di far coincidere la
sofferenza con il lamento? Carlo Lucarelli: Chiunque racconta una cosa che lo riguarda ha uno sguardo meno obiettivo, questo è ovvio, e cerca sempre di trovare un punto di vista che sia giustificatorio. Questo vale anche per gli scrittori che scrivono di storie inventate, ma che hanno a che fare in qualche modo con la propria biografia, se scrivi di te stesso dopo un po’ cominci a dipingerti come una persona che comunque è buona e al massimo se si trova in un guaio è stato solo per sfortuna. Credo però che la cosa giusta sia cercare di distaccarsi e di guardare dal di fuori, ma anche di riuscire comunque a rendere le ragioni di tutti, perché chi ha un punto di vista particolare, come si ha stando qui dentro, riesce a vedere delle cose che da fuori non si vedono, a trovare tutte le giustificazioni, tutti i veri problemi, però credo che l’unica cosa da fare per farsi leggere davvero da tutti sia mettersi lì a vedere veramente le cose sotto più punti di vista, e se una cosa “regge” anche se vista da due punti di vista diversi è senz’altro più oggettiva, più credibile. Un altro fatto poi che conta nel raccontare è la sobrietà, meno si calcano i toni, meno si usano parole retoriche, meno si usano aggettivi, e più la storia che si racconta sembra pulita, efficace, di quelle che, quando uno le legge, ci crede.
Oggi sembra quasi che il carcere ti rimanga addosso, ti contamini e ti stigmatizzi per sempre
di Emanuela Zuccalà Un’ntervista a Luigi Pagano, direttore di San Vittore, che ci racconta il “suo” carcere, come lo vede lui e come lo ha raccontato invece Candido Cannavò, ex direttore della Gazzetta dello Sport, nel suo ultimo libro “Libertà dietro le sbarre” Mezza
parete del suo ufficio è invasa da un quadro bizzarro: una planimetria colorata
e particolareggiata dei raggi di San Vittore, realizzata da un detenuto nel
1950. Una piccola eredità che Luigi Pagano, direttore del carcere milanese di
piazza Filangieri dal 1989, ha conservato come simbolo del suo legame con un
edificio che definisce “un paradosso vivente”. Costruito dopo l’unità
d’Italia per contenere ottocento detenuti, oggi ne ospita 1400, e ai tempi di
Tangentopoli aveva toccato il picco di 2500 presenze. Ma nonostante il
sovraffollamento cronico e le tante ristrutturazioni da apportare, è un carcere
che vive e crea opportunità di reinserimento: a San Vittore c’è una sartoria
che confeziona abiti per teatri lirici e programmi televisivi, una cooperativa
che produce oggetti in pelle ecologica, e da qualche mese anche un call-center
della Telecom che dà lavoro a una trentina di detenuti. Pagano
non rifiuta mai un’intervista. Per otto mesi ha accettato di fare da guida a
Candido Cannavò, ex direttore storico della Gazzetta dello Sport, che
all’universo umano rinchiuso nel centro di Milano ha dedicato il suo ultimo
libro: Libertà dietro le sbarre (Rizzoli). È proprio Pagano ad aprire il lungo
reportage raccontando un suo ricordo di gioventù: la sanguinosa rivolta nel
carcere nuorese di Badu e Carros, il 17 agosto del 1981, quando lui aveva 27
anni ed era “orgoglioso di essere il vicedirettore Luigi Pagano”. “La mia
è stata una scelta culturale e professionale”, spiega. “Occuparmi delle
carceri, un mondo dove convivono dolore, prostrazione, fede, abbandono, odio,
pentimento, talvolta brutalità, ma dove c’è pure un senso infinito di umanità
e dove una vita può anche rinascere”. Gli abbiamo chiesto di raccontare il
“suo” carcere, filtrato dal libro di Cannavò. Cosa ha pensato quando il “simbolo dolce e appassionato del nostro giornalismo non solo sportivo” (così scrive nella prefazione Ferruccio De Bortoli, ex direttore del Corriere della Sera), le ha comunicato la sua volontà di far conoscere all’esterno gli uomini e le donne di San Vittore? Mi
è subito sembrata una buona idea. Non poteva che farmi piacere che a parlare
del carcere, tutto sommato anche in maniera leggera, fosse uno come Candido.
Abbiamo subito attivato il Dipartimento per l’autorizzazione, e lo stesso
Ministero ha ritenuto che l’iniziativa fosse meritoria. Conosciamo Candido
come giornalista, oltre che come cantore di vita: eravamo d’accordo sulle
scelte di fondo e su come avrebbe raccontato San Vittore. Cannavò scrive che è stato lei a dischiudergli la “ricchezza nascosta” del più antico penitenziario milanese. E in effetti Luigi Pagano, con il suo “eloquio musical-napoletano”, è sempre dietro le quinte del racconto. Ha collaborato anche alla stesura del libro? Prima
della stampa, eravamo qui alla scrivania, io e Candido, cercando di
“sciacquare i miei linguaggi in Arno” per eliminare alcune mie inflessioni
dialettali. Lui è convinto che io mi esprima in stretto napoletano, laddove
invece credo di essere un cultore della lingua. È nata una diatriba, così
l’ho messo a correggere alcune frasi. Del libro ho comunque letto l’ultima
stesura prima di darlo alle stampe. E il risultato come le è sembrato? In
linea con le aspettative. Ha avuto la capacità di penetrare in un luogo dolente
con una leggerezza che non significa superficialità: significa raccontare
storie di uomini e donne, sottolineando che il fatto di sentirsi comunque
persone e di salvaguardare la propria dignità, è il primo passo per
riaffacciarsi al mondo esterno. Io sono convinto che il carcere vada dissacrato
in qualche modo: bisogna tendere a eliminarlo per cercare strade diverse e
costruttive, piuttosto che l’interdizione fisica. Però è pur vero che fin
quando esiste, bisogna dissacrarlo in alcune sue componenti: il carcere non è
la tomba dei vivi, è una costruzione umana, quindi non deve prolungare la colpa
oltre il termine della pena. Oggi sembra quasi che il carcere ti rimanga
addosso, ti contamini e ti stigmatizzi per sempre, coinvolgendo la tua intera
esistenza. E invece uno sarà anche un ladro o un assassino, ma è un uomo che
ama, vive, soffre, lavora per i propri figli… Non si può appiattire un uomo
al suo essere ladro o assassino: la componente umana è più complessa e
variegata. Ma l’istituzione-carcere non finisce proprio per distruggerla, questa complessità? A
livello individuale perdi per forza qualcosa, con tutti questi problemi di
sovraffollamento… Ma devi comunque cercare di creare un clima in cui l’idea
principale sia il rispetto della dignità delle persone, affinché la pena non
diventi indecente. Devi avere bene in mente che cosa vuoi: se riesci a trovare
questo clima di fondo in cui muoverti, le risorse le indirizzi anche su certi
aspetti individuali, cercando di creare strade percorribili per il reinserimento
sociale. È anche vero che il carcere, sia per l’esiguità di risorse sia
perché alla fine della pena non appartiene più alle persone, non possiede
tutte le variabili che concorrono al reinserimento. Quel poco che si fa qui
diventerà ancora meno quando si esce e si affronta una vita più complessa e
meno protetta. Noi, qui, possiamo iniziare a dire: quella è una strada che
quell’uomo potrebbe percorrere, ma poi sarà qualcun altro a doverla
lastricare di possibilità concrete piuttosto che di buone intenzioni. Il libro di Cannavò è dedicato per tre quarti alle donne di San Vittore, e lui ha dichiarato che è stata proprio la vicenda particolare di una detenuta, la guineana Melodia, a spingerlo a trascorrere otto mesi in carcere per raccogliere testimonianze. Cosa distingue l’universo femminile da quello maschile dietro le sbarre? Una
leggenda del carcere dice: meglio tremila uomini che dieci donne, perché sono
ingovernabili. Si dice che in cella l’uomo si adatta meglio, che le donne sono
più afflitte… E invece è il contrario: la donna porta in carcere la propria
diversità, non si adatta né si rassegna. Credo che a proteggerla sia proprio
il suo essere donna e madre: si cura di più della propria persona, e si
dimostra meno accomodante rispetto all’istituzione. Sembra paradossale detto
da un direttore di carcere, ma sono convinto che più ti adatti alla realtà
della detenzione, alle sue leggi negative, maggiori difficoltà troverai
all’esterno. La donna invece riesce a non contaminarsi, a difendersi
attraverso le emozioni e i sentimenti. Continua a vivere in un suo mondo
particolare. Un tempo la malavita aveva un suo codice, che teneva distanti le donne dalle attività criminali. Oggi lo scenario è cambiato? Non
molto: la donna incontra il mondo delinquenziale quasi sempre per la tangente,
mai direttamente. Lo dicono anche i numeri: nelle carceri italiane le donne sono
meno del dieci per cento degli uomini, una percentuale vicina a quella europea.
Qui a San Vittore abbiamo 1400 uomini e 135 donne: in genere queste ultime sono
qua per reati legati alla droga. La metà sono straniere. Alla fine il carcere
è stato restituito ai soliti ignoti, a persone già ai margini della società,
che si ritrovano recluse non solo perché l’emarginazione esterna è una
concausa del crimine, ma anche perché non godono di quelle condizioni che
potrebbero permettere loro di difendersi meglio e ottenere misure alternative.
Soffrono di un doppio handicap: l’emarginazione è causa del reato ma anche
del rimanere in carcere, pur in presenza di un basso livello di pericolosità
sociale. Parliamo delle madri in carcere. Sono passati quasi tre anni dall’approvazione della legge Finocchiaro, che prevede gli arresti domiciliari per le detenute con figli minori di dieci anni. Eppure la norma è rimasta praticamente inapplicata. Perché, secondo lei? Perché
risente del paradosso italiano: più aumentano le leggi che prevedono l’uscita
dal carcere con misure alternative, più cresce la popolazione detenuta. La
legge dell’8 marzo 2001 ha ampliato la gamma delle misure alternative a
disposizione delle detenute madri, eppure in carcere queste continuano ad
aumentare: adesso nel nostro nido ci sono nove donne con altrettanti bambini. Il
problema è che, per accedere alle misure alternative, ci vogliono condizioni
sociali che troppo spesso non si danno. Un esempio banale: per ottenere gli
arresti domiciliari devi avere un domicilio, puoi essere stato condannato a un
mese ma se non hai casa finisci in carcere. Il rischio è che tu rimanga in
carcere non perché sei più pericoloso degli altri, ma perché ti mancano certe
condizioni. Fra le donne detenute a San Vittore ci sono tante nomadi, che non
hanno un domicilio e rischiano la reiterazione del reato: dunque per loro la
legge dell’8 marzo 2001 è inapplicabile. A Milano, tempo fa, si era parlato di una casa a custodia attenuata per le detenute madri. Che fine ha fatto il progetto? Lo
avevamo studiato proprio per lo sviluppo equilibrato del bambino, e con
l’allora assessore Del Debbio si pensava a questa struttura: non una casa
d’accoglienza, ma una sorta di carcere per donne con bambini, sia imputate che
condannate, dove ci si focalizzasse sull’attività trattamentale per i
piccoli. Poi è arrivato un nuovo assessore, il quale ha ritenuto che tutto
questo non rientrasse negli obiettivi del Comune. Eravamo già prossimi a
gestire la struttura, un vecchio asilo inutilizzato, e la nostra amministrazione
si sarebbe accollata le spese di gestione… Il brutto è che il bambino che
vive nella dinamica carceraria comincia a identificarsi coi cancelli, con le
guardie, con gli orari. Alla fine si adatta e diventa un piccolo detenuto:
bussa, aspetta, non fa chiasso e non gioca perché teme di disturbare. Deve
rinunciare a essere bambino: non è uno sviluppo armonico, non c’è niente da
fare. E anche se qua abbiamo tante associazioni che si occupano dei piccoli del
nido (Telefono Azzurro, Rotary, Bambini senza sbarre…), sempre carcere resta. Compaiono due storie d’amore molto intense, nel libro di Cannavò, fiorite dietro le sbarre. Cosa ne pensa dei matrimoni in carcere? Che
sono una cosa triste, ma possono dare una spinta di rivalsa. È un modo per dire
all’altro “ti amo”, “ti aspetto”, e per coltivare la speranza che ti
mantiene vivo anche se hai l’ergastolo. Quel piccolo centimetro in più che
guadagni verso il reinserimento sociale. Ci sono persone che in carcere scoprono potenzialità e risorse che prima non pensavano di avere. Che imparano ad amare l’arte, la cultura, il lavoro e il volontariato. Allora il carcere può anche far bene? Sì,
ma come qualsiasi altra comunità dinamica. Come un momento in cui una persona
si ferma e viene affiancata da qualcun altro. Non voglio giustificare il
carcere: può far bene come mille altri momenti, anche se la detenzione
attutisce ogni cosa positiva perché fa prevalere sempre la disciplina e
l’aspetto punitivo, anche quello simbolico. E così attenua il processo di
rigenerazione. In certi casi il carcere serve, in altri no, ma scegliere sempre
e comunque il carcere come momento punitivo è una generalizzazione sbagliata.
Bisognerebbe diversificare la pena. A San Vittore ha appena aperto un call-center della Telecom, esperimento unico in Europa. Cosa l’ha spinta a promuoverlo? Il
lavoro in carcere è importante esattamente come lo è all’esterno. Qui
lavorano circa trecento detenuti, fra impieghi interni e articolo 21. Ma più
che il contatto con l’esterno che può dare il lavoro, io sottolineo
l’importanza di un’attività professionale. L’aspetto di professionalità
in quello che stai facendo ti rigenera, ti riverbera dignità e ti fa sentire
parte della società. Nel call-center i detenuti lavorano con la tecnologia,
svolgono un’attività che è contestuale a quella di una grande azienda: non
è come fare lo scopino. La telematica è un ramo economico importante nella
società attuale: lavorare in quest’ambito dall’interno di un carcere, sullo
stesso piano dei colleghi fuori, con Lo stesso software e la gestione della
stessa impresa, non può che farti sentire alla pari con chi sta fuori. Il carcere in genere interessa poco, se ne parla quasi sempre in contesti di cronaca nera o di iniziative un po’ stravaganti, di “colore”. Crede che un libro firmato da un personaggio noto come Cannavò riuscirà ad aprire più canali di comunicazione con l’esterno? Credo
di sì. Candido ha raccontato San Vittore con gli occhi di una persona comune,
è entrato qui senza preconcetti, con la curiosità dell’uomo qualunque. E ha
visto che non è un mondo a parte, che ci sono persone con una testa, due
braccia e due gambe. Persone che amano, soffrono, si divertono, lavorano,
nutrono desideri normali… Ecco, ha raccontato la normalità, e questo è
importante perché in genere noi compariamo sui giornali quando si verifica
qualcosa sopra le righe, nel bene e nel male. Invece è la normalità, la
quotidianità vissuta qui che forse potrà aiutare la persona quando uscirà. La
gente deve capire che qua non ci sono uomini diversi, che si può entrare in
carcere per un accidente qualsiasi, per un momento, o perché si sono verificate
certe circostanze. Si entra in carcere anche per cattiveria, certo, ma in ogni
caso si tratta di persone, e bisogna capire perché sono qui. Se vogliamo essere
utili a noi stessi come società, non dobbiamo ghettizzare il carcere
escludendolo dal nostro orizzonte mentale e materiale. Se una persona si sente
emarginata e non c’è nessuno che le tenda una mano, uscirà di qui più
pericolosa, e potrebbe aspettarci a un angolo di strada per aggredirci e
derubarci. Guardi che in questo discorso la solidarietà e il buonismo non
c’entrano: è un grosso favore che facciamo a noi stessi, quello di dare una
possibilità a chi sta in carcere. è un progetto rivolto all’utilità
sociale. Lo scorso autunno era nell’aria una sua rimozione dall’incarico, in seguito all’evasione di un albanese che approfittò della carenza estiva di agenti. Però lei è ancora qui. Per quanto rimarrà in piazza Filangieri? Non
lo so, sono un funzionario dello Stato. Io mi sono molto affezionato a questo
carcere, ma quindici anni sono tanti, finisce anche la spinta propulsiva,
l’ingenuità e la voglia di rischiare. Il pericolo è che cominci a non
accorgerti più dei tuoi stessi errori. Credo che un avvicendamento ci possa
essere senza tragedie. Vede, San Vittore è un paradosso vivente: è
sovraffollato ma succedono poche cose gravi. L’unico merito che mi attribuisco
è di aver cercato di renderlo trasparente. Il resto lo hanno fatto gli
operatori e gli assistenti volontari. Il direttore stabilisce la linea e si
assume le responsabilità (anche delle evasioni, ci mancherebbe), ma poi bisogna
che qualcun altro raccolga il messaggio. E credo che a Milano in molti lo
abbiano raccolto.
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