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È
importantissimo per l'autore di un reato sapere che il proprio gesto in qualche
modo è riparabile Intervista a cura di: Marino Occhipinti, redattore di Ristretti Orizzonti Carla Chiappini, coordinatrice del giornale del carcere di Piacenza La
mediazione penale nell'ambito della giustizia minorile: ce ne parla la
professoressa Claudia Mazzucato, docente di Diritto Penale all'Università del
Sacro Cuore di Milano e Mediatore penale dell'Ufficio per la Mediazione di
Milano Come comincia la sua esperienza nel campo della mediazione penale? Vorrei
subito fare una premessa e una richiesta: vorrei poter dialogare con voi proprio
sulla mia esperienza. Il tema della mediazione e della giustizia riparativa è
complesso, ed è difficile poterne parlare in modo rigoroso in poco tempo.
Preferirei allora attenermi piuttosto a una narrazione in prima persona: mi
piacerebbe raccontare la mia storia con la mediazione, seguire il filo dei miei
pensieri personali e dei miei ricordi. Per gli aspetti teorici, scientifici e
culturali, invece, si deve studiare tanto e calarsi nella realtà. Poche parole
all'interno di un piacevole dialogo non sono sufficienti a contenere la
complessità affascinante e problematica di questo tema. L'incontro mi aveva molto colpito, perché avevo incontrato delle persone il cui tempo si era fermato La
mia storia, allora. Come
le migliori storie, anche questa comincia su un'isola, quella di Gorgona, dove
sono stata nel 1991 per un progetto della cattedra di filosofia del diritto
della mia Università in collaborazione con l'allora direzione del carcere di
Gorgona. Con il professor Lombardi Vallari (ordinario di filosofia del Diritto
nell'Università di Firenze e all'epoca docente anche nell'Università
Cattolica) e altri studenti e giovani laureati siamo stati ospiti una settimana
della Casa di reclusione. L'incontro con i detenuti mi aveva molto colpito,
perché avevo incontrato delle persone il cui tempo, per tanti motivi, si era
fermato. Un tempo fermo anche perché inchiodato sul reato, ed ho pensato che
anche il tempo delle vittime, o dei loro familiari, è fermo. Due vicende di
sofferenza, separate e unite al contempo; mi domandavo come mai rimanessero così
infecondamente separate; ho chiesto, quindi, al professor Lombardi Vallari di
poter svolgere la mia tesi di laurea su questa separazione. Il titolo della tesi
è poi diventato "Le alternative al processo penale: gli spazi della
pacificazione". Allora non sapevo assolutamente che cosa fosse la mediazione:
durante la ricerca ho pero "scoperto", tra alcune esperienze giuridicamente non
attuabili, l'esperienza della mediazione reo/vittima che aveva preso avvio negli
Stati Uniti e in Canada dagli anni ‘70. Poi
ho incontrato il professor Ceretti, che all'epoca stava studiando la mediazione
penale. Diciamo che dal ‘93 - ‘94 abbiamo cercato di concretizzare questo
progetto. Lui aveva in mente, insieme ad altre persone appassionate, di proporre
l'apertura di un ufficio di mediazione. Ne è nato un progetto che abbiamo
sottoposto alla dottoressa Livia Pomodoro, presidente del Tribunale per i
Minorenni di Milano che ci ha sostenuti ed aiutati insieme a tante istituzioni e
persone significative. Si è costituito un gruppo, è stato sottoscritto un
protocollo d'intesa inter-istituzionale (tra Comune di Milano, Ministero della
Giustizia-Centro per la Giustizia minorile, Regione Lombardia, ALS, alcuni
Comuni dell'hinterland milanese e oggi anche la Provincia di Milano), è nato l'Ufficio
di Mediazione. Il gruppo dei mediatori è stato formato da Jacqueline Morineau:
un percorso formativo umanamente e culturalmente straordinario, coinvolgente e
appassionante. La mediazione è un modo democratico per rispondere a una domanda di giustizia Materialmente quando è stato aperto l'ufficio? E si può dire che all'inizio è nato non tanto come percorso giuridico ma quasi nell'ambito della sede trattamentale? L'ufficio
è stato aperto nel maggio del 1998. Non penso però che la mediazione sia da
iscriversi in una logica di trattamento, se con trattamento si intende ciò che
una persona reclusa deve fare per non delinquere più, ma è qualcosa di molto
più ampio e universale. Sono
personalmente convinta che la mediazione sia un modo democratico di rispondere a
una domanda di giustizia ovunque nasca, quindi non soltanto in ambito penale. L'idea
è quella che attraverso la parola, che è una prerogativa dell'essere umano, ci
si possa riconoscere e accordare nel senso più nobile del termine, non
semplicemente negoziare su qualche cosa ma cercare di trovare la concordia. Si palesa la comunanza laddove si penserebbe esserci spazio solo per le differenze radicali E questo accade nelle vostre mediazioni minorili? Può
accadere in misura diversa, con gradi diversi. Ci sono conflitti più "in prosa"
e conflitti più "in poesia", però io devo dire che in ogni mediazione, anche
quelle che non riescono, si assiste a questa sorta di passaggio: dai fatti che
separano, dividono, allontanano, ai vissuti che questi fatti hanno generato e,
da lì, a valori che sono, per lo più, universali, anche se declinati in modo
individuale, e quindi differenziato. Sono
i valori primordiali che costituiscono il logos dell'esperienza umana: il
bisogno di rispetto, l'importanza dell'amore, dell'amicizia, dell'essere voluti,
desiderati, capiti, il bisogno dello spazio, della non invasione di questo
spazio, per citarne solo alcuni a titolo di esempio. Questi bisogni sono,
dunque, contenitori di valori forti, rispetto ai quali ci si può riconoscere
anche partendo da una incommensurabile diversità come quella che
obbiettivamente distingue un reo e una vittima. Nel
corso di una mediazione ci si può persino accorgere che i ruoli di reo e di
vittima sono, a certe condizioni - in certi casi -, quasi intercambiabili:
questo accade, per esempio, quando il reato è frutto di una vicenda di soprusi,
di una negazione di questi valori verso l'autore del reato stesso. Nel
passaggio dai fatti che dividono alle emozioni e ai vissuti che a questi stessi
fatti sono strettamente legati, si riesce ad aprire la corazza dei sentimenti e
all'interno si ritrovano ancora i valori. La
cosa più interessante e più bella è che sono gli stessi valori che la norma
voleva proteggere. Ed
è appassionante aprire la corazza della norma e svelarla, scoprire che quello
che c'è dentro è qualcosa che mi riguarda, riguarda l'altro, riguarda tutti;
è una forte comunanza. Si palesa la comunanza laddove si penserebbe esserci
spazio solo per le differenze radicali. Questo
non vuol dire che si media l'innocenza o la colpevolezza, tanto meno che la
mediazione è una giustizia retributiva che ripaga con la stessa moneta: la
mediazione è una giustizia che potremmo definire "creativa", legata al
riconoscimento dell'Altro. La mediazione consiste
nell'offrire spazio a tutto ciò che conta davvero perché venga interamente
riconosciuto e accolto. La mediazione pare aver assunto un peso crescente ma non dominante Da quanti anni sta facendo mediazione e con che frequenza questo strumento è utilizzato nell'ambito della giustizia minorile? Sul
piano degli studi teorici, sono ormai dieci anni che me ne occupo; faccio
mediazione in ambito minorile, invece, dal 1998. L'ambito penale minorile è
stato pionieristico; oggi la mediazione pare aver assunto un peso crescente ma
non dominante. Gli Uffici di mediazione sono ancora molto pochi e i casi che
vengono trattati da questi uffici sono esigui rispetto alla mole e al carico che
hanno i tribunali, però l'attenzione aumenta. Fra l'altro ritengo che sia
meglio non cominciare con delle cose macroscopiche che tradirebbero soltanto lo
spirito, meglio avanzare a piccoli
passi. Io
sono molto preoccupata per eventuali esperienze improvvisate che farebbero
soltanto male alla giustizia riparativa e alla mediazione; temo le derive verso
una scarsa serietà e un debole fondamento scientifico che potrebbero indurre
qualcuno a dire che la giustizia riparativa non è utile, non fornisce adeguate
garanzie, è pericolosa, è emotiva. Ciò condurrebbe a "chiudere tutto" e
ridare spazio solo al vecchio diritto penale fondato sulla repressione. Serve,
quindi, tanta cautela e preparazione. Il mediatore può essere chiunque si prepari e si formi appositamente Come e dove ci si prepara a diventare mediatori e con che formazione? è
un tema molto delicato: c'è una raccomandazione del Consiglio d'Europa sulla
mediazione penale (Racc. 19/1999) che richiede che i mediatori si preparino con
serietà sia all'opera di mediazione sia a conoscere il contesto in cui la
mediazione si colloca. La mediazione penale dialoga con l'amministrazione della
giustizia tradizionale, giuridica, e questo dialogo è fondamentale: guai se non
ci fosse! è
una preparazione anche alla conoscenza dei destinatari del servizio della
mediazione, quindi i mediatori devono conoscere molto bene la realtà in cui
operano, devono addirittura, secondo questa raccomandazione, essere espressione
della collettività. Che cosa vuol dire? Che il mediatore può essere chiunque
si prepari e si formi appositamente; non ci sono delle professionalità più
adatte, anzi chi proviene da professionalità giuridiche, psicologiche,
pedagogiche e d'intervento sociale deve "spogliarsi" di queste sue competenze.
Ma chi si accinge a diventare mediatore deve comunque prepararsi: non si può
improvvisare. Il
tema della preparazione, ripeto, è molto delicato. Vi è fra l'altro l'insidia
di trasformare uno strumento così delicato in un "business": cresce l'interesse
per la mediazione, crescono magari anche mire non proprio trasparenti. Ci sono
molte "scuole" di formazione serie, ovviamente la tradizione che c'è all'estero
è di più lunga durata. I modelli di riferimento sono sostanzialmente due: uno
più negoziale e uno che viene definito più umanistico; a mio parere il modello
che funziona di più in ambito penale è quello umanistico. La mediazione non vuole sanare il conflitto… vuole "prendersi cura" degli effetti distruttivi del conflitto Il professor Ceretti ci tiene molto a spiegare che l'incontro di mediazione non ha nulla a che vedere con l'incontro terapeutico e neanche di supporto psicologico: parlando con i detenuti in carcere questo è un concetto che non è facile da chiarire, vuole provare a farlo? Non
è terapeutico perché, come dice appunto Ceretti, la mediazione non vuole
sanare il conflitto, non vuole curarlo, vuole – più modestamente – "prendersi
cura" degli effetti distruttivi del conflitto. La mediazione è un intervento
molto puntuale, circoscritto. Tra l'altro non tutto è mediabile, esistono anche
situazioni non mediabili. Ci sono persone che hanno altre esigenze, appunto più
terapeutiche; la mediazione è una
cosa più umile, meno ambiziosa e con obiettivi limitati. Il
mediatore non ha potere, non fa progetti, non dà consigli, non propone
soluzioni, non può diagnosticare, non interpreta, non spiega, non ha un ruolo
esplicativo del perché si produce una certa situazione, una certa reazione, del
perché si produce quella particolare emotività. Quindi
il mediatore non solo non è un terapeuta, non fa lo psicologo, non fa l'educatore,
nemmeno il criminologo. Il mediatore è proprio al servizio "di", non è mai
protagonista. La mediazione può essere paragonata a un palcoscenico, a uno
scenario, una cassa di risonanza; è qualche cosa che accoglie restituendo. I
protagonisti della mediazione sono veramente le parti e infatti, per tornare
alla formazione, la formazione alla mediazione è un cammino di spoliazione. Lo
dicevo poco tempo fa ad un gruppo di futuri mediatori penali nell'ambito di un
progetto pubblico: non dovete pensare di incamerare ma di abbandonare, quindi di
fare emergere quello che c'è già, non di aggiungere. Il percorso di formazione
alla mediazione non aggiunge ma porta ad una essenzialità costruttiva. Non c'è spazio per la retorica Cosa la affascina in tutto questo? Mi
affascina l'essere umano. Mi affascina vedere che cosa siamo capaci di fare come
esseri umani: la nostra capacità di fare del male e di fare del bene; mi
affascina assistere alla messa in campo di risorse inimmaginabili e positive;
molte delle persone che ho incontrato in mediazione sono state per me esemplari
ed educative. Persone esemplari per la forza dei messaggi che portano, dei
significati che trasmettono, dei valori che riconoscono. La mediazione non ha
retorica, non c'è spazio per la retorica perché le persone che intervengono,
che sono protagoniste hanno dentro cose reali. Nella mediazione la verità non conduce a qualcosa che fa del male e allora quasi sempre la verità viene fuori Lei sostiene che l'assenza di retorica è molto fascinosa. Sì,
perché c'è gente che sulla sua pelle ha un detector antiretorica perfettamente
funzionante. Per questo si va sempre davanti al "dunque", a volte le parti
mettono un po' di "fronzoli" alle loro storie per renderle più presentabili, ma
una volta entrati nel dialogo della mediazione tutti i fronzoli scompaiono e
resta l'essenziale. Non c'è più retorica e non c'è menzogna. Il
processo può essere un luogo in cui la verità ha difficoltà a farsi strada,
perché spesso è costruito in modo tale che la verità non renda liberi
e perché l'emergere della verità produce la sanzione che è sofferenza, quindi
la verità non fa male in se stessa ma apre a qualcosa che fa del male, all'inevitabile
sofferenza legata alla pena. Nella
mediazione, invece, è diverso: il mediatore non ha poteri, non ha autorità di
giudizio, la verità non conduce a qualcosa che fa del male e allora quasi
sempre la verità viene fuori. Per l'aggredito può essere importante sentire che l'aggressore non voleva produrre quello spavento Esiste una verità nei fatti, o vale il luogo comune per cui la verità non esiste, esistono piuttosto infinite verità? C'è
sicuramente una ricostruzione storica dei fatti e quasi sempre in mediazione si
giunge ad una ricostruzione univoca dei fatti; in mediazione sono presenti gli
unici soggetti che sanno cosa è realmente successo. La verità fattuale è però
sempre con la "v" minuscola. Questa ricostruzione univoca dei fatti, che è una
presenza molto frequente nella mediazione, dipende proprio dalla possibilità di
confrontarsi in modo libero ed è una ricostruzione che nasce grazie alla
possibilità che ognuno dica la propria verità. Nella mediazione, però, non ci
si limita alla ricostruzione storica dei fatti; ci si può confrontare anche sui
vissuti generati da quei fatti. Ad
esempio un aggredito può spaventarsi in
modo più forte di quanto non
potesse prevedere il suo aggressore: è molto importante sentirselo dire. Se tu
me lo dici, io capisco che il mio atto può produrre anche questo, quindi
aggiungo un pezzo di verità alla mia verità soggettiva. Chi ruba un
portafoglio nel quale c'è la fotografia di qualcuno caro che magari non c'è più,
considera di norma soltanto l'aspetto economico del danno: vi è però un'altra
dimensione profonda conoscibile solo incontrando l'altro. La vittima ha bisogno
di "non essere solo un portafoglio"! Passo passo si compone quel "puzzle" che
noi possiamo chiamare "verità" che finalmente mostra la figura nella sua
completezza. Questo,
naturalmente, vale anche all'inverso, perché per l'aggredito può essere
importante sentire che l'aggressore non voleva produrre quello spavento, che non
immaginava… Cos'altro c'è di importante, secondo lei, nella mediazione penale? è
importantissimo per l'autore di un reato sapere che il proprio gesto, se non
storicamente (perché non si può tirare indietro l'orologio) in qualche modo è
riparabile, altrimenti la pena diventa veramente solo un infliggere una
sofferenza senza orizzonti. Sapere che io posso riparare è fondamentale; ed è
fondamentale per il reo così come è fondamentale per la vittima. "Non esco senza la sofferenza, ma è bene che questa sofferenza rimanga un po' con me" Lei trova che le persone escano dalla mediazione comunque alleggerite di qualcosa? L'altro
giorno una persona, nell'ambito di un percorso di mediazione, ha detto: "Non
esco senza la sofferenza, ma è bene che questa sofferenza rimanga un po' con me".
In mediazione, lo ripeto, non c'è spazio per la retorica: le cose possono
apparire nella loro dimensione tragica; non vengono edulcorate. L'augurio,
confermato anche dall'esperienza, è però che le persone escano più libere,
con l'impressione che un giusto spazio e una giusta accoglienza sono state
concesse a ciò che conta davvero per loro. C'è anche un momento di maggior serenità? Sì,
in certe persone è proprio evidente, c'è una sorta di trasfigurazione dei
volti. Le mediazioni che riescono particolarmente bene si leggono nei volti, si
vedono nelle persone che sorridono insieme, che tornano a parlarsi, che
dialogano rispettandosi. Non è sempre così, certo, ma spesso il cambiamento è
tangibile. Che prospettive ci sono, adesso che lei fa parte di questa commissione, istituita presso il Ministero della Giustizia, quindi una commissione di studio importante, perché questo strumento diventi strumento anche all'interno del processo per gli adulti? C'è
molto fermento; le prospettive sono tante; l'importante è non utilizzare questi
strumenti nuovi con la mentalità antica, perché se noi abbiamo sempre in mente
di rispondere al reato con la pena, "al male con il male", vi è il pericolo di
usare la mediazione e la riparazione come delle pene, tradendone la natura di
una giustizia che - come afferma il Consiglio d'Europa - aspira a diventare "più
costruttiva e meno afflittiva". È
importante che si resti saldi e fedeli all'idea che la mediazione e la
riparazione delle conseguenze del reato sono un momento dialogico consensuale:
qui c'è la forza di questi strumenti. Se mediazione e riparazione diventano
delle prescrizioni, dei compiti imposti, una afflizione, si inaridiscono
completamente. Quindi credo che lo sforzo più importante sia quello proprio di
cambiare la prospettiva per cui, quando viene commesso un reato, non c'è un
subire passivamente e in modo sterile una sofferenza, ma ci si deve dare da fare
in modo fecondo, propositivo, operoso: si deve, cioè, "intraprendere". è una responsabilità molto seria, faticosa, impegnativa; non è edulcorare la responsabilità, sminuire la gravità e dannosità del fatto criminoso; è piuttosto il commiato definitivo da una logica della sterilità per sposare una logica feconda, appunto, di impegno costruttivo, coinvolgente e motivante.
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