Contro informazione

 

La violenza e i suoi tanti “estimatori”

“È già a casa”… Ma la galera poi arriva…

Succede che recenti episodi di stupro siano usati per la consueta disinformazione sul fatto che “nessuno si fa la galera”. Un Paese, il nostro, pieno di “indignati speciali”, ma chi cerca di capire il perché di tanta violenza, chi si pone il problema di come lavorare per la prevenzione?

 

A scatenare in questi ultimi giorni le violente proteste di molti cittadini è stata la concessione degli arresti domiciliari, dopo nemmeno due giorni trascorsi in cella, al “violentatore di Capodanno”. Un 22enne che, prima di stuprare una ragazza a una festa alla Fiera di Roma, era da tutti definito un bravo ragazzo, figlio di una buona famiglia e senza alcun precedente penale. Poi c’è stato l’arresto di sei rumeni, anche loro accusati di stupro. E un tentativo di linciaggio. Un giornale ha lanciato un sondaggio tra i suoi lettori chiedendo se è lecito che una vittima di stupro si faccia giustizia da sé, il 76 per cento ha detto di sì. Noi invece ci chiediamo se è lecito e responsabile che tanti mezzi di informazione in questi giorni abbiano operato con modalità, che assomigliano a una “istigazione a delinquere”.

 

 Le istigazioni alla violenza sono puri atti di inciviltà

 

di Marino Occhipinti

 

L’indignazione per gli arresti domiciliari concessi al ragazzo, colpevole dello stupro di Capodanno a Roma, hanno monopolizzato buona parte dell’attività dei media di questo ultimo periodo. Ma, senza alcun intento giustificatorio nei confronti di chi ha commesso un così ignobile crimine, penso che oltre alle molte informazioni gridate sarebbero state necessarie alcune notizie circa il funzionamento del nostro ordinamento giudiziario, che si basa su alcuni capisaldi imprescindibili.

Il primo è che in carcere deve starci chi ha subito una condanna definitiva, e cioè che sia già passata al vaglio di tutti i gradi di giudizio, mentre la custodia cautelare, che non deve in alcun modo rappresentare un’anticipazione della condanna, può essere adottata solo per un periodo di tempo limitato e per tre motivi specifici: per evitare l’inquinamento delle prove, per neutralizzare il pericolo di fuga, per scongiurare la ripetizione del reato.

In questo caso il Pubblico Ministero e il Giudice per le indagini preliminari hanno evidentemente ritenuto che le esigenze cautelari fossero venute meno vista l’incensuratezza dell’indagato, il fatto che si è presentato alle forze dell’ordine e ha confessato e che dispone di un’accoglienza familiare che può scongiurare un’eventuale recidiva.

C’è poi stato l’arresto del gruppo accusato di un altro stupro a Guidonia, e in questi giorni gli organi di informazione hanno ripetutamente amplificato lo sdegno della gente puntando il dito contro la magistratura definita troppo garantista, pubblicando affermazioni del tipo: “Vorrei vedere cosa avrebbe fatto il giudice se avessero violentato sua figlia” - “Una pacca sulla spalla e via, non fate più i birichini” - “Tra un giorno saranno già fuori anche loro, e le persone percepiranno che si è liberi di violentare una donna che tanto non succede niente” - “Anche se li condanneranno, l’indulto cancellerà la pena”.

La rabbia popolare montante si sarebbe potuta almeno attenuare, facendola rientrare nei limiti della ragionevolezza, se soltanto si fosse precisato che quel giovane non ha affatto chiuso i suoi conti con la giustizia, ma è soltanto stato posto ai domiciliari – misura che non mitiga le sue responsabilità, né tantomeno l’entità di quella che sarà la successiva condanna – in attesa che la giustizia faccia il suo corso.

Il Codice penale italiano prevede, per la violenza sessuale, una condanna che oscilla tra i 5 e i 10 anni di reclusione, oltre agli aumenti previsti dall’aver commesso il reato sotto effetto di stupefacenti o alcool, e non è assolutamente da prendere in considerazione l’indulto che, oltre ad aver “operato” esclusivamente per i reati commessi fino al maggio 2006, non è stato applicato ai responsabili di reati a sfondo sessuale.

Nessuna banalizzazione per un reato devastante per qualsiasi donna, nessuna giustificazione, nessun lassismo dello Stato quindi: alla fine la giustizia presenterà il suo conto e le porte del carcere si spalancheranno nuovamente e chi ha sbagliato pagherà, oltre che con la propria coscienza, anche nei confronti della collettività.

Per quanto riguarda gli organi di informazione, invece, ritengo che avrebbero fornito un miglior servi­zio se avessero evitato di fomentare l’indignazione dei cittadini: l’assalto alla caserma dei carabinieri di Guidonia, dov’erano i giovani rumeni accusati di stupro, la voglia di vendetta e il tentativo di linciarli, la bomba carta lanciata contro un negozio rumeno, e il tentativo di incendiarne un altro, sono anche e soprattutto il frutto di questo clima di intolleranza.

E coloro che hanno tentato di farsi giustizia da soli, infine, dovrebbero pensare che avanti di questo passo, visto che “lo stupratore di Capodanno” era di buona famiglia e incensurato, proprio come tutti i ragazzi perbene, un giorno ad essere linciati potrebbero essere anche i loro figli.

Non voglio pronunciarmi su quale, tra le tante invocate in questi giorni, sia la “soluzione” migliore da applicare nei confronti degli autori di violenza sessuale, penso però che in questi casi dove la violenza è stata devastante, la giustizia dovrebbe tentare, oltre alla condanna penale e alla conseguente galera, di fare altri passi: sarebbe forse importante, naturalmente con l’accordo delle parti in causa, provare una mediazione che metta di fronte vittima e aggressore. Per la vittima il dolore sarebbe forse ancora più lancinante, ma un confronto permetterebbe almeno di domandare il perché di un gesto così vile e consentirebbe alla donna abusata di dare una collocazione diversa alla sua sofferenza. Allo stupratore, invece, rimarrebbe ben impresso nella mente tutto lo strazio di chi ha così violentemente e irrimediabilmente offeso, e questa potrebbe essere la condanna peggiore.

  

La decisione del giudice è stata una difficile scelta di civiltà

 

di Elton Kalica

 

Nella mia lunga esperienza carceraria ho potuto conoscere uomini di ogni provenienza, condannati per ogni tipo di reato. Ognuno con la propria storia, spesso pesantissima. All’arrivo in carcere, alcuni si chiudono nel silenzio della desolazione, ma altri hanno voglia di parlare, di proclamare la propria innocenza o di giustificare le proprie azioni. E allora ti vengono offerti spaccati di vita dove si può toccare con mano la povertà, o la cattiveria che spesso si sviluppa negli esseri umani, oppure ti accorgi del cinismo di cui è capace il destino. Così, i reati più comuni che ho incontrato sono stati quelli legati allo spaccio, il furto, la rapina, la truffa, ma ho incontrato anche molti accusati di stupro. Nella maggior parte a denunciare è stata una amica, una persona di famiglia, una vicina di casa o una collega di lavoro, così come c’è anche quello che ha aggredito una donna a caso, in un vicolo di strada.

Poi arriva l’interrogatorio del giudice dopo il quale, se si tratta di persone incensurate che hanno un contesto famigliare attendibile e quando non c’è il pericolo di inquinare le prove, il magistrato spesso permette di attendere il processo agli arresti domiciliari, in quanto ogni uomo fino alla sua condanna è ritenuto innocente. Quando poi si tratta di ragazzi giovani, credo che farli chiudere in casa piuttosto che in carcere sia una scelta più umana, perché l’esperienza della vita nelle carceri giudiziarie è davvero traumatizzante. Ricordo che c’era un continuo via vai di decine di persone fermate, dallo spacciatore, all’ubriaco cronico all’omicida, e siccome i tempi dei processi, lo sappiamo, in Italia sono lunghissimi, questo produce delle celle sovraffollate dove si fa fatica anche solo a sopravvivere.

Gli arresti domiciliari non sono carcere ma non sono neppure libertà: sei chiuso in casa, con la pattuglia dei carabinieri che ti controlla spessissimo. Ma soprattutto, in vista della condanna, un giovane che ha vicino i genitori si può preparare psicologicamente ad affrontare la carcerazione, e se condannato poi potrà andare in un carcere penale, che è pensato per detenere e rieducare le persone già condannate.

Di fronte a questa realtà, rattrista vedere come alcuni politici, spesso con la complicità dei massmedia, hanno istigato l’opinione pubblica alla indignazione violenta e anche alla vendetta individuale. È triste perché, in uno stato civile, i potenti hanno il dovere di insegnarci che la giustizia va rispettata, e non di screditarla. Invece, io credo che la decisone del giudice è stata un atto di civiltà, perché ha pensato sia alla vittima, chiudendo il ragazzo in casa, sia all’imputato, affidandolo ai genitori fino alla condanna, piuttosto che esporlo subito alla violenza della galera. 

 

Il fascino indiscreto della gogna mediatica

 

di Franco Garaffoni

 

Un paese civile deve essere in grado di contenere l’emotività popolare. Creare disordine, intolleranza, permettere di influenzare mediaticamente il pensiero del cittadino al punto che esso si sostituisca allo Stato arrogandosi il diritto di fare giustizia personalmente, è una follia che non possiamo permetterci. In un momento di grave crisi economica, con il pericolo sempre più evidente di una bancarotta sociale dettata dalla incertezza in cui si trovano i nuclei familiari il cui potere di acquisto si è ridotto, con tanti posti di lavoro a rischio, è importante che manteniamo almeno il nostro senso di civiltà.

Quello che è avvenuto a Guidonia alla caserma dei Carabinieri, che vanno elogiati per la tempestività che hanno dimostrato nell’assicurare alla giustizia i colpevoli dello stupro di gruppo avvenuto ai danni di una giovane donna solo pochi giorni fa, è censurabile sotto il punto di vista del decoro umano. Far passare i fermati all’uscita della caserma, uno alla volta in mezzo a due ali di folla inferocita, certamente avvisata da qualcuno dei media a loro volta presenti, è stato indegno di uno Stato civile e vergognoso a livello umano. Possono aver commesso il reato più esecrabile di questo mondo, ma sottoporli a questa gogna mediatica è un ritorno al passato, ai tempi dell’inquisizione con relativa esecuzione pubblica, ed è un atto di grande inciviltà. Dobbiamo fare nostro il senso della legalità, dobbiamo avere la capacità di interrompere ogni comportamento distruttivo, dobbiamo affidarci alla legge, è essa che ci garantisce comunque il giusto prevalere della ragione e di conseguenza permette alla giustizia di raggiungere un giudizio il più equo possibile.

I nostri politici dovrebbero dare indicazioni precise per fare in modo che non si creino più le condizioni perché accadano di nuovo fatti così bestiali, ma io mi fido maggiormente dei cittadini e del loro senso civico. Questi fatti sono l’anticamera di un fenomeno che da tempo aleggia nell’aria, striscia sottilmente nella comunicazione dei media riguardo ai reati commessi da stranieri, si chiama razzismo, non bisogna permettere che questo pensiero prenda piede. 

 

Io ho applicato la “giustizia fai da te”, ma ho solo aggiunto dolore al dolore

 

di Pierin Kola

 

Sono un cittadino albanese, purtroppo mi trovo in carcere per un reato grave, che ho commesso convinto che dovevo riparare ad un’ingiustizia ricevuta. Certo ero giovane, sicuramente ingenuo, ma ancor di più c’era in me una mentalità, legata a pregiudizi e tradizioni, per cui ritenevo giusta la vendetta.

In questi giorni, in seguito al caso di quel ragazzo accusato di stupro a cui sono stati concessi gli arresti domiciliari, c’è stata una gran campagna mediatica che, gridando allo scandalo, ha di fatto incitato alla violenza, e alla giustizia fai da te. Capisco il dramma della ragazza violentata, la sua rabbia, e le sue affermazioni di volersi vendicare per il male subito, e posso anche immaginare che lei non avrà più una vita normale, e non può certo pensare in modo “normale”. Il non fidarsi della giustizia può essere un sentimento comprensibile da parte sua e dei suoi cari, ma l’odio e il desiderio di restituire il male ricevuto, non lascia spazio a nulla, se non al rancore e alla vendetta.

Un altro episodio che ha decisamente esasperato l’opinione pubblica in questi giorni è stato l’arresto di sei rumeni accusati di violenza sessuale. Una cosa gravissima, ma la caccia al rom che ne è seguita credo che non fosse degna di un Paese civile come l’Italia.

Io ho usato la “giustizia fai da te”, credendo di “risolvere” i miei problemi, ma non ho fatto altro che aggiungere dolore e sofferenza a una vita già difficile, e oggi, dopo averla prima subita e poi fatta, la vendetta, ritengo che non ci sia niente di onorevole in questo tipo di “giustizia”, che immancabilmente scatena una concatenazione di fatti tragici che non ha fine, se non ci si ferma a ragionare e non si capisce che viviamo in una civiltà con delle regole, e chi le trasgredisce è sottoposto al giudizio della Giustizia, che dovrebbe avere un consenso comune dell’intera società. Ecco perché mi rattrista sentire come la pensano oggi tanti cittadini italiani.

Non ho nulla da insegnare a nessuno, ma ora so che per la mia vendetta non ho niente di cui andare orgoglioso, e allora spero che chi oggi si sente indignato, ci pensi bene prima di intraprendere una strada che non risolve i problemi, non ti fa sentire meglio. Fare del male per il semplice fatto di averlo ricevuto non solo non ha giustificazioni, ma non gratifica neppure, non fa star bene nessuno.

  

Forse anche gli stupratori hanno un padre e una madre come noi

 

di Paola Marchetti

 

Sono donna, madre e, da poco, ex detenuta. E ho provato a mettermi nei panni sia della madre della ragazza stuprata a Roma, sia della madre dello stupratore. Ma vista la mia esperienza in galera posso anche cercare di capire se ha un senso chiedere il carcere preventivo per lo stupratore, che in galera poi se ne andrà senz’altro, quando anche il terzo grado del processo sarà finito (a meno che non si decida per il patteggiamento).

Mi ricordo che fino a pochissimi anni fa lo stupro era reato contro la morale pubblica e non contro la persona, ora c’è una legge che condanna gli stupratori a molti anni di carcere, ma il processo questo ragazzo lo attenderà a casa, con una famiglia che si starà disperando di non essere riuscita a insegnargli il rispetto per le donne.

Se mi metto nei panni della vittima, lo vorrei vedere morto, è umano, ma questo è il motivo per cui il giudice è una persona terza rispetto a reo e vittima. Immaginiamoci una società dove il giudice sia anche la vittima del reato! Ci sarebbe la pena di morte anche per il furto di una bicicletta. E se fossi nei panni della madre della ragazza violentata? Se penso a mia figlia la reazione è quella che ho descritto sopra: lo vorrei vedere morto. Ma se provo a mettermi nei panni della madre del violentatore, forse mi chiederei dove ho sbagliato, magari odiando mio figlio fino allo sfinimento perché da donna non potrei pensare che ho prodotto un individuo simile. E nei panni dell’autore del reato? È un ragazzo di 22 anni, una specie di adolescente, visto che viviamo in una società dove dominano la deresponsabilizzazione e un senso di protezione esagerato nei confronti dei figli: ma siamo sicuri che a questo ragazzo la galera farebbe bene? Chi non ci ha mai messo piede non può rendersi conto che il carcere difficilmente ti migliora, e spesso ti rende ancor più deresponsabilizzato, ti fa, in uno strano gioco perverso, sentire “vittima” e non reo. 

 

Una società più insicura quando questi

condannati usciranno dal carcere

 

di Sandro Calderoni

 

Nonostante molti mass-media in questi giorni abbiano quasi istigato i cittadini a farsi giustizia da sé nei confronti degli autori di stupri, i famigliari delle vittime sono abbastanza intelligenti da attendere che a fare giustizia siano i tribunali. I politici invece, spinti dall’opinione pubblica spaventata per gli stupri accaduti di recente, stanno modificando il Codice di procedura penale e l’Ordinamento penitenziario per quanto riguarda questo reato. In pratica, se passa questa modifica, i magistrati saranno costretti ad applicare la custodia cautelare in carcere per chi è accusato di stupro, mentre i condannati per questo reato pare saranno esclusi dal percorso di reinserimento graduale nella società, previsto per i detenuti che si avvicinano all’uscita dal carcere.

Ci sono migliaia di violenze sessuali e stupri ogni anno, molti avvengono nell’ambito familiare, parecchi sono commessi da ragazzi giovani. In molte carceri sono in atto progetti di cura, di recupero e reinserimento controllato per chi ha commesso reati sessuali, proprio perché spesso sono persone con problemi psichiatrici, portate a ripetere la violenza sessuale. Adesso, probabilmente questi progetti non si potranno più fare perché una persona che ha violentato verrà tenuta in cella fino all’ultimo giorno, e una volta finita la pena tornerà in circolazione senza alcuna preparazione o sopporto, e la società sarà ancora più insicura. Ma il problema è che, se i politici continuano a dar retta alle paure ingigantite da programmi televisivi allarmistici, prima o poi saranno spazzate via tutte le garanzie che i cittadini hanno nel caso di un processo.

Io sono convinto che queste modifiche di legge, se passeranno, non faranno altro che aprire la strada a quella pericolosa idea che vuole ogni diritto sacrificabile per tranquillizzare le piazze, e questo è sbagliato non tanto per noi che in galera ci stiamo già, o per i delinquenti pericolosi che già non aspettavano il processo a casa, ma per tutti i cittadini che possono una volta nella loro vita incappare in problemi con la giustizia e che hanno diritto ad essere tutelati prima di tutto dagli errori dell’apparato giudiziario.

Alla ricerca dell’origine di tante violenze

Siamo tutti un po’ mostri?

Parlare di “mostri” che violentano impedisce di riflettere sulla violenza diffusa nella società, di capirne davvero le cause e di tornare a parlare di una possibile prevenzione

 

di Elton Kalica

 

Forse si è persa l’onestà di denunciare la violenza sulle donne come un fenomeno diffuso e ci si limita ad esaltare gli episodi di stupro per ridurre i problemi delle donne al mostro che gira per le strade alla ricerca della “bella donna” da stuprare. Ho cercato di riflettere su com’è fatto il mostro ma, basandomi sulla mia esperienza d’immigrazione e di carcere, ho finito per ragionare su quanto siamo violenti noi uomini.

 

La violenza nella mia adolescenza

 

La storia della ragazza stuprata alla Fiera di Roma la notte di Capodanno ha colpito senz’altro l’opinione pubblica, ma io mi domando quante sono state le donne che, nel sentir parlare di lei, si sono ricordate delle violenze sessuali che hanno subito loro o che continuano a subire in silenzio, tra le mura di casa o nel posto di lavoro, senza per altro che i media urlino “al mostro”.

Ricordo che quando in Albania si decise di porre fine al rigido regime comunista aprendo al pluralismo e al libero mercato, ci fu una vera crisi dovuta ai licenziamenti di massa – chiusero ogni attività economica nazionale con la falsa promessa che presto le avrebbero privatizzate richiamando tutti ai posti di lavoro – e questo portò il paese all’anarchia più brutale.

Dato che nessuno lavorava – erano ancora in pochi a saper arrangiarsi – uomini e donne vivevano con i 25 dollari di assistenza, soldi che non riuscivano più a garantire la sopravvivenza alle famiglie. Durante il comunismo si diceva che uomini e donne erano compagni lavoratori che si univano nella famiglia socialista per aiutarsi a vicenda ad educare i figli secondo i valori della rivoluzione. Forse può sembrare una cosa surreale oggi, ma questo aveva portato una società profondamente maschilista a credere in una famiglia diversa, dove la donna lavorava, portava a casa soldi e dava alla casa lo stesso contributo del marito. Mentre, quando si ritrovarono tutti disoccupati, molti uomini riscoprirono nei personaggi dei film occidentali (allora erano di moda i film di Rambo) qualcosa di primitivo in cui credere: la forza brutale dei propri muscoli e la debolezza economica della donna.

In quel periodo io andavo al primo anno del liceo, ma non so se cominciai a frequentare la prima palestra privata di box di Tirana perché fui rapito anch’io dalla moda dei muscoli, oppure per un senso di insicurezza – infatti le strade si erano riempite di gente senza occupazione e senza più interessi – ma ricordo che nonostante fosse triplicato il numero dei poliziotti, non era raro assistere a scene di rapine o di omicidi mentre tornavo da scuola. C’era un’isteria tale che sembrava che libertà e democrazia significassero che il più forte era autorizzato a schiacciare il più debole. E in questo caso, i più deboli ritornarono ad essere le donne.

A scuola non si parlava d’altro che di stupri e mentre i telegiornali urlavano i comunicati della polizia sui criminali che rapivano studentesse o le violentavano in branco, nel mio condomino si sentivano sempre più urla di litigi famigliari. Durante la mia infanzia non avevo mai visto la macchina della polizia fermarsi di fronte al mio palazzo, ma durante la cosiddetta transizione, diventò una cosa quasi quotidiana chiamare le forze dell’ordine perché c’era qualcuno che massacrava di botte la moglie, la figlia, o addirittura la madre. Prima, se una mia compagna di classe diceva di non aver studiato perché il padre l’aveva messa a fare il bucato, l’insegnante richiamava il responsabile del consiglio di quartiere che poi criticava il padre in assemblea chiamandolo maschilista e retrogrado; nel nuovo sistema che venne a crearsi, invece, le ragazze smettevano di studiare poiché i padri si affrettavano a farle sposare e a liberarsene, e chi criticava questo atteggiamento veniva messo a tacere con disprezzo come comunista.

Noi giovani invece, che guardavamo i primi furbi fare successo e diventare milionari, avevamo iniziato a credere che occorreva imparare a fare tanti soldi per essere qualcuno, e, nonostante il marxismo studiato a scuola, abbiamo iniziato a credere anche che le belle donne erano come le belle macchine o le ville con piscina: delle merci che si potevano comperare. Ma quando cominciammo a vedere nei bar i ricchi turisti che pagavano abbastanza per convincere a prostituirsi anche alcune delle nostre compagne di scuola – a volte le più belle, quelle che noi ritenevamo irraggiungibili – ci rendemmo conto che era cambiato tutto, che i principi e i valori insegnatici dai nostri genitori potevano anche essere accantonati, insieme al rispetto per loro.

Così io e molti compagni di scuola decidemmo di emigrare, ma questa crisi in altri ebbe un effetto diverso. Alcuni ragazzi che non frequentavano la scuola, trovandosi circondati in quartiere da ragazze che erano interessate solo all’emigrato che tornava dall’estero pieno di soldi, finirono per escogitare ogni tipo di inganno o violenza per rubar loro un rapporto sessuale. Così alla sera, tra le centinaia di ragazzi seduti sui gradini dell’Università, sentivamo storie di stupri dove sia i ragazzi che le ragazze avevano un nome e un viso famigliare, erano tutti conoscenti e a volte amici. Tizio aveva violentato in una festa caia; il figlio di caio aveva portato tizia con inganno in una casa e le era saltato addosso. Erano storie terribili, ma erano così tante che dopo un po’ ci portarono all’assuefazione; erano drammi che nessuno denunciava perché tanto a quei tempi in galera non ci andava nessuno, ma anche quando qualcuno ci andava, eravamo colpiti da un senso di compassione, perché vedevamo la madre, che conoscevamo da sempre, andare in carcere a mani vuote, e allora facevamo la colletta per aiutarla. Forse eravamo tutti complici, forse eravamo diventati tutti un po’ mostri, ma non c’era odio in noi verso quelli a cui la “libertà” aveva dato in testa.

L’emergenza stupri che puntualmente si ripete in Italia mi ha fatto riflettere molto, e se mi sono tornate in mente queste sequenze di miseria e di dolore della mia adolescenza è perché cercavo di capire come mai non riesco ad odiare i giovani violentatori arrestati in questi giorni e battezzati dai giornalisti come mostri; o forse volevo solo trovare dei motivi per dire che non li considero nemmeno mostri, ma solo dei ragazzi che hanno sbagliato e vanno in qualche modo rieducati: certo che un po’ mi ci riconosco e penso che, in quegli anni, sono stato fortunato ad avere avuto una ragazza e un po’ di soldi che mi permettevano di portarla fuori, perché altrimenti, con la pazzia dell’anarchia che ci aveva contagiato, mi sarei potuto trovare in una situazione di violenza anch’io.

 

Poche disgraziate, o un’infinità di donne ancora usate e abusate?

 

D’altro canto, il venire in Italia non è che mi ha tolto dal mondo della violenza. Qui ho visto per la prima volta gli uomini mettersi in fila ed aspettare il turno per andare con la prostituta preferita, convinti che quella non fosse violenza; qui ho visto uomini andare dietro un cespuglio e farsi pagare la droga in natura da donne con problemi di tossicodipendenza che non avevano il denaro per pagare, altro che violenza; qui ho visto uomini insistere che la badante deve essere giovane, così oltre a prendersi cura della madre anziana, si prende cura anche del figlio.

Qualcuno si domanda quali sono i motivi che spingono tanti stranieri a stuprare, e io, che mi ero già fatto un’idea quando stavo fuori, ascoltando storie di condanne qui dentro, ho una mia teoria. Che non è poi tanto difficile capire se pensiamo che molti immigrati, oltre a dover provvedere al proprio mantenimento – affitto, vestiti e mangiare – devono anche mandare una buona parte del salario a casa per mantenere i propri famigliari. Mentre l’italiano di solito ha la possibilità di avere una compagna, per l’immigrato che lavora, la magra disponibilità di denaro non consente di costruire delle relazioni dove poter trovare una compagna, e non permette nemmeno di andare a prostitute.

Ho conosciuto alcuni braccianti albanesi che lavoravano nei dintorni di Treviglio e dormivano in baracche. Questi, l’ultimo sabato di ogni mese andavano dalle prostitute nigeriane che lavoravano lungo la strada perché potevano spendere cinquanta euro solo una volta al mese. Erano tutti sposati tra l’altro, e al calar del sole cantavano serenate alle mogli rimaste in Albania, ma non potevano farle venire, e allora andavano a chiedere un rapporto sessuale a pagamento.

Ho fatto diversi anni nella sezione di Alta Sicurezza, e per alcuni mesi sono stato in cella con un giovane moldavo condannato per sequestro di persona e stupro. Erano stati arrestati in quattro per lo stesso reato perché uno di loro aveva portato a casa una prostituta, ma dopo che lui aveva pagato il prezzo e “consumato” il rapporto sessuale, gli altri tre ragazzi che dormivano nello stesso appartamento avevano costretto la ragazza a fare la stessa cosa anche con loro, e il mio compagno di cella sosteneva che doveva essere condannato per non avere pagato la prostituta e non per averla stuprata. E non si rendeva neppure conto che la violenza è violenza sempre, e una donna, ogni donna, ha il diritto di dire di no e di vedere rispettata la sua decisione.

Quelle poche donne che dopo essere stuprate vengono rese dai media delle vittime-simbolo forse capiscono che al giornalista non importa il loro dolore, non importa com’è stata la loro vita o quella del proprio carnefice, forse intuiscono che al giornalista importa solo creare il mostro e diffondere il panico. E finisce che le vittime di stupro si chiudono comunque nell’isolamento della casa e si convincono di essere delle disgraziate che sono finite in mano al mostro, e finché rimarranno chiuse in casa a guardare la televisione, difficilmente si renderanno conto di essere una delle tantissime donne che quotidianamente sono costrette a fare i conti con la violenza degli uomini.

 

 

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