|
Carcere, pene, riforma della Giustizia secondo il Partito Democratico All’opposizione chiediamo coraggio nel discutere di pene e misure alternative Di carcere abbiamo parlato con Lanfranco Tenaglia, magistrato, (ex) ministro ombra della Giustizia, che ha criticato duramente l’impostazione della politica sulla sicurezza di questo governo, una impostazione panpenalistica, che scarica sulla questione penale ogni problema che riguarda la sicurezza
a cura della Redazione
Le proposte del Ministro Alfano le abbiamo sentite, sono mesi che discutiamo di edilizia penitenziaria, braccialetti elettronici, espulsioni dei detenuti stranieri. Ci interessava però capire anche le proposte dell’opposizione, e allora abbiamo invitato in redazione Lanfranco Tenaglia, magistrato, (ex) ministro ombra del Partito Democratico per la Giustizia. E lo abbiamo intervistato.
Ornella Favero: Prima di iniziare l’incontro vorrei brevemente spiegarle che il nostro giornale esiste da 10 anni, e abbiamo anche un sito, che credo adesso sia diventato il sito più consultato sulle carceri, anche perché facciamo una newsletter quotidiana che ha più di 7.000 iscritti, fra cui buona parte del personale dell’amministrazione penitenziaria, e il ministro stesso, e che viene gestita ogni giorno da un detenuto che è in detenzione domiciliare, perché in carcere internet non si può usare ancora, anzi è proprio una delle cose che vorremmo chiedere prossimamente, la possibilità di sperimentare l’uso di internet in realtà come la nostra. Noi naturalmente lavoriamo sull’informazione e sulla sensibilizzazione delle persone fuori, questa è la nostra attività principale, perché ci sembra che ci sia una informazione sul carcere, sulle pene e sulla giustizia, talmente superficiale e fuorviante rispetto alla realtà, che finisce per condizionare pesantemente la vita sociale, ma anche la vita politica, e quindi le scelte in materia di pacchetti sicurezza, pene, carceri. Proprio per questo abbiamo un importante progetto con le scuole, svolgiamo un enorme lavoro andando nelle scuole, detenuti e volontari, a parlare di prevenzione, e facendo poi entrare le classi in carcere. E questo ci fa capire che anche in una regione come la nostra, che è una regione ricca con forti egoismi, dove le famiglie non sono così ben disposte verso il carcere, ragionando insieme, spiegando che cosa significa fare tutta la carcerazione fino all’ultimo giorno in carcere, e cosa significa invece fare un percorso di reinserimento guidato con le misure alternative, la gente capisce, e si fa un’idea diversa del senso della pena. E dei problemi veri della giustizia, che sono soprattutto i tempi lunghissimi, ci sono qui persone che sono entrate in carcere dieci-quindici anni dopo la commissione di un reato. L’abbiamo invitata allora per ragionare un po’ anche su questo, sull’informazione e la sensibilizzazione sui temi della sicurezza e delle pene, perché ci pare che ci sia una debolezza da questo punto di vista nel Partito Democratico. Per quale ragione per esempio non si è visto quasi nessuno che sia stato in grado di spiegare che cosa è stato davvero l’indulto, e invece tutti a dire che si sono pentiti di averlo approvato? Secondo noi bisogna avere il coraggio di spiegare qual era la situazione quando è stato dato, e anche che certamente non tutti quelli che sono usciti con l’indulto sono ritornati dentro, anzi la recidiva non è stata altissima, e poi sono uscite tante persone che sarebbero comunque uscite dopo pochi mesi, quindi noi vorremmo ragionare su questi temi, e poi anche sui temi che riguardano il carcere e le politiche sul carcere da parte dell’opposizione. Perché le idee del governo le sappiamo, noi fin dal primo giorno ci siamo resi conto che braccialetti elettronici ed espulsioni non sono soluzioni per il sovraffollamento, ma ci piacerebbe sapere come intende confrontarsi il Partito Democratico su questo, che sta diventando un problema assolutamente esplosivo. E sinceramente ci piacerebbe anche essere considerati degli interlocutori affidabili per chi deve occuparsi di legiferare sul carcere. Lanfranco Tenaglia: Io innanzi tutto vi debbo ringraziare per questa possibilità di confronto che è utilissima, per chi come me fa il mestiere del legislatore più che altro, ancor prima del politico, perché spesso in Parlamento si legifera e si ragiona avendo poco in conto la situazione sul campo, e le esigenze di chi poi le leggi le vive sulla sua pelle, o le deve applicare. Io sono d’accordo su una premessa della dottoressa Favero, che è quella di dire che in questo Paese c’è stato negli ultimi anni un problema serio, di informazione sul problema sicurezza, e che questo è stato vissuto come un’incapacità della maggioranza di quel momento di far fronte ad un dilagare della criminalità. Quindi questo ha dato ai cittadini un senso di insicurezza percepita, che ha avuto un riflesso pesante su tutta una serie di comportamenti, e anche pesanti conseguenze elettorali, perché la sicurezza è stata una delle motivazioni di voto più forti dell’ultima tornata elettorale. Avrete capito e avrete visto come questo problema, dal momento in cui ci sono state le elezioni politiche, è quasi sparito dalle tematiche dell’informazione italiana, non c’è più un problema sicurezza, aumentano gli sbarchi, aumenta la clandestinità però questo viene raccontato sempre meno, si raccontano altre cose. Io sono tra coloro che l’indulto lo hanno votato e sono fra coloro che non si sono pentiti di averlo votato, sono però tra coloro che hanno detto che un errore è stato fatto, l’errore di non aver avuto il coraggio di accompagnare all’indulto un provvedimento di amnistia, e questo ha provocato problemi nell’organizzazione della giustizia che potevano essere evitati. Per cui io non sono completamente d’accordo che non si è avuto il coraggio di spiegare le ragioni dell’indulto e soprattutto le conseguenze. Il Partito Democratico, alcuni suoi esponenti hanno cercato di spiegare questo, quanto sia stato inferiore il tasso di recidiva e tutta una serie di informazioni su questo provvedimento, ma l’opinione pubblica è indubbio che lo abbia preso male. Però io credo che non sia il passato quello che ci deve far ragionare per sviluppare una politica della giustizia e della sicurezza efficace in questo Paese, e sono convinto che il governo abbia impostato una politica della giustizia, o meglio che non ce l’abbia ancora una politica della giustizia, e abbia impostato una politica della sicurezza che si è sciolta come neve al sole, alle promesse elettorali non è seguito nulla di efficace. Allora innanzi tutto vedo che voi avete scritto nell’ultimo numero della vostra rivista un elenco di reati per i quali è stato previsto più carcere, che sono l’indice dell’impostazione della politica sulla sicurezza di questo governo, che è una impostazione panpenalistica, che scarica sulla questione penale ogni problema che riguarda la sicurezza, e noi ci stiamo opponendo a questa politica, perché riteniamo che non sia il panpenalismo la soluzione, e qualche risultato, anche se poco visibile, è venuto: per esempio, il reato di immigrazione clandestina è sparito dal disegno di legge sulla sicurezza, grazie all’opposizione del Partito Democratico. Come credo che sull’immigrazione non sia la repressione penale quella che risolve i problemi, ma noi abbiamo sempre detto come una politica di integrazione, accompagnata con una politica efficace di espulsioni per via amministrativa, fosse la strada giusta. Quello dei tempi senz’altro è il problema principale della giustizia, voi avete parlato di persone che sono entrate in carcere 10 anni dopo la commissione di un reato, queste persone quando entrano in carcere è desumibile che siano persone diverse, perché 10, 15 anni sono una vita, e se io metto in carcere una persona dopo 10 anni ho messo in carcere un soggetto che è diverso da quello che era al momento del reato. Quindi non solo per la giustizia civile ma anche per quella penale, c’è un problema enorme di risposta immediata, ma credo che il nostro sistema processuale abbia un problema più grosso, o almeno uguale diciamo, che è quello del doppio binario. Insomma se io guardo le statistiche dei reati per cui c’è una detenzione effettiva, allora noi parliamo di reati di un certo tipo, rapine, droga, reati per i quali il binario processuale, cioè flagranza di reato e carcerazione preventiva, ha una rapidità e un numero di ostacoli di molto inferiore per arrivare all’esecuzione della pena. E abbiamo un’altra categoria di reati per i quali l’esecuzione della pena è qualcosa che va avanti nel tempo o non arriva mai, reati contro la pubblica amministrazione, reati ambientali, reati societari, che sono in un binario che secondo noi va eliminato, va eliminato con un intervento serio sul processo, ma anche con un intervento serio sulle storture che la legge ex Cirielli ha provocato sulle prescrizioni e sulla durata della pena. Allora guardate noi siamo una opposizione riformista, e per questo ci siamo impegnati in questi mesi su queste materie non solo a dire no. Certamente sul lodo Alfano diamo un no forte, motivato, che sarà giudicato dalla Corte Costituzionale, ma ci siamo impegnati anche a fare le nostre proposte. Ci siamo impegnati a dire no a quel disegno di riforma della legge Gozzini che per noi è un errore, perché la legge Gozzini va migliorata, vanno solo diminuiti certi meccanismi di automaticità. Ma è importante il confronto con voi, e con l’avvocatura, del resto ho visto che nel numero della vostra rivista dedicato alla Gozzini c’è quell’intervento delle Camere penali che è indicativo di quanto questa legge sia utile per la sicurezza e per gli equilibri del nostro vivere civile. Ora noi aspettiamo perché è il governo che deve fare le sue scelte, il sistema carcerario è arrivato ad un livello di assoluta impossibilità di andare avanti per il sovraffollamento. Io ho rilasciato alcune interviste subito dopo le sparate estive sui braccialetti e le espulsioni, come le ha fatte Minniti, che è il ministro ombra degli Interni, in cui abbiamo detto le cose che sappiamo tutti, che si tratta di misure che non risolvono assolutamente il problema, anzi alcune addirittura sono inapplicabili, o applicabili dopo molta fatica, come quella delle espulsioni, e altre magari applicabili a fattispecie diverse, per esempio il braccialetto elettronico potrebbe essere un meccanismo che per la detenzione domiciliare in fase di custodia cautelare preventiva può essere utile. Io sono stato la scorsa legislatura in visita al parlamento spagnolo, e ho parlato con i nostri omologhi colleghi della Commissione giustizia, e mi parlavano invece molto bene di una idea che il ministro Alfano in una intervista e anche in una audizione parlamentare ha esplicitato, che è stata realizzata in Spagna, quella del doppio binario carcerario. Cioè non più il carcere fortino, ma il carcere campus, per determinati percorsi carcerari. Allora mi interessava anche capire qual è la vostra posizione e la vostra esperienza su una possibile ipotesi di circuiti carcerari di questo tipo, perché io sono venuto soprattutto per ascoltare, perché chi ha da imparare in questo campo sono io e non voi. Quello che è certo è che non si può fare una politica che dimentichi quanto sia proficuo il recupero, quanto siano proficui i percorsi di reinserimento. Certamente per noi politici, che viviamo della necessità di acquisire consenso, in questo momento storico questi discorsi sono difficilissimi da fare, ma la nostra responsabilità, sia personale, sia umana, sia di formazione, sia di valori che ispirano la parte politica alla quale appartengo, ci impone di affrontarli. Siamo consapevoli che al nostro Paese va dato un sistema processuale che funzioni, che sia in grado di sanzionare comportamenti che vanno sanzionati in tempi ragionevoli e con pene certe, ma siamo anche sicuri che da quel momento in poi parte un’altra storia, che è la storia della rieducazione, che è la storia del reinserimento. Che è la storia che voi testimoniate ogni giorno con il vostro lavoro, con il vostro volontariato e con il vostro percorso, che una volta entrati in un regime carcerario avete iniziato. Per questo credo che sia molto più importante ascoltare le vostre sollecitazioni e poi recepire quello che può essere recepito. Quello che magari io mi posso impegnare a fare è di far sì che nella discussione parlamentare che inizierà sul disegno di legge del ministro Alfano dedicato al carcere, anche la vostra esperienza sia chiamata a dire le proprie ragioni in una apposita audizione.
Marino Occhipinti: Innanzitutto grazie per essere venuto qui, perché per noi è importante. Noi a dire la verità abbiamo provato ad invitare entrambi gli schieramenti, perché siamo un po’ preoccupati proprio della insicurezza “percepita”, e dell’uso che se ne è fatto in campagna elettorale. Lei ha detto solo una cosa sulla quale io non sono d’accordo, ha detto che bisognerebbe rivedere certi meccanismi di automaticità nell’applicazione della legge Gozzini, a noi pare che nella legge Gozzini di automatismi non ce ne sia neanche uno, cioè io provo ad analizzare tutto a partire dalla liberazione anticipata, per la liberazione anticipata o si mantiene un buon comportamento e si partecipa alle attività rieducative, oppure non ti viene concessa, a volte basta fumare una sigaretta dove non è consentito e i 45 giorni della liberazione anticipata di quel semestre non ti vengono concessi, quindi per quanto riguarda i benefici non vedo nessun automatismo. A noi è proprio questo che spaventa, quello che a volte viene raccontato: abbiamo assistito a trasmissioni televisive tipo Porta a Porta, dove dicevano che la media di permanenza in carcere per omicidio volontario è da 6 a 8 anni, o quella volta che hanno parlato della semilibertà concessa a Pietro Maso, dicevano che fra un anno sarà libero, perché appunto conteggiavano già i 5 anni di liberazione condizionale che lui potrebbe avere, tralasciando però il fatto che la liberazione condizionale non viene quasi mai concessa. Quindi se uno prende 30 anni di pena, le trasmissioni televisive cominciano a sciorinarti una sfilza di conti che non hanno senso, cominciando con il fatto che prenderai 6 anni di liberazione anticipata, 5 anni di liberazione condizionale, 3 anni di indulto, alla fine come dice Travaglio la moglie è meglio ucciderla perché tanto prendi 3 anni, piuttosto che fare un divorzio che poi finisce che ci metti più tempo. E magari ti costa anche di più. Noi vorremmo invece che si parlasse anche delle statistiche “positive”, ad esempio ci sono statistiche del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, non sono le nostre, che dicono che tra chi fruisce di misure alternative commette reati il 4 per mille, non per cento, per mille, questo però non lo si trova mai da nessuna parte. Quindi noi ragioniamo sul fatto che forse bisognerebbe tornare a parlare alle persone, e spiegare come realmente stanno le cose. Quando fu fatta la legge Gozzini, Mario Gozzini stesso girò non so quante carceri per ascoltare i detenuti e il personale, per rendersi conto dei problemi reali, adesso magari tutto questo non succede più. Oggi si fanno le trasmissioni televisive, e vanno a parlare come interlocutori persone, che di carcere, di pene e di giustizia non sanno nulla. Diciamo invece che l’impianto della Gozzini comunque è basato sulla discrezionalità del magistrato, di automatico non c’è niente, sono i conti dei giornalisti troppo automatici. Lanfranco Tenaglia: Credo che per noi l’impianto della Gozzini non si deve toccare, ma quello che mi pare importante è che noi abbiamo chiesto, il primo giorno di insediamento della nuova Commissione giustizia, la ricostituzione del Comitato carceri, in seno alla stessa Commissione, e stiamo ancora aspettando che la maggioranza prenda la sua decisione su questo punto. Noi riteniamo che questo sia uno strumento che va fatto rifunzionare, perché devo dire la verità, per due legislature, l’ultima per ragioni legate alla brevità della stessa, ma anche dal 2001 al 2006, non aveva funzionato al meglio, ma è uno strumento fondamentale per il Parlamento, per conoscere la realtà carceraria, al di la di quello che può essere un affiancamento all’opera del Ministero.
Daniele Barosco: Io volevo chiederle la vostra posizione, relativamente alle condizioni delle carceri, in considerazione che è stato fatto un decreto nel 2000, il Nuovo regolamento penitenziario, in cui risultano tutti gli interventi strutturali che dovevano essere fatti nelle carceri, e che sono rimasti quasi tutti sulla carta, come sono rimaste sulla carta molte di queste proposte del ministro Alfano, come i braccialetti elettronici, che tra l’altro non vengono utilizzati e stanno costando ugualmente cari allo Stato. Invece credo che sarebbe utile ragionare sui finanziamenti che andrebbero fatti per rendere più praticabile quella che forse è l’unica risposta efficace al sovraffollamento, il potenziamento delle misure alternative, magari anche attraverso forme nuove di detassazione delle cooperative sociali e anche delle imprese che assumono detenuti. Ornella Favero: Aggiungo una cosa, ho letto in un suo intervento in Commissione giustizia, se non sbaglio, che lei chiedeva al Ministro “quali rapporti, quali iniziative e quali sinergie con la magistratura di Sorveglianza siano state realizzate”. Ecco, credo che quello delle misure alternative sia un problema oggi, in cui forse bisognerebbe davvero che i politici cercassero il confronto con i magistrati di Sorveglianza. Perché i magistrati comunque indirettamente rischiano di essere influenzati da un certo clima nel Paese, e in alcuni casi secondo me c’è una riduzione di fatto della concessione delle misure alternative, di cui sarebbe interessante discutere. Lanfranco Tenaglia: Noi abbiamo posto al ministro Alfano un problema di metodo preliminare nell’affrontare i temi della giustizia, del carcere e del reinserimento, che è quello di coinvolgere gli operatori del settore in un tavolo di concertazione ministeriale. Questo non è un meccanismo per perdere tempo, ma per fare in modo che il ministro tenga conto delle indicazioni che vengono dagli avvocati, dai magistrati, dal personale amministrativo, dagli operatori del settore, dal volontariato che nelle carceri è uno dei pilastri, perché noi riteniamo appunto che da questo confronto emergerà una quantità di soluzioni condivise. Sulle condizioni carcerarie, qui purtroppo bisogna prendere il toro per le corna, noi abbiamo una edilizia carceraria che non è più adeguata, ci sono strutture come quella di Sassari che risale al 1400. Allora questo significa una necessità di una politica di investimento sull’edilizia carceraria, il ministro nella audizione ha detto che è sua intenzione investire nell’edilizia carceraria, non tanto nella costruzione di nuove carceri, ma nella costruzione di nuovi padiglioni, o nelle ristrutturazioni. Però la realtà è un’altra, la realtà è che i 160 milioni di euro previsti e stanziati dal governo Prodi per l’edilizia carceraria sono stati cancellati, per finanziarie la riduzione indiscriminata dell’ICI sulla prima casa, questo è un fatto, gli altri sono annunci. Io se debbo credere agli annunci che il ministro Alfano ha fatto, devo pensare che ci saranno nuovi fondi per l’edilizia carceraria, e se ci saranno noi voteremo a favore, perché oltre al sovraffollamento ci sono condizioni di vita in alcune situazioni che sono intollerabili per la vetustà delle strutture carcerarie.
Elton Kalica: Anche noi stando qui abbiamo imparato un po’ come funzionano le carceri, e da quello che ci risulta non è tanto un problema quello di trovare i soldi per costruire dei nuovi istituti, quanto poi farli funzionare nel corso degli anni con assunzione di personale e spese di gestione. Perché un carcere in sé non è poi quella spesa insostenibile, in fondo voi italiani siete andati anche a costruire carceri in Albania e in Romania, per cui trovare i miliardi per costruire un carcere non è impossibile. Il problema è che anche per le carceri già esistenti pare sia drammatico trovare i soldi per la normale amministrazione, il pagamento di acqua, luce, gas, degli stipendi per i detenuti lavoranti, gli straordinari degli agenti, quindi tutta una serie di spese che va ben oltre la spesa per l’edilizia carceraria. Del resto anche attraverso Striscia la notizia abbiamo visto la denuncia di alcune carceri già costruite e poi abbandonate, perché appunto la difficoltà è metterle in funzione. Noi invece vorremmo che si aprisse una discussione sulla parola “emergenza”, che viene utilizzata sempre più frequentemente, per indirizzare tutte le azioni politiche che riguardano il carcere. Mentre noi crediamo che più che di situazioni emergenziali, si tratti di problemi, invece la situazione a cui siamo arrivati attualmente all’interno delle carceri, non è altro che il frutto di questa logica dell’emergenza, che porta per esempio a prevedere sempre più carcere, per ogni tipo di illecito. Io aggiungerei anche che secondo noi, tanto per cominciare, ci sono alcune cose che si potrebbero fare subito per migliorare le condizioni di vita in carcere, con costi molto limitati. Ad esempio una di queste è l’affettività in carcere, in Italia si possono fare colloqui per un totale di sei ore mensili, noi qui crediamo che bisognerebbe dare più spazio ai rapporti coi famigliari, anche con i colloqui intimi, che sono consentiti ormai nelle carceri di quasi tutto il mondo. E poi le telefonate, qui in Italia vige la regola che si può telefonare solo a telefoni fissi, ma adesso con i cellulari la strada della telefonia fissa è stata abbandonata in molti Paesi, ma in carcere soprattutto gli stranieri, i cui famigliari non hanno un telefono fisso, sono esclusi dalla possibilità di usufruire di un contatto con i propri cari, che è previsto dalla legge, quindi una modifica alla legge che permetta di telefonare sui cellulari secondo noi migliorerebbe di molto il rapporto con la propria famiglia. Un’altra questione che riguarda gli stranieri è che la maggior parte non ha la famiglia qui, e non esiste una normativa che dia il permesso ai famigliari delle persone straniere detenute di venire in Italia per fare i colloqui. Il visto è previsto per motivi di studio, di lavoro o per turismo, ma non per altri motivi, ecco allora occorrerebbero anche degli interventi di questo tipo. Però ci si può arrivare, ad affrontare questi problemi, se non si rimane intrappolati in quella che è la logica dell’emergenza, se la logica non è quella di dare sempre carcere e più carcere, senza poi pensare alle condizioni in cui si vive qui dentro. Daniele Barosco: Volevo aggiungere, a quello che ha detto Elton, una cosa che riguarda anche gli italiani, perché qui abbiamo ricevuto segnalazioni di genitori come Giovanni Falcone, che ha un figlio detenuto all’estero, quindi c’è anche un discorso di reciprocità, che queste “regole minime” penitenziarie vengano applicate sì agli stranieri in Italia, ma anche a noi italiani quando siamo in carcere all’estero. Ornella Favero: Io però prima vorrei aggiungere sull’edilizia carceraria che è vero che ci sono carceri fatiscenti e dei lavori sono necessari e degli investimenti anche, però io mi aspetterei dal Partito Democratico che i discorsi sull’edilizia carceraria fossero più chiari, che si dicesse: attenzione, non è comunque la soluzione costruire più carceri e metterci dentro più gente, ragioniamo piuttosto sulle pene, sul continuo ricorso al carcere. Ecco mi piacerebbe che a sinistra ci fosse un ragionamento più ampio sulle pene, che si puntasse di più sulle misure alternative, so benissimo che è un discorso impopolare oggi, ma insomma in questo momento mi pare che si potrebbe avere più coraggio e meno paura dei discorsi impopolari. Lanfranco Tenaglia: Elton Kalica ha sollevato un problema che a noi è ben presente, che è quello della necessità che il carcere abbia risorse sufficienti, personale sufficiente, personale professionalmente adeguato e motivato. La nostra proposta è organica e complessiva di riforma e riguarda anche questo aspetto, c’è un disegno di legge a mia prima firma alla Camera, e al Senato a prima firma del senatore Maritati, che è intitolato “Per l’efficienza della giustizia”, che prevede anche nuove risorse per far fronte all’aumento del personale necessario, anche per il personale penitenziario. Abbiamo chiesto la calendarizzazione urgente per questo disegno di legge, ci è stata concessa al Senato, e aspettiamo che il governo ci venga a dire se è d’accordo o meno. Noi poi siamo perfettamente consapevoli che una riforma del sistema penale debba partire dalla riforma delle pene oltre che dal processo, abbiamo presentato un disegno di legge apposito a prima firma del senatore Casson, che recepisce i lavori sul sistema delle pene della commissione Pisapia, che voi certamente sapete quale importanza dà al sistema delle pene alternative, e a tutti i sistemi “alternativi” al processo per determinati tipi di reati di offensività minima. Voi avete sollevato anche il problema dell’informazione in Italia, magari ci faremo un convegno? Ma io non so se esiste un’informazione di destra o di sinistra, certamente su certi argomenti esiste un’informazione omologata, far passare certi messaggi non è mai facile. Sull’edilizia penitenziaria, nella relazione che ho tenuto al governo ombra io dicevo che è vero che bisogna programmare accuratamente gli interventi di edilizia penitenziaria, ma innanzitutto perché il sovraffollamento carcerario è sofferenza, il sovraffollamento carcerario è anche e soprattutto un ostacolo al percorso di reinserimento, quindi nuove carceri non solo per aumentare la capienza, ma anche per favorire il reinserimento. Voi mi avete dato degli spunti che io cercherò di verificare, per esempio quello sulle telefonate mi sembra una cosa oltre che seria, anche fattibilissima; sull’importanza della questione dell’affettività e intimità siamo talmente consapevoli, che se volete vi leggo testualmente quello che io ho relazionato al governo ombra: “Sempre nella logica dell’alleggerimento delle condizioni detentive nelle condizioni di sovraffollamento si dovrebbe ripensare all’assoluta inattualità della assenza di spazi per l’affettività del detenuto, tale esigenza è resa presente anche dal recente orientamento della Corte di Cassazione”.
Franco Garaffoni: A proposito di reinserimento, l’assunzione di questi circa 400 educatori vincitori di concorso per far funzionare forse un po’ meglio le carceri, che noi già da tempo aspettiamo, potrà avvenire? Alfano che assicurazioni ha dato? Lanfranco Tenaglia: Abbiamo fatto una interrogazione su questo, e aspettiamo una risposta.
Franco Garaffoni: Il ministro Alfano ha parlato in questi mesi di affrontare i problemi di sovraffollamento con espulsioni e braccialetti elettronici. Ma con le espulsioni non è che siamo messi molto bene in Italia, il magistrato di Sorveglianza di Padova ci diceva che l’anno scorso ne sono state fatte pochissime, 280 mi pare, dalle carceri. Quanto ai braccialetti, alla Telecom vengono pagati 10 milioni di euro all’anno per i braccialetti, che sono lì fermi e inutilizzati. Poi abbiamo la costruzione di queste nuove carceri a “custodia attenuata” di 200 posti a carcere, devono essere costruiti 100 carceri per 20.000 persone, cioè devono essere costruite in contemporanea per averle disponibili fra un anno o due, a me francamente sembra proprio una favola. L’unica proposta che mi sembrava, perché non ne sento più parlare, interessante è la questione della messa alla prova per reati fino a 4 anni: lei ci può spiegare qualcosa, visto che c’è una confusione totale, addirittura il Sole 24 Ore è intervenuto con degli articoli poco chiari, perché ha detto che potrebbero uscire 6.000 detenuti… Ornella Favero: Il concetto della messa alla prova è che chi è incensurato e viene denunciato per un reato che prevede una pena sotto i quattro anni può non essere processato e se la messa alla prova va a buon fine non si arriva neppure al processo, quindi è evidente che non si parla comunque di condanne già in esecuzione. Lanfranco Tenaglia: No, la messa alla prova, come giustamente ha detto lei, è un istituto che serve per “impedire” il processo. Allora se viene estesa fino ai 4 anni, dai 3 ai 4 anni però c’è una fascia di reati che sono quelli dei colletti bianchi, che a nostro avviso meritano un processo, quindi secondo noi 3 anni è un limite di pena sopportabile, sufficiente per questo istituto, che era uno dei pilastri del disegno di legge Pisapia, che può funzionare, perché nel processo minorile ha dato dei buoni risultati, quindi non ci vedrebbe contrari, mentre i 4 anni di pena massima sono troppi.
Sandro Calderoni: Posso dire una cosa? Sì può essere vero che all’interno delle condanne fino a 4 anni ci possono essere reati per cui sono imputabili i cosiddetti colletti bianchi, ma il fatto è che adesso in carcere persone che hanno reati di questo tipo non ce ne sono. Quindi non mi sembra poi così preoccupante che nella messa alla prova entrino i reati dei colletti bianchi. Lanfranco Tenaglia: Però questo è un istituto che deve servire a concentrare l’attività processuale sui fatti più gravi. La logica dell’istituto è di consentire per reati di minor gravità e per soggetti che per la prima volta commettono un reato, di essere messi alla prova e quindi di evitare il processo e la condanna, perché poi il percorso si conclude con un’archiviazione, non si conclude con un provvedimento di condanna o un patteggiamento, si conclude con un provvedimento di archiviazione e quindi non esiste il precedente penale.
Franco Garaffoni: Sembra che la Lega su questo faccia opposizione e che alla fine la messa alla prova non riguarderà più i reati sotto i 4 anni, ma sotto i 2 anni. Lanfranco Tenaglia: Ecco è da valutare, secondo me i 2 anni rischiano di diventare inutili, perché c’è l’istituto della sospensione. È chiaro che qui parliamo di reati che poi non riguardano il problema carcere, sono tutti aspetti però a ricaduta di sistema, sono tutti meccanismi che poi influiscono sul meccanismo processuale, influiscono su tante altre cose. Comunque per la giustizia o si fa un intervento complessivo, oppure rischiamo di aggravare i problemi che già abbiamo adesso, e a questo proposito noi abbiamo chiesto che venga dedicata una sessione parlamentare apposita alla giustizia. Perché non è possibile continuare con discussioni che affrontano questioni settoriali, se discutiamo della legge Gozzini al Senato, senza discutere di riforma delle pene, senza discutere di processo, facciamo dei danni doppi.
Marino Occhipinti: La sospensione condizionale della pena è comunque diversa dalla messa alla prova, perché la sospensione condizionale prevede la pena fino a due anni, e può qualche volta rientrarvi anche qualche rapina, ad esempio, se la pena che viene inflitta non supera tale limite, mentre la messa alla prova è per i reati che non superano una certa entità massimale di condanna. Lanfranco Tenaglia: Certo, ma dicevo solo che se è sicura la sospensione condizionale nessun imputato chiederà la messa alla prova.
Daniele Barosco: Lei ha detto prima che voi vi siete impegnati contro il lodo Alfano che riguarda le quattro più alte cariche dello Stato, perché siano anche loro giudicati come tutti gli altri cittadini. Ma cosa ne pensa del fatto che altre 140.000 persone l’anno usufruiscono della prescrizione e che questo comporta di fatto una disuguaglianza, rispetto a me e a tutti quelli che ci sono qui dentro, e nessuno dice niente su questo fatto, che è legato al problema della tempestività della giustizia. A me sembra che il tema dell’uguaglianza davanti alla legge sia basilare. Lanfranco Tenaglia: Il problema della prescrizione è un problema che non riguarda solo il cattivo funzionamento della macchina giudiziaria, ma come ha detto lei è fonte anche di ingiustizia e, a voler essere buoni, di un meccanismo casuale, perché spesso può accadere che in un distretto giudiziario si va più veloci e si viene condannati prima della prescrizione, e in un altro per lo stesso fatto della stessa gravità si finisce in prescrizione. Qui c’è un problema organizzativo e poi un problema normativo, di cui noi abbiamo ben presente qual è la genesi, la ex Cirielli ha fatto un intervento sulla prescrizione e sulla recidiva, che ha scassato il sistema, noi abbiamo nella scorsa legislatura presentato una proposta di riforma dell’ex Cirielli che era arrivata in aula alla Camera, poi per lo scioglimento della legislatura è decaduta, l’abbiamo ripresentata e abbiamo chiesto alla Camera la calendarizzazione, naturalmente noi siamo opposizione e ci tocca una quota di disegni di legge, che possiamo far discutere, però ecco è la discussione il limite massimo di possibilità, perché se poi non c’è una volontà maggioritaria non puoi andare oltre. Però il problema da lei sollevato è senz’altro giusto e a noi ben conosciuto, e dal punto di vista organizzativo è il problema della lunghezza dei processi, per il quale c’è bisogno di un intervento complessivo, quindi interventi sugli organici, interventi sulla circoscrizione giudiziaria, interventi sull’informatizzazione, e gli interventi processuali a cui ho accennato, progetto Pisapia sul Codice penale e riforma del Codice di Procedura penale.
Daniele Barosco: La mancata applicazione dell’articolo 111 della Costituzione, in particolare per quel che riguarda la ragionevole durata del processo, ci pone al di fuori di quelli che sono i sistemi giudiziari europei. Lanfranco Tenaglia: Noi siamo il Paese più condannato per questi aspetti, quindi c’è un problema di tempi, e c’è un problema di equilibrio fra accusa e difesa. Lei ha sollevato, quando parla di mancata applicazione dell’articolo 111, il problema che tutti i giorni discutiamo sui giornali, io spererei prima o poi di poterlo discutere in Parlamento. Quello che io penso, quello che il partito pensa sulla parità fra accusa e difesa, è che si tratta di un problema processuale, è un problema di regole processuali, ma non è un problema di separazione delle carriere, tanto per intenderci. Perché non aggiungerebbe nulla alle garanzie degli imputati separare le carriere, il problema è strumentale, si solleva strumentalmente perché non si dice che qualsiasi assetto del Pubblico Ministero, sia esso separato o sia esso facente parte della giurisdizione, richiede un efficace controllo sulla responsabilità del magistrato. Ora in una visione di separatezza delle funzioni o delle carriere, se il Pubblico Ministero non è controllato da un sistema di governo autonomo, l’unico altro sistema di controllo è quello da parte del potere politico. Io credo che invece un sistema democratico in equilibrio richieda una autonomia della magistratura inquirente dal potere politico.
Ornella Favero: Tornando alla questione delle carceri, lei ci ha detto appunto che le interessava ascoltare, a me piacerebbe capire una cosa, se è possibile da parte del Partito Democratico ragionare su queste questioni coinvolgendo più situazioni dal basso, come può essere la nostra, ma anche altre che si occupano di questi temi. E portando poi al suo interno un discorso più coraggioso sulle pene, sul carcere, sulle misure alternative, anche perché io credo che gli umori che ci sono nel Paese, non riguardano solo una data parte politica, sono abbastanza generalizzati all’interno di tutti e due gli schieramenti, così come è trasversale la richiesta di più carcere. Quindi ci piacerebbe che una discussione più ampia su questi temi coinvolgesse di più il Partito Democratico, perché i problemi della Giustizia e delle pene sono comunque fondamentali in un Paese, e poi oggi abbiamo visto che si vincono o si perdono le elezioni su questi temi, quindi mi pare che i tempi sarebbero maturi per un dibattito più ampio. Mi viene in mente che quando c’è stata a Roma l’aggressione di Giovanna Reggiani, anche il governo di centrosinistra è corso a fare dei provvedimenti di emergenza sui Rumeni. Ecco, questa tentazione dì misurare tutto sulle emergenze non fa vincere le elezioni alla sinistra, perché si pensa sempre che la destra le questioni della sicurezza le sappia risolvere meglio, quindi io credo che sarebbero maturi i tempi per una ridiscussione di questi temi. Noi invece continuiamo a sostenere che non esistono emergenze, esistono problemi, ma questo Paese va avanti sempre con le emergenze, che non affrontano alla radice nessun problema. Lanfranco Tenaglia: Il partito democratico è nato il 14 ottobre 2007, ha affrontato dopo tre mesi una campagna elettorale difficile, ed ha la necessità di formare il suo “DNA programmatico” con un confronto nel Paese, di questo siamo assolutamente consapevoli. Su questi temi abbiamo iniziato questo percorso con una Conferenza nazionale sulla Giustizia, che si è svolta il 21 novembre, nella quale abbiamo sottoposto a tutti gli operatori una piattaforma, che è quella che troverete nel sito del Partito Democratico nella sezione sul governo ombra. Quella occasione è stata l’inizio di questo percorso, che poi si concluderà con la Conferenza nazionale programmatica generale, non solo sulla Giustizia, ed è nostra intenzione approfondire in generale il tema della Giustizia in vari seminari di confronto, uno dei quali intendiamo dedicarlo al carcere, e contiamo di finire questo percorso per la primavera, quindi senza dubbio questo tavolo di confronto in quella occasione sarà molto utile averlo. Però siamo un partito giovane, ma soprattutto gracile, quindi speriamo di costruirci le ossa assieme a chi ha la volontà di discutere.
Elton Kalica: Oggi abbiamo fatto un primo incontro e abbiamo esposto alcuni problemi, e ci siamo in qualche modo presentati, ma quello che vorremmo è una continuità di questi incontri, un confronto più frequente sui temi che hanno a che fare con il carcere e la Giustizia. Lanfranco Tenaglia: Io penso che questo sia il nostro dovere, diciamo che non è una concessione a voi, è un dovere, per chi ha responsabilità come le mie, tenere questi incontri, quindi sicuramente se non sarò io vedremo di fare venire altri colleghi, anche su altre problematiche, non solo su quelle strettamente legate alla vostra condizione carceraria, ma se c’è necessità di approfondire altri argomenti, sarà mia cura, cura della mia segreteria favorire la presenza di colleghi esperti anche in altri settori.
Giustizia televisiva Quelli che si “indignano” e i bersagli della loro indignazione È da un po’ di tempo che abbiamo tutti “l’indignazione facile”, gli ultimi episodi di arresti domiciliari per uno stupratore italiano e poi per due rumeni, presunti complici del branco accusato dello stupro di Guidonia, hanno ulteriormente scatenato la voglia di farsi giustizia da soli
di Ornella Favero
C’è un caso di “cronaca nera” che vogliamo sempre ricordare perché la vita vi ha giocato uno strano scherzo: il padre di Erika, la ragazza di Novi Ligure che ha ucciso qualche anno fa la madre e il fratellino, alla sera era il padre delle vittime, con la moglie e il figlio ferocemente trucidati, presumibilmente da una banda di albanesi, e la mattina dopo si è svegliato che era anche il padre del “carnefice”, in questo caso la figlia Erika. Non mi ricordo se il giorno prima abbiano cercato di intervistarlo, ma immagino che, se lo avessero fatto, avrebbe forse detto che per i colpevoli di quell’orrore, anzi no, per le “bestie” colpevoli di quell’orrore solo la morte era una pena adeguata, ma poi i ruoli si sono capovolti, e lui si è trovato a difendere l’assassina, a chiedere per lei un’altra possibilità. Questa vicenda mi ha sempre fatto riflettere, e oggi forse è la chiave di lettura più significativa di questa realtà impazzita: noi siamo tutti bravissimi a metterci nei panni delle vittime, pensiamo sempre che potremmo essere noi le vittime, o potrebbero esserlo i nostri figli, nessuno che pensi che uno stupratore, per esempio quello di poco più di vent’anni, italianissimo, che alla sera di Capodanno si faceva intervistare da Italia uno, e poi ha violentato una ragazza alla Fiera di Roma, potrebbe essere suo figlio. Eppure in carcere di gente detenuta ne ho conosciuta tanta, e hanno tutti un padre e una madre “umani”, non sono bestie, e non sono nemmeno i peggiori dei genitori, sono genitori su cui è piombata addosso una montagna di dolore.
Ma chi siamo diventati? Un normale pomeriggio di “normale televisione”
Voglio allora raccontare un normale pomeriggio davanti alla televisione, perché mi pare che, se davvero vogliamo capire in che ambienti possono “nascere” i reati, e cosa fare per contrastarli, forse una riflessione dobbiamo farla sui modelli, gli stili di vita, i desideri degli italiani, così come ci vengono raccontati dalle trasmissioni televisive. Allora, su un canale va in onda una trasmissione, “Uomini e donne”, con sullo sfondo una scritta, “Federico e Jonatan sceglieranno la donna che potrà essere la compagna della loro vita”, cioè maschi bellocci che stanno su un trono e si fanno corteggiare da una serie di donne, che fra di loro si mangiano vive con espressioni eleganti del tipo “Ma che c. dici, cretina!”. E dovrebbero scegliere la “compagna della loro vita”, non quella con cui andare a ballare domani. Intanto su Internet scorrono i titoli “Grande Fratello: Vanessa provoca Marco con un massaggio erotico”, ma tutto è rimandato alla trasmissione di questa sera. Parte un’altra trasmissione, dove si mescolano pettegolezzi, Grande Fratello e “informazione”, e in mezzo si parla anche dello stupro di Guidonia, ospite ormai fissa in questi casi l’onorevole Santanché, la cui opinione è che colpevoli di tutto sono i magistrati “che tengono in carcere solo quelli che non la pensano come loro”. Alla conduttrice che dice che “la gente è molto arrabbiata”, risponde in collegamento Vittorio Feltri, direttore di Libero, che sostiene la ormai vecchia tesi che conviene uccidere la moglie piuttosto che divorziare, tanto uno in Italia “se la cava con due o tre anni di carcere”. Poi passa un TG, con la storia dei ragazzi italiani, dei quali uno di sedici anni, che hanno dato fuoco a un indiano alla stazione di Nettuno. E a fianco un’altra notizia, che forse un po’ ci dovrebbe inquietare: in Inghilterra stanno facendo la guerra ai nostri operai, colpevoli di essere italiani. La pubblicità interrompe con uno spot su una televisione a pagamento, che lancia la sua offerta speciale, che invita ad abbonarsi e come premio promette che “l’altra metà… la offriamo noi”, dove la merce in offerta è la maggiorata ospite del Grande Fratello che si sta facendo la doccia con esibizione di tette al silicone! Mi trasferisco alla RAI, e stanno annunciando che a Sanremo il servizio pubblico ci offre come ospiti speciali le 40 conigliette di playboy. Do un’occhiata a internet, e scorrono le ingiurie a Rita Bernardini, deputata radicale colpevole di essersi recata in carcere a verificare che i rumeni arrestati per lo stupro di Guidonia siano trattati civilmente, che forse oggi è impopolare come iniziativa, ma risponde a quella regola elementare per cui uno Stato non può usare nel punire gli stessi metodi delle persone che mette in galera, pena la perdita totale di credibilità e di autorità. Mi colpisce una donna, che scrive: “Non le auguro di subire la stessa sorte di “Laura” perché magari le farebbe anche piacere (una bella scopata con 4 rumeni focosi), ma di poter soffrire quello che sta soffrendo Laura. Saluti. Maria Maddalena”. Ho sempre pensato che le donne finiscono meno in carcere anche perché per lo più hanno davvero una avversione alla violenza, mi fa star male leggere parole così avvilenti da una donna.
La Giustizia in versione televisiva
Alla sera poi può capitare di guardare qualche trasmissione per cercare di capire che aria tira nell’informazione (?) televisiva di approfondimento. “Ho ucciso mia moglie”. Ma è fuori. Questa la scritta che campeggia sullo sfondo di un Porta a Porta dedicato ai temi della giustizia. E la trasmissione inizia con un collegamento con Denis Occhi, il presunto assassino della moglie, reo confesso dopo che già è stato assolto dai giudici. Due le tesi che, come al solito, sottendono ai servizi della trasmissione di Vespa, perché poi di questo mi pare si tratti, di “giornalismo a tesi”, dove quello che si vuol dimostrare è che: A) Nel nostro Paese la Giustizia è allo sfascio, non funziona niente e quello che funziona è un sistema permissivo che permette a un assassino di restare fuori dal carcere anche se confessa il suo reato; B) i giudici hanno assolto un assassino, dunque quei giudici hanno commesso un errore enorme e, naturalmente, non pagheranno per quell’errore. Come corollario alle due tesi, c’è un terzo risultato da conseguire: quello di far credere agli spettatori che neppure gli omicidi, nel nostro Paese, si pagano con la galera, e la scritta sullo sfondo a questo mira. Il collegamento però è imbarazzante, e Vespa pare infatti, e forse è, molto imbarazzato: l’uomo è palesemente in stato confusionale, probabilmente anche imbottito di farmaci, e in modo sconnesso spiega che non sa se l’ha ammazzata lui o no la moglie, ma che comunque vuole tornare in carcere perché fuori sta male, è abbandonato da tutti e forse invece in galera troverebbe aiuto. Ecco, lo “scandalo” dei giudici che assolvono gli omicidi e di un sistema che non li riprocessa forse non c’è, e bisogna allora “arrangiarsi come si può”, invece di chiedere scusa ai telespettatori, e forse anche ai giudici che hanno assolto Denis Occhi, perché probabilmente proprio elementi per condannarlo non ne avevano, tranne le tante confessioni-ritrattazioni di una persona palesemente priva di equilibrio mentale. Altra giostra, altro giro: Melchiorre Contena, vittima di un errore giudiziario. Anche Contena serve a sostenere due tesi: A) che i giudici fanno errori clamorosi, tengono in carcere gli innocenti, e poi lo Stato paga i risarcimenti; B) che comunque Contena aveva finito di scontare la pena, perché i trent’anni di galera a cui era stato condannato, tra sconti di pena, indulti, e altro si erano tramutati in 18 anni, anzi meno perché lui era già fuori. La trasmissione ha toccato tanti di quei “casi umani” che si fa fatica a ricordarli tutti: in due ore o poco più, il nostro giornalismo di “approfondimento” ha “approfondito”, oltre ai due casi già citati, il caso Delfino, con padre della ragazza ammazzata in collegamento, il caso Ludwig, cioè Abel e Furlan, “già fuori” nonostante i tanti omicidi, per il piccolo dettaglio che sono stati considerati seminfermi di mente. E lì allora c’è stata l’occasione di parlare di questo “regalo” che fanno i giudici, di dare la seminfermità o l’infermità mentale, naturalmente dimenticandosi di spiegare che la persona ritenuta inferma di mente viene mandata in un Ospedale psichiatrico giudiziario, magari per dieci anni che poi possono diventare una pena a vita, se uno viene ritenuto ogni volta, allo scadere dei termini, pericoloso. E ancora, il caso Uno Bianca, con madre di un carabiniere ucciso in studio. Non voglio dire molto su questo, ma al centro del servizio c’era Marino Occhipinti, e allora per spiegare la “serietà” dell’informazione dico solo che a Marino sono stati “attribuiti” i 24 omicidi della Uno bianca, mentre lui è stato condannato per un unico omicidio, che ha segnato anche la fine della sua partecipazione all’attività della banda. È una storia in ogni caso pesante, ma non è la storia presentata a Porta a Porta.
Responsabilità, parola fuori moda
Non sono una moralista e non credo che la televisione debba “educare”, mi domando solo che cosa ci aspettiamo, noi adulti, dai giovani, italiani o stranieri non importa, se questa è la minestra quotidiana che gli diamo da mangiare: una informazione spesso sgangherata, volgare, priva di qualsiasi senso di responsabilità. E un “intrattenimento” che è ancora peggio. È un po’ forse questo che ci ha spinto, cinque anni fa, a iniziare un progetto con le scuole: volevamo dare ai ragazzi una idea diversa della devianza, delle pene, del carcere. Volevamo insomma non che “cambiassero idea” su questi temi, ma che si facessero una loro idea sulla base di una conoscenza diretta di un mondo difficile come quello della galera. Perché in realtà, bombardati da una informazione che spinge all’irresponsabilità, quello che i giovani (e spesso anche i loro genitori) non sanno, per esempio, è che non è vero che nessuno nel nostro Paese sconta la pena in carcere, semmai il problema è quanto tempo dopo aver commesso il reato la sconterà. Ho visto persone entrare in carcere per una condanna definitiva a distanza di dieci-dodici-quindici anni dalla denuncia. Ma questo bisogna saperlo, altrimenti scatta nei cittadini un senso di impunità pericoloso, che fa davvero sottovalutare le conseguenze dei reati, e se chi fa informazione tace su questi meccanismi della giustizia, compie tante volte una vera, imperdonabile “istigazione a delinquere”. Non a caso, nelle scuole, più di una volta in questi anni ci è capitato di incontrare ragazzi che, di fronte alle nostre spiegazioni, dimostravano preoccupazione per aver commesso qualche illegalità senza mettere in conto che prima o poi si paga tutto. Ma ci interessava anche e soprattutto che i ragazzi capissero i percorsi che possono portare in galera. O che comunque possono far magari solo “sfiorare” l’illegalità. Quando un genitore ci ha obiettato che forse era meglio se la scuola gli studenti li portava a vedere una mostra invece che a visitare una galera, abbiamo provato a ragionarci su, perché in fondo avrebbe anche ragione, se… se il mondo fosse un po’ più semplice, se le nuove generazioni non avessero una serie di comportamenti che le pone oggettivamente a rischio di entrare in contatto con ambienti illegali. L’uso di sostanze, per esempio, per le quali spesso a scuola non si è assolutamente attrezzati a dare delle risposte serie. Certo, ci possono essere gli esperti, qualche scuola ogni tanto fa prevenzione con lezioni sulle diverse sostanze e sulla loro pericolosità, ed è importante, ma non è la stessa cosa che sentir raccontare un’esperienza come quella di Andrea, e della lenta distruzione della sua vita ad opera della droga che lo ha portato per un sacco di anni in carcere. Allora a quel genitore, e a chi ha i suoi stessi timori, diciamo che è meglio se i loro figli “il male” lo conoscono accompagnati per mano dalla scuola e invitati a ragionarci su, che non se ci sbattano la faccia contro da soli, come succede a tanti.
Ci “candidiamo” a parlare seriamente di prevenzione
Noi allora ci “candidiamo” a parlare seriamente di prevenzione, perché da anni la facciamo con le scuole, e poi continuamente, con minuziosa precisione, dopo ogni incontro con le classi discutiamo se siamo riusciti o meno a comunicare, se siamo stati abbastanza chiari, se siamo stati davvero onesti, se siamo riusciti ad arrivare al cuore, ma anche alla testa dei ragazzi. Ecco allora perché pensiamo di poter dire qualcosa di serio sulla prevenzione: perché siamo consapevoli di quanto è delicato questo lavoro, ai ragazzi spieghiamo che dietro ogni reato c’è una persona, ma sappiamo che c’è il rischio che poi i ragazzi stessi vedano solo la persona, le si affezionino, siano umanamente coinvolti dalla sua storia. E non va bene neppure così, perché certo di uomini si tratta, e non solo di reati, ma l’umanità di una persona non cancella la gravità del reato, e questo ci impone di non giocare a “conquistare la simpatia” dei ragazzi, ma di essere spietatamente chiari sulle responsabilità; perché le persone detenute hanno imparato a raccontare le loro esperienze, a metterle a disposizione dei ragazzi per far capire come sia facile a volte uscire dalla legalità, e come questo non succeda solo ai “predestinati”, a quelli che magari sono cresciuti in famiglie e ambienti con scarso rispetto delle leggi o hanno comunque fatto una scelta. All’inizio del progetto eravamo tutti concentrati a parlare di carcere, pensavamo che il senso del percorso che proponevamo fosse quello di far conoscere nelle scuole una realtà di cui nessuno parla, poi ci siamo accorti che forse la strada più interessante era un’altra, era quella di raccontare pezzi di vita, di far capire come e dove le vite a volte deragliano. E non è certo facile, in fondo è un atto di coraggio da parte delle persone detenute, una fatica enorme perché raccontare i disastri del proprio passato non piace a nessuno; perché abbiamo imparato l’importanza delle parole, e non le useremmo mai avventatamente. Mi viene in mente quando un detenuto ha detto di aver fatto una cosa “abbastanza grave”, e poi la cosa “abbastanza grave” era aver ucciso una persona. Quell’abbastanza è un avverbio di troppo, dettato dalla difficoltà di raccontare anche a se stessi la gravità delle proprie azioni, quindi le parole vanno scelte con cura, o meglio, vanno discusse, in modo che le persone detenute, ma anche i volontari imparino a vederne le conseguenze, il male che possono provocare, il rischio di diventare delle giustificazioni: parole che fanno soffrire, parole che mascherano o imbelliscono la realtà, parole che non comunicano emozioni; perché abbiamo capito che, in un mondo in cui tutti si sentono possibili vittime, la lezione più vera la possono dare le persone che hanno subito realmente dei reati, e che però non vogliono farsi strumento di odio. Per questo abbiamo ragionato sul rapporto tra autori e vittime di reato, e abbiamo cercato di dare un’importanza e un ruolo nuovo alle vittime proprio in questo lavoro di prevenzione, che è un po’ quello che Benedetta Tobagi, figlia del giornalista ucciso dalle Brigate Rosse, ha chiamato “rompere la catena dell’odio”; perché la responsabilità rispetto al reato significa anche saper riflettere collettivamente sulle proprie scelte sbagliate e spiegare la devastazione che produce farsi giustizia da sé, in un momento in cui invece tanta informazione sembra “scherzare” con temi così drammatici, come quel quotidiano che ha chiesto ai suoi lettori “È giusto che chi ha subito uno stupro si faccia giustizia da sé?”, raccogliendo il 76 per cento di risposte di persone favorevoli. Che forse avrebbero bisogno di sentir narrare, come fanno tanti detenuti negli incontri con le scuole, che cosa significa vivere per la vendetta, e quante vite escono distrutte da questa follia. Ecco perché pensiamo di avere qualcosa da dire nell’ambito della prevenzione.
Ma i magistrati di Sorveglianza non possono “difendere” la Gozzini? Voci troppo flebili in difesa di leggi come la Gozzini È una legge importante, io credo di poterlo dire anche se l’ho capito tardi: ho fatto un uso dissennato dell’opportunità che mi è stata data in materia di reinserimento, e con il senno del poi ho visto quanta disgregazione ho creato alla collettività, alla mia famiglia, e per ultimo a me stesso
di Maurizio Bertani
Noi viviamo in una società in cui le regole sono poco rispettate non solo da chi come noi poi finisce in carcere, ma anche dai cittadini “regolari”, una società in cui la sicurezza nelle nostre strade, a sentire le notizie dei giornali e telegiornali, non esiste, e la popolazione viene spinta, da politici e mass media, alla continua ricerca della pena sempre più punitiva, nei confronti di chi commette reati. È una società in cui non c’è molto rispetto delle sentenze di un giudice, se non dell’unica sentenza che accontenta tutti, “Ergastolo”, le altre vengono spesso aspramente criticate: troppo lassiste, troppo permissive, troppo buoniste. E l’aria che tira nella società non può non influenzare drammaticamente le decisioni dei magistrati giudicanti Eppure ci vantiamo di essere stati promotori al palazzo di vetro delle Nazioni Unite della proposta di moratoria per la pena di morte, eppure all’interno della nostra Costituzione abbiamo l’articolo 27, che dice: “La responsabilità penale è personale. L’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva. Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato. Non è ammessa la pena di morte”. Allora questo articolo 27, lo vogliamo annullare? O lo dobbiamo ritenere ancora un caposaldo della nostra Costituzione? E poi, è ancora così corretto dire che è inammissibile la pena di morte? Oppure, la morte morale e la morte psicologica sono davvero meno dannose della morte fisica? Qualche volta, vedendo per televisione quello che la gente fuori vuole per chi commette reati, mi viene da dire: togliamoci le bende dagli occhi e applichiamola, questa pena di morte fisica, e applichiamola a tutti i reati, eviteremo un sacco di spese, e il sovraffollamento delle carceri, e gli eventuali futuri indulti che gettano 20.000 persone sulle strade, con un sacchetto dell’immondizia con dentro due stracci e nessuna prospettiva per il futuro. I magistrati di Sorveglianza, che si occupano dell’esecuzione delle pene, nonché del rispetto dei diritti dei detenuti, sono i primi responsabili dell’applicazione della “famigerata” legge Gozzini, quella legge che permette il recupero del detenuto nel tessuto sociale, tramite un graduale, e controllato percorso di reinserimento che passa attraverso i benefici di legge, come permessi premio, semilibertà, affidamento, in conformità al dettato costituzionale dell’articolo 27. Sempre che lo vogliamo mantenere, quell’articolo! Quindi questa è la responsabilità del magistrato di Sorveglianza: favorire la collettività, creando più sicurezza. Basti pensare ad un dato inconfutabile, del Ministero della Giustizia, che non ci stancheremo mai di ripetere: i detenuti che scontano per intero la propria condanna, tornano a recidivare negli anni successivi alla fine della pena all’incirca per il 69 per cento, i detenuti che vengono avviati ad un percorso di recupero, attraverso un graduale reinserimento, tornano a recidivare per il 19 per cento. Certo, il magistrato di Sorveglianza ha questa grossa responsabilità, deve fare una prognosi sul futuro di una persona, e di persone come noi poi, cosa decisamente complessa, e nonostante questo il risultato degli ultimi anni (la riforma penitenziaria è in vigore dal 1975) è che il margine di errore è stato tra lo 0,2 e lo 0,4 per cento, che è la percentuale di detenuti che hanno fatto di questa legge un’opportunità per tornare a delinquere, quindi il 99,6 per cento ha portato a termine regolarmente il suo percorso reinseritivo.
Le misure alternative sono state pensate per creare più sicurezza per la collettività
Io sinceramente non so se vi sia un’altra attività che possa vantare un così basso margine di errore, eppure i magistrati di Sorveglianza vengono sistematicamente attaccati e criticati da tutti. Dai detenuti, perché a loro dire applicano troppo poco le misure alternative. Dai cittadini, perché a loro dire concedono troppo. Dai politici, che sempre più spesso portano avanti delle politiche giustizialiste. Si possono capire i primi (i detenuti), si possono capire i secondi (i cittadini), più complicato è capire i politici, ma stando qui dentro mi pare di capire che i politici a volte nascondono dietro la questione sicurezza altri problemi sociali: il problema delle famiglie che faticano ad arrivare alla fine del mese; il problema degli studenti, a cui tagliano i fondi per la scuola, senza pensare che attraverso la scuola si prepara la società di domani; il problema della mancanza di politiche di integrazione, per cui poi si fomenta con gran facilità l’insicurezza e l’odio tra poveri. Ora voglio dire una cosa che sicuramente non mi renderà popolare: io da detenuto appartengo a quella categoria dello 0,4 per cento, che ha fatto un uso dissennato dell’opportunità che gli è stata data in materia di reinserimento, attraverso i benefici previsti dalla legge Gozzini, e quindi sono da collocare tra quelli che sono tornati a recidivare, e me ne assumo tutte le mie responsabilità, e con il senno del poi capisco quanta disgregazione ho creato alla collettività, alla mia famiglia, e per ultimo a me stesso. E mi rendo conto che su di me un magistrato di Sorveglianza può anche non pensarci due volte, e nemmeno una, per dirmi di no in una eventuale richiesta di futuri benefici, e di questo devo ritenere responsabile solo me stesso, e non certo il magistrato di Sorveglianza. Perché dico questo? Perché ritengo che ognuno dovrebbe nel proprio ambito assumersi le proprie responsabilità, quindi mi piacerebbe che anche i magistrati di Sorveglianza facessero sentire la loro voce, in merito a queste problematiche, e proprio in virtù della loro funzione istituzionale. E forse questo potrebbero spiegare alla collettività i magistrati di Sorveglianza, che le pene, anche se altissime, sono destinate a finire, e visti i risultati in termini di recidiva di chi si fa tutta la pena in carcere, per il bene della collettività è molto più opportuno reinserire il detenuto gradualmente, tanto più che le misure alternative non vogliono assolutamente dire che un detenuto ha finito ed è libero, tutt’altro, a volte le misure alternative diventano difficoltose e pesanti quasi quanto la detenzione stessa. E in ogni caso non è per un “buonismo” verso il detenuto, ma proprio per creare più sicurezza per la collettività che sono state pensate. Qualcuno che ci crede lo spiega, anche se non con abbastanza forza e forse non nei luoghi opportuni, ma troppo poche voci si sentono, a difesa di leggi come la Gozzini, voci molto flebili come a non voler disturbare. Qualche volta mi chiedo: cosa vuol dire questo? Che la maggioranza dei magistrati di Sorveglianza non crede in quello che fa o non può proprio difendere questa legge? Mi verrebbe allora da dire che forse vale la pena provare a valutare seriamente l’inserimento nel nostro Codice penale della pena di morte, perché la ritengo in qualche modo meno distruttiva della morte psicologica e morale di una detenzione in condizioni di sovraffollamento e assenza di qualsiasi opportunità di reinserimento, e sicuramente meno dispendiosa, e in fondo è l’unica misura che evita quell’impatto, a volte devastante, di un detenuto che rientra nella società con nessuna prospettiva futura.
Governare a colpi di pacchetti sicurezza Tanta galera per tutti I pacchetti sicurezza che nascono dalle emergenze creano solo soluzioni “emergenziali”, cioè “non soluzioni”, e di tutto si occupano fuorché di prevenzione
di Marino Occhipinti
Il nuovo pacchetto sicurezza, composto dai 54 articoli recentemente approvati al Senato e in attesa del vaglio della Camera, contiene molte novità. Innanzitutto i nuovi reati: l’oltraggio a pubblico ufficiale, che prevede fino a tre anni di carcere, e il fatto di agevolare la comunicazione con altre persone di detenuti sottoposti al 41-bis, il cosiddetto carcere duro, con pene che in questo caso vanno dai due ai cinque anni qualora il reato sia commesso da pubblici ufficiali o da avvocati (l’inasprimento del carcere duro prevede anche un limite quantitativo dei colloqui tra detenuto e avvocato, norma che ha suscitato le accese proteste dei penalisti, che lamentano una violazione del diritto di difesa e una criminalizzazione della categoria degli avvocati). Ma tra i nuovi reati figura anche quello di immigrazione clandestina, un problema sociale talmente complicato che non si può certamente riassumere in poche righe: basti dire che per lo straniero irregolare si prevede un’ammenda da 5 a 10mila euro, ma chi viene espulso e rientra in Italia rischia fino a 5 anni di prigione, con obbligatorietà dell’arresto e processo con rito direttissimo. Non è di poco conto, e la precisazione è opportuna, il fatto che anche la sola ammenda rappresenti una vera e propria condanna penale, quindi deve essere inflitta da un giudice in sede di processo e vale come precedente penale a tutti gli effetti, quindi anche come recidiva in caso di commissione di altri reati. Se è vero che in Italia sono presenti circa un milione di clandestini, e che la maggioranza rischierà quindi di finire sotto processo con tanto di udienze, e di giudici, cancellieri e avvocati ogni giorno impegnati con questo genere di “reati”, bisognerebbe quantomeno domandarsi: A) se non si rischi davvero una completa paralisi della macchina della giustizia, e a rimetterci saranno soprattutto i cittadini onesti che già adesso aspettano anni per ottenere una sentenza; B) se il gioco varrà la candela, perché a fronte delle ingentissime spese di giustizia, per di più in un momento di grave crisi economica, saranno ben pochi i clandestini che avranno la possibilità di pagare l’ammenda, a meno che, per provvedervi, non li si lasci liberi di commettere qualche reato; C) nella fattispecie ancora più grave della norma, e cioè l’arresto con condanna fino a cinque anni per chi, già espulso, rientra in Italia, il mistero sta nel luogo dove le innumerevoli persone arrestate dovranno scontare la loro pena, fermo restando che l’aumento medio dei detenuti è di 800-1000 al mese e che il sovraffollamento carcerario è già alla soglia del limite tollerabile. Il disegno di legge prevede poi un inasprimento delle pene per i reati di cosiddetto allarme sociale: specifiche aggravanti per i reati di truffa, furto e rapina, qualora vengano “commessi all’interno di mezzi di pubblico trasporto”, oppure “nei confronti di persona che si trovi nell’atto di fruire ovvero che abbia appena fruito dei servizi di istituti di credito, uffici postali o sportelli automatici adibiti al prelievo di denaro”, ma anche il divieto di concedere gli arresti domiciliari e i benefici penitenziari agli autori di stupro. Quest’ultima norma è stata inserita in virtù di un emendamento presentato proprio il pomeriggio in cui il pacchetto sicurezza è stato approvato in Senato, e proprio negli stessi giorni in cui tutti gli organi di informazione parlavano fino allo sfinimento dello stupro di Capodanno e di quello di Guidonia. Non è mia intenzione disquisire su quanto sia giusto o meno tenere in carcere gli stupratori – e se tenerli fino all’ultimo giorno “per legge”, togliendo cioè al giudice di merito prima, e a quello dell’esecuzione poi, ogni margine di valutazione che comunque dovrebbe essere preservato per il solo fatto che ogni reato è una storia a sé – ma mai come in questo caso, come oramai purtroppo avviene fin troppo spesso, si è legiferato sull’onda della spinta emotiva, mentre sarebbe buona regola, soprattutto quando si tratta di materie che toccano la sensibilità dell’opinione pubblica, intervenire senza lasciarsi trascinare dall’emozione o da eventi contingenti.
Le solite polemiche contro i giudici “buonisti e lassisti”
E allora voglio ricordare cosa successe pochi giorni dopo la strage di Castelvolturno, in Campania, dove nel mese di settembre furono uccisi sei extracomunitari. Dopo l’arresto di uno dei presunti responsabili di quella mattanza (lasciamo stare se almeno nei primi giorni il termine “presunto” fu quasi sempre dimenticato), che godeva degli arresti domiciliari nell’ambito di un procedimento per stupefacenti, uno dei partiti di maggioranza, compresi alcuni ministri, propose allora gli stessi identici provvedimenti che stavolta sono stati approvati nei confronti degli stupratori: niente più possibilità di concessione degli arresti domiciliari, niente più benefici penitenziari. Ironia della sorte, a distanza di pochissimi giorni il presunto “stragista” venne completamente scagionato dalle dichiarazioni di un pentito che agli omicidi aveva partecipato per davvero, il sicuro riconoscimento dell’unico superstite perse ogni certezza e le infuocate polemiche della politica contro i giudici, ritenuti troppo “buonisti” e lassisti con chi delinque, si sciolsero, almeno in quel caso, come neve al sole. Proprio in questi giorni ho letto che l’ex sindaco leghista di Rovato, noto per le sue accese battaglie contro clandestinità e prostituzione, è stato condannato a 6 anni per stupro. Il sindaco, che sui giornali ci finiva per le sue attività istituzionali, nel 2000 venne “riconosciuto” dalla sua vittima, una lucciola romena, che dopo averlo visto su un quotidiano – e l’articolo parlava proprio di un giro di vite contro la prostituzione – lo indicò come il suo stupratore. L’ex sindaco, il cui avvocato assicura che l’unico elemento di condanna è rappresentato proprio da quel riconoscimento, continua tuttora a protestare veementemente la sua innocenza, e ricorda che all’epoca del riconoscimento da parte della prostituta la sua faccia era su tutti i muri in quanto candidato alle elezioni europee, ma poco conta tutto questo: se all’ultimo grado di giudizio verrà riconosciuto colpevole, dovrà farsi fino all’ultimo giorno di carcere, e a nulla serviranno il percorso di rieducazione, i dieci o quindici anni trascorsi dal reato, quando oramai una persona non è più la stessa, né tanto meno gli eventuali dubbi che può suscitare questa storia rispetto ad un’altra: a contare sarà solo il titolo di reato per il quale quella persona è stata condannata. Non so se l’ex sindaco di Rovato sia colpevole o innocente, ma se fosse stato accusato con le nuove norme sugli stupri avrebbe dovuto aspettare il processo in carcere, col “rischio” di essere poi scagionato e finire nella statistica del 50 per cento dei detenuti in attesa di giudizio che vengono riconosciuti innocenti durante i tre gradi di giudizio. Sia ben chiaro però che non voglio difendere gli stupratori, ma soltanto una elementare norma e un principio giuridico – la discrezionalità dei magistrati appunto – che ogni volta che viene stravolto comprime sempre più i diritti dei cittadini. Ma il disegno di legge sulla sicurezza, molto articolato, coinvolge pure i senza fissa dimora. Che, anche se non si comprende bene quale sia lo scopo, entro sei mesi dall’entrata in vigore della legge dovranno essere censiti, identificati e registrati in un apposito registro che verrà istituito presso il Ministero dell’Interno. In occasione di un’intervista telefonica, il sindaco di una grande metropoli, al quale si chiedeva conto di quali provvedimenti prendere dopo un recente stupro avvenuto nella sua città, ha dichiarato che è necessario raggruppare le persone senza fissa dimora in un ridotto numero di campi attrezzati ed adeguatamente sorvegliati. Forse bisognerebbe spiegare, a questo sindaco, che tra i senza fissa dimora ci sono anche persone che, per un motivo o per un altro, per un tracollo finanziario o per una separazione che assegna l’abitazione alla ex moglie, hanno perso la casa, non hanno mezzi di sostentamento e si arrangiano alla meglio, magari finendo sotto un ponte o in qualche treno abbandonato.
La crisi economica porterà un’emergenza criminale
La “schedatura” spesso rappresenta già una criminalizzazione. Qualche sera fa, negli studi di una trasmissione televisiva c’era un biologo che dopo alcuni problemi di salute e altre vicissitudini aveva perso tutto, casa compresa, ed era finito in un dormitorio pubblico. Una volta approvato il nuovo pacchetto sicurezza, quest’uomo, che non è sicuramente un delinquente e che tra i clochard non c’è certamente finito per una scelta di vita, ma solo per sfortuna, dovrà essere schedato dalle forze dell’ordine. Insomma, oltre al danno anche la beffa. Le nuove norme, infine, danno il via libera alle ronde dei cittadini, tanto care ad alcuni sindaci forse entusiasti di manovrarle anche per un tornaconto elettorale, contro le quali si è però schierata perfino l’associazione nazionale dei funzionari di polizia, che ha dichiarato che “saranno un boomerang per la sicurezza”. Intanto, alla crisi economica si affianca prepotente la “crisi criminogena”: gli esperti sono convinti che l’aumento dei reati predatori, e cioè furti e rapine, è fortemente legato alla disoccupazione. Il questore di Treviso Damiano ha delineato il quadro: “In quattro mesi hanno perso il lavoro 2.500 persone, metà delle quali straniere. Mi pare evidente che gente senza lavoro, per mangiare, si deve arrangiare in qualche modo”. Anche in Gran Bretagna, dove gli ammortizzatori sociali non sempre sono adeguati, i reati di strada stanno aumentando, e uno studio dei professori Riccardo Marselli e Marco Vannini stabilisce che l’aumento di un punto del tasso di disoccupazione provoca 118 furti, 12 rapine e 0,2 omicidi in più ogni 100 mila abitanti. La loro analisi calcola anche il costo su scala nazionale per questi crimini da impoverimento: un miliardo di euro l’anno. E siccome si prevede un aumento della disoccupazione di due punti, le prospettive sono da vera emergenza: criminale, ma anche e soprattutto sociale. Ronde, militari nelle città, schedature che richiamano alla memoria vecchie “liste” che si sperava oramai sepolte, nuovi reati e leggi sempre più repressive, tanta galera per tutti e anche qualche slogan inneggiante alla sicurezza, e l’Italia sprofonda sempre più verso l’odio e l’intolleranza. Se davvero qualcuno pensa che il pacchetto sicurezza approvato in Senato risolverà o allevierà il problema della criminalità è un illuso, e credere che rendere la vita più difficile ai clandestini possa risolvere il problema dell’immigrazione è un’ingenuità, per il semplice fatto, ed è sempre stato così, che le persone vanno dove c’è o dove si pensa che ci siano benessere e ricchezza. Insomma, colpire ancora una volta la povertà o le categorie sociali più esposte non è la soluzione, eppure continuiamo a vedere lo Stato con una mano generosa nella distribuzione di cospicui aiuti economici ad aziende “disastrate” da manager incapaci, che vengono poi “premiati” con succose ricompense (vedi Alitalia e Ferrovie dello Stato), mentre l’altra mano è sempre più pesante e intollerante nei confronti di scippatori tossici, contro le donne Rom o i ragazzini autori di un furto, o magari nei confronti della violenza giovanile. Reati che tornano Oltraggio a pubblico ufficiale Ci sono cittadini più “speciali” degli altri, più tutelati davanti alla legge e meno vicini a noi comuni mortali
di Daniele Barosco
Il Senato della Repubblica sta discutendo un Disegno di Legge recante nuove disposizioni in materia di sicurezza pubblica, che reintroduce, tra l’altro, con il nuovo articolo 341 bis del Codice penale il reato di oltraggio a pubblico ufficiale, abrogato dall’articolo 18 della legge 25 giugno 1999, n. 205. Il nuovo testo è il seguente: “Chiunque, in luogo pubblico o aperto al pubblico e in presenza di più persone, offende l’onore ed il prestigio di un pubblico ufficiale mentre compie un atto d’ufficio ed a causa o nell’esercizio delle sue funzioni, è punito con la reclusione fino a tre anni. La pena è aumentata se l’offesa consiste nell’attribuzione di un fatto determinato. Se la verità del fatto è provata o se per esso l’ufficiale a cui il fatto è attribuito è condannato dopo l’attribuzione del fatto medesimo, l’autore dell’imputazione non è punibile”. In primo luogo io credo che se ogni cittadino è uguale davanti alla legge, anche la sua onorabilità e il suo prestigio sono o dovrebbero essere ugualmente tutelati. Ma tutelati non tanto con pene o sanzioni o paure agitate come clave, e neppure stabilendo che particolari categorie di cittadini, fra cui il pubblico ufficiale, siano più tutelate di altre, quanto con l’educazione civica, con la partecipazione democratica dei cittadini, con la prevenzione dei comportamenti violenti e irrispettosi, così diffusi oggi proprio a partire dal mondo dell’informazione e della politica. Dopo il “Lodo Alfano” che tutela le quattro più alte cariche dello Stato, cioè quattro persone che sono più uguali degli altri davanti alla legge, ora si vuole reintrodurre un’altra categoria di persone più uguali davanti alla legge, proprio quella legge che dovrebbero far rispettare ma che le pone in una posizione di potere e di credibilità superiore alla nostra. A me pare che non sia per niente giusto e l’abrogazione di questa fattispecie di reato nel 1999 era un segno di civiltà e di rispetto dei principi fondanti della nostra Costituzione, fra cui quello della perfetta uguaglianza fra tutti i cittadini, articolo 3 primo comma: ”Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”. Quando si parla di condizioni “personali” o “sociali” io penso anche a quelle relative alla professione scelta, al lavoro svolto da ognuno, visto che la nostra è una repubblica fondata sul lavoro ma non esclusivamente su quello svolto dai pubblici ufficiali. Questa scelta di considerare in modo diverso un cittadino con i suoi diritti e doveri da un altro cittadino non è un buon segno di democrazia. È il segno di uno Stato che rende più forti i diritti di alcuni e di conseguenza limita quelli di tutti gli altri. Un’offesa pronunciata da un automobilista ubriaco può costare fino a tre anni di carcere! Una multa per un parcheggio prolungato oltre il limite di sosta consentito può sfociare in un alterco con un vigile urbano che ti denuncia per oltraggio a pubblico ufficiale, e tu cittadino comune diventi imputato, e se verrai condannato in via definitiva sarai né più e né meno un pregiudicato come me, come altri delinquenti comuni, sarai uno di noi.
La giustizia è già lentissima, questo reato contribuirà a portarla alla paralisi
Ma le conseguenze possono essere anche altre: sarà più difficile ottenere un posto di lavoro nella pubblica amministrazione. Sarai segnalato ai terminali della polizia a vita. Sarai quindi una persona con minori diritti reali solo perché hai offeso l’onore e il prestigio di un pubblico ufficiale. E se qualcuno offende il tuo onore o prestigio? Tutti se ne fregano. Quindi vali se indossi le vesti di un pubblico ufficiale, non “vali” se indossi le vesti di un metalmeccanico, di un cuoco, di un panettiere, di un idraulico… Noi qui in carcere sappiamo cosa comporta la reintroduzione di un reato così ambiguo e subdolo. Stiamo espiando una pena e la accettiamo, ma il rischio concreto che nascano nuovi reati che la allungano solo perché hai pronunciato in un momento di rabbia, di sconforto, di dolore una offesa all’onore o al prestigio di un’altra persona non mi sembra giusto. In carcere tanti hanno problemi psichici, problemi di droga, di alcolismo, di emarginazione sociale, e questo reato li toccherà quasi certamente, in quanto l’ambiente e il contatto giornaliero tra detenuti e agenti esasperano in certi casi gli animi, in particolare delle persone già provate e psicologicamente fragili. La punizione non sarà il semplice, ma già pesante rapporto disciplinare, che sfocia in sanzioni e mancate concessioni della liberazione anticipata, no ci saranno migliaia di altri procedimenti penali e migliaia di processi dentro e fuori dal carcere, in cui saranno impegnati avvocati e giudici pagati dai cittadini, dallo Stato, da tutti voi. La giustizia è già lentissima, questo reato contribuirà sicuramente all’intasamento di un sistema già collassato. Se ora le sentenze di condanna definitiva arrivano dopo dieci o quindici anni, le prossime, se si continua a prevedere nuove fattispecie di reato, ci arriveranno con tempi ancora più dilatati, e questo vale per noi detenuti, ma anche per voi cittadini onesti e rispettosi delle leggi.
Nel 2008 morti suicidi 48 detenuti
Nelle carceri italiane nel 2008 sono morti “almeno” 121 detenuti, dei quali “almeno” 48 per suicidio (alcuni casi sono dubbi e si attende l’esito delle indagini). Dal 1990 ad oggi si sono tolti la vita 957 detenuti e prevedibilmente nel 2009 verrà raggiunta la quota di 1.000 suicidi in carcere, nell’arco di 20 anni. È questa l’amara constatazione del nostro dossier “Morire di carcere”. Nel 2007 i suicidi tra i detenuti erano stati 45: quest’anno si sono verificati 3 casi in più, anche se per effetto della crescita della popolazione detenuta il tasso di suicidi su 10.000 detenuti è diminuito da 10,37 a 9,38. Il tasso di suicidio nella popolazione italiana è dello 0,51 ogni 10.000 abitanti, quindi in carcere i suicidi avvengono con una frequenza circa 21 volte superiore. Particolarmente “a rischio” risulta essere la condizione di isolamento e nel 2008 un terzo dei suicidi è stato messo in atto da detenuti che si trovavano soli in cella: 16 erano “isolati” e 3 di loro assegnati al regime di 41-bis. I “casi” raccolti dal Dossier non rappresentano la totalità delle morti che avvengono all’interno dei penitenziari, ma solo quelli che è possibile ricostruire, in base alle notizie dei giornali, delle agenzie di stampa, dei siti internet, delle lettere che ci scrivono i volontari o i parenti dei detenuti morti.
Elaborazione del Centro studi di Ristretti Orizzonti
Più galera, meno reinserimento Evviva! Ho sentito che mi danno una cella nuova Il reinserimento dei detenuti si farà facendoli stare più comodi magari “reinseriti” in una cella nuova, ma in galera!
di Maurizio Bertani
Avviso per tutti i detenuti: “Rallegratevi ragazzi il sovraffollamento sta finendo”, le ultime notizie che ci arrivano da parte dei nostri politici sono che ci costruiscono 200 nuove carceri, per un totale di 20.000 monolocali. Pare che il concetto di costruire nuove carceri trovi la sua motivazione nella ricerca di uniformarsi agli standard europei, come è evidente dalle affermazioni del Capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, Franco Ionta, nell’intervento ad un convegno sui diritti umani tenutosi a Roma nel novembre scorso, e che qui riportiamo: “Io credo che nell’ambiente penitenziario, nel mondo penitenziario, bisogna cominciare a pensare così come in altri ambienti, non più in termini emergenziali, ma in termini fisiologici. E i numeri di altri paesi in qualche modo omologhi al nostro ci dicono che 60.000, 70.000 persone detenute rappresentano una fisiologia purtroppo del sistema complessivo”. Considerato che il nostro “parco brande” attuale è di circa 47.000 posti, e tenendo presente che vogliamo uniformarci agli altri Stati europei, ci sembra corretta la decisione di costruire nuove carceri. Bisognerà poi tener conto dell’assunzione di un numero di agenti di polizia penitenziaria adeguato e, se consideriamo che allo stato attuale il numero accettabile di detenuti è di circa 47.000 unità, con circa 45.000 agenti, se si sposta il “fattore fisiologico” a 70.000 detenuti, dovremmo spostare anche il “fattore fisiologico” degli agenti di polizia penitenziaria a 65.000. Noi sappiamo anche che, a parte qualche eccezione di carceri che si trovano a norma, così come previsto dal nuovo regolamento penitenziario del 2000, degli attuali 206 istituti penitenziari, la stragrande maggioranza degli istituti deve essere ristrutturata per uniformarsi sia al nuovo regolamento che alle direttive europee. I soldi per le spese? Sembrerebbe che prendano 150 milioni nella Cassa delle Ammende: quindi, se per legge questi soldi dovrebbero servire per il reinserimento dei detenuti, come reinserimento non è male: la beffa del “reinserimento” in una cella nuova! Ma tant’è che fisiologicamente servono 70.000 posti branda, perché altrimenti proprio non sappiamo dove mettere quella massa di persone che vogliono portare in carcere. Eh sì, perché si sono fatte leggi per colpire la clandestinità, si sta introducendo di fatto l’omicidio volontario anche nei confronti di chi guida in stato di ebbrezza o sotto effetto di sostanze stupefacenti, si è ripristinato il reato di oltraggio a pubblico ufficiale, si è tolta in buona parte la discrezionalità al giudice di lasciare una persona denunciata per stupro agli arresti domiciliari o a piede libero in attesa del processo, si sono introdotte nuove aggravanti per il furto, e altre nuove aggravanti per le rapine, quindi carcere e ancora carcere Mi chiedo: saranno sufficienti 70.000 posti branda nei termini fisiologici di cui ci parla il dottor Ionta? Oggi siamo quasi 60.000 detenuti nelle carceri italiane, non so a che cifre arriveremo nell’arco di un anno con il ritmo che sicuramente aumenterà, per quanto riguarda gli arresti, per tutti, ma soprattutto per gli stranieri, proprio in considerazione del pacchetto sicurezza e delle misure previste sull’immigrazione clandestina. Tutto questo per dare più sicurezza alla nostra società. Se fosse vero, pur essendo detenuto, lo capirei e sarei anche disponibile ad accettarlo, con buona pace di chi dice che i detenuti non si assumono le loro responsabilità. Ma purtroppo non è così, non si crea sicurezza costruendo più carceri ed inasprendo continuamente le pene, chiedetelo a qualsiasi esperto in materia.
Niente reinserimento, ma una pena scontata un po’ più comodamente
La sicurezza si produce attraverso una forte azione di prevenzione, con delle politiche serie di integrazione per quanto riguarda gli stranieri, con politiche sociali per l’intera collettività, ma quello su cui io posso senz’altro dire la mia è che servono delle politiche altrettanto serie per quanto riguarda il reinserimento della popolazione detenuta. Per quest’ultima fascia della popolazione esistono buone leggi che prevedono un graduale accompagnamento in un percorso di reinserimento nella società, che è l’Ordinamento penitenziario del 1975 e la legge Gozzini che nel 1986 vi ha apportato alcune modifiche. I dati che dicono quanto sia utile un percorso graduale di reinserimento delle persone attraverso i benefici penitenziari rispetto a una carcerazione fatta tutta in galera senza le misure alternative sono ben noti al Ministero della Giustizia e al Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, eppure si usano i soldi per costruire nuove carceri, e non per un serio programma di reinserimento del detenuto. Come dire che il desiderio di uniformarsi agli altri Paesi europei riguarda solo il numero dei detenuti. La paura è che sia solo un modo di cercare consensi forzando la percezione di una emergenza, che tale non è, mentre si tratterebbe di un problema da risolvere, quello sì. Rimane il fatto che si usano soldi che dovrebbero di logica essere investiti in un piano serio per il reinserimento dei detenuti, che invece purtroppo non si fa, se non facendoli stare più comodi, ma in galera, alla faccia della sicurezza della collettività! Il risultato sarà di fatto di aumentare esponenzialmente la popolazione detenuta, che tornerà a delinquere e di conseguenza a recidivare dopo aver scontato un po’ più comodamente la propria pena. La matematica non è una opinione. Dei 70.000 detenuti che si faranno presumibilmente tutta o quasi la pena inflitta in galera, visto che si investe sempre meno sul reinserimento, tornerà a delinquere sulle strade della nostra penisola, così dicono le statistiche, circa il 70 per cento cioè 49.000, mentre accompagnando un numero come quello attuale, 59.000 detenuti, in un percorso di reinserimento graduale, potrebbe tornare a delinquere intorno al 19 per cento, sempre se ci si riferisce alle ricerche in materia. Non sono mai stato bravo in matematica, per cui provateci voi a verificare questi calcoli e a vedere se questi nostri governanti stanno o non stanno facendo un buon lavoro, se stanno o non stanno creando più sicurezza.
In Italia 59.419 detenuti e 39.156 agenti
Al 13 febbraio 2009 sono 59.419 i detenuti presenti (56.822 uomini e 2.597 donne), a fronte di 39.156 agenti in forza ai vari penitenziari (35.994 uomini e 3.162 donne). Il maggior numero di detenuti si registra in Lombardia (8.086), seguita da Campania (7.332), Sicilia (7.120), Lazio (5.458), Piemonte (4.600), Emilia Romagna (4.262), Toscana (3.892) e Puglia (3.718). La capienza regolamentare totale è nel nostro Paese di 43.102 posti, quella tollerabile ne prevede 63.557. Dunque, fermo restando questo trend si arriverà presto a un altro “tutto esaurito”. Quanto al personale di polizia penitenziaria in servizio negli istituti, il saldo negativo tra agenti in forza e organico previsto è di 5.539 agenti. Infine, il raffronto con gli altri Paesi europei. Il maggior numero di detenuti si registra in Polonia (88.647), Germania (79.146), Inghilterra e Galles (dato complessivo di 77.982), Spagna (64.120) e in Francia (57.876). Incredibili i dati di Russia (874.846 detenuti) e Ucraina (165.408).
Elaborazione del Centro studi di Ristretti Orizzonti Cassa delle Ammende addio? Edilizia carceraria con i fondi per il reinserimento… ma dove si vuole arrivare? Che ne sarà allora dei percorsi per “accompagnare e sostenere” i detenuti che prima o poi dal carcere devono pur uscire?
di Marco Libietti
Il fatto: nell’ultimo pacchetto sicurezza sul fronte carcere e detenzione è stato stabilito che, per finanziare l’edilizia carceraria, vengano utilizzati i fondi della Cassa delle Ammende, destinati invero a sostenere i percorsi di reinserimento dei detenuti nella società e le famiglie delle persone detenute (naturalmente hanno detto che sono ben “accetti” anche finanziamenti da privati, ma questa è un’altra questione che, in verità, sa tanto di una apertura verso una più o meno velata privatizzazione…). La questione dei fondi è un problema tutt’altro che marginale, ed ecco perché vorremmo cercare di analizzare questa scelta, secondo noi dannosissima, per i detenuti da subito, per la società nell’immediato futuro, ma anche il pensiero che ne sta alla base e il disegno politico di gestione della sicurezza per il domani che se ne ricava… Vediamo di ricostruire in sintesi come si è arrivati a questa decisione… si parte dalla campagna politica delle ultime elezioni che ha incentrato tutto sul tema della sicurezza, sulla “mancanza” di certezza della pena, sull’emergenza crimini (ed emergenza clandestini), sul fatto che la gente resta poco in carcere e di conseguenza l’idea che la pena non sia certa, e altro ancora sempre su questa falsariga… la risposta a tutta questa “baraonda” mediatica da parte del governo all’inizio di legislatura è stata l’aumento delle pene generalizzato e la decisione di costruire nuove carceri e/o ampliare quelle esistenti (oltre ad altre iniziative di grande impatto mediatico). È chiaro a tutti che la necessità di nuovi spazi detentivi è figlia dell’inasprimento delle pene per molti reati, ed è su questo terreno che si sta giocando la partita dell’edilizia carceraria. Chiunque mastichi un po’ in materia di sicurezza e certezza della pena sa bene che si tratta di misure e decisioni che non porteranno molto di buono alla società in termini di sicurezza collettiva, il problema sicurezza è una somma e a volte un prodotto di tante componenti che si devono, per ottenere un risultato migliore, bilanciare senza squilibri eccessivi tra le varie parti che vi concorrono… Ed è partendo da questa considerazione che si giunge alla domanda: DOVE SI VUOLE ARRIVARE COSTRUENDO NUOVE CARCERI? E perché utilizzare risorse economiche destinate al reinserimento dei detenuti? Perché non ci sono fondi diversi nelle casse dello Stato? Va bene… mettiamo che sia giusto, e poi? Cosa accadrà in queste nuove strutture? Serviranno altri agenti (e di nuovo, già da ora, mancano le risorse…), altri fondi per la gestione ordinaria (già ora mancano pure i sacchetti per i rifiuti, tanto per dirne una…) già ora il numero di operatori ed educatori è fortemente sottodimensionato per mancanza di fondi e questi sono solo alcuni degli aspetti della questione… quindi di nuovo: DOVE SI VUOLE ARRIVARE? Il nostro è un Paese con una “consolidata” storia di edilizia pubblica commissionata a privati come merce di scambio e poi abbandonata alle erbacce e ai topi, ma qui la partita è molto più complicata… qui si prospetta un aumento di detenuti per uno “spregiudicato” ricorso al carcere, non si tratta però di oggetti o mattoni ma di esseri umani… qual è allora il disegno politico che si cela dietro queste mosse? Sia il ministro Alfano che il Capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, Franco Ionta, a più riprese hanno dichiarato da una parte un preoccupante stato di “prossimo” sovraffollamento delle carceri (da qui la necessità di costruire) e dall’altra la necessità di “accompagnare e sostenere” i detenuti che intendono intraprendere e seguire un percorso di reinserimento… intanto usano, per sistemare il problema affollamento, buona parte dei fondi della Cassa delle Ammende (per la cronaca circa 150 milioni di euro), ma è chiaro che i conti non tornano, perché risulta evidente che il reinserimento, che dovrebbe essere funzionale ad una maggior sicurezza della società, non è considerato prioritario o quantomeno, a voler essere buoni, ne esce un “intanto li mettiamo lì e li teniamo dentro poi si vedrà…”.
Questa crisi epocale a livello sociale non si sa come affrontarla… se non con la galera
Il punto è che il “si vedrà” e i problemi connessi i cittadini devono sapere che sono già attuali, perché è vero che c’è chi entra ma c’è pure chi esce, e ovviamente prima o poi escono quasi tutti. Allora qui ci si deve chiedere: come usciranno? Oppure qualcuno vorrebbe non fare uscire più chi viene carcerato? Più si va avanti nell’analisi della situazione, più ci si rende conto che non solo i conti non tornano, ma che le possibili conseguenze e i probabili risultati, che sembrano destinati a scaturirne in termini di sicurezza attuale e futura, sono razionalmente controproducenti, non auspicabili e non sostenibili da chiunque abbia un minimo di buon senso. Allora, forse, inizia ad emergere qualcosa di diverso, di addirittura più preoccupante se corretto: tutto ciò forse sta servendo a mascherare, a coprire altri problemi che poco o nulla c’entrano con la sicurezza e queste soluzioni tampone ad effetto servono un po’ da “oppio dei popoli”… Ti do questo perché non riesco a darti altro… perché questa crisi epocale a livello sociale non so come affrontarla… perché ho bisogno di tempo per “sperare” che qualcosa cambi e, caro cittadino, ti migliori la situazione… nel frattempo prima di te devo salvare la Fiat, devo aiutare le banche, devo tagliarti i servizi perché altrimenti non saprei dove prendere i soldi. A te posso giusto dare una social-card (e se non funziona non so cosa farci… io te l’ho data) a mo’ di carità… però ti sto dichiarando che, nel frattempo e in attesa di tempi migliori, ti costruirò più carceri, ti metterò dentro tutti i clandestini (l’espulsione a volte pare assomigliare a una favola surreale), ti porterò 30.000 soldati nelle strade (peccato che il costo per la società sarà di circa 640 milioni di euro in più e da qualche parte li dovrò togliere ma sarà per la tua sicurezza!)… il quadro del dove si vuole arrivare comincia a delinearsi. Ma siamo così sicuri che sia questo il modello di società desiderabile? Questa domanda dovrebbero cominciare a porsela tutti quelli che chiedono più carcere, pene più severe, uno stato di polizia sempre più invasivo e restrittivo delle libertà, e non la libertà di chi finisce o finirà in carcere ma di chi ne sta fuori... Le soluzioni, per definizione, sono tali perché portano a risolvere problemi e non a procrastinarli e, in questo caso, giocare sulla falsa chimera di maggiore sicurezza tramite l’edilizia carceraria e la dilapidazione di risorse che dovrebbero avere vere finalità costruttive e progettuali, porta chi lo sta facendo ad assumersi un rischio enorme, di far perdere libertà reale alla società e, in previsione, di lasciare in eredità un moloch di difficilissima gestione sul fronte sicurezza. L’edilizia carceraria e l’impegno di fondi, destinati al reinserimento, a sostegno di questa scelta non sembra essere un progetto, ma una tessera di un puzzle di un disegno forse neppure ben chiaro a chi lo sta componendo. Una cosa però a noi pare certa: non è né sarà questa la soluzione (la storia lo insegna fin troppo bene) e neppure la strada per “consegnare” più sicurezza ai cittadini… assomiglia di più a una “non soluzione” ai problemi, al fumo negli occhi per poter nel frattempo prendere tempo per chi ne ha evidentemente bisogno.
I presunti disastri dell’indulto La verità sull’indulto svela le mistificazioni dell’informazione “Indulto. La verità, tutta la verità, nient’altro che la verità”, una ricerca di Giovanni Torrente per l’associazione “A buon diritto” smonta i dati catastrofici sul “dopo indulto”
di Marco Libietti
Tasso di recidiva “fisiologico” entro sette anni dal fine pena: 68,45 per cento tra i detenuti che hanno scontato tutta la pena in carcere, 19 per cento tra chi ha usufruito di misure alternative. Indulto, uno su due è tornato in carcere. (La Repubblica, 8 settembre 2008) Indulto, il 36 per cento è tornato in galera”. (La Repubblica, 27 agosto 2008) Effetto indulto, un detenuto su 4 è rientrato in cella. Incremento del 7 per cento nell’ultimo mese. (La Stampa, 13 settembre 2008) Alfano condanna l’indulto: fallito, carceri piene di recidivi. (Corriere della Sera, 27 agosto 2008) Queste alcune delle affermazioni sull’indulto in circolazione. Ma una ricerca del professor Giovanni Torrente, dell’Università di Torino, smonta i dati catastrofici sul “dopo indulto”. Ecco i numeri della ricerca al 15 ottobre 2008: 44.994 persone tornate in libertà, di cui 27.607 scarcerate e 17.387 dimesse da misure alternative… tasso di rientro in carcere: 26,97 per cento tra ex-detenuti e 18,57 per cento tra chi ha usufruito di misura alternativa. Prima considerazione: risulta subito evidente che i dati sull’indulto (usciti dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria) smentiscono clamorosamente buona parte delle dichiarazioni dei media, e anche di ministri e politici. Ora, se i media potevano anche non essere a conoscenza dei dati o non saperli leggere (se così fosse sarebbe un bel problema…) altrettanto non è possibile pensare dei vari politici (loro i dati li hanno prima di tutti…), al che sorge spontanea una domanda: per quale motivo hanno “comunicato” l’esatto opposto di quanto risulta? Vediamo di tentare un’analisi che, dati alla mano, può fare un po’ di luce non solo su quanto risulta, ma pure sulle strade intraprese dal governo, basate sulle dichiarazioni, e quelle che invece indicherebbe non solo il buonsenso, ma pure il reale riscontro (oggettivo) dei dati.
Se i percorsi di reinserimento venissero attuati sistematicamente…
Un dato di fatto che riemerge da questa ricerca, in linea con le precedenti, è che, incontestabilmente, sia per il reo che per la società, l’applicazione di misure alternative al carcere porta ad un abbassamento significativo del tasso di recidiva e, di conseguenza, ad un innalzamento del livello di sicurezza per la società (nonché chiaramente ad una diminuzione dei costi e un conseguente aumento di valore in quanto chi non sta in carcere produce invece di “bruciare” risorse…). Eppure sono pochi i veri percorsi di reinserimento (ci sarebbero alcune centinaia di milioni di euro finalizzati a questo fermi nella Cassa delle Ammende… si fa presente che un’ingente parte di tale denaro è appena stata destinata alla costruzione di nuove carceri… esattamente l’opposto della finalità per cui è stato accumulato!). Se questi percorsi venissero attuati sistematicamente in tutte le carceri i risultati sarebbero sicuramente migliori, soprattutto per coloro che affrontano la carcerazione per la prima volta… in questo caso il dato dell’effetto indulto è eccellente… solo il 12,85 per cento risulta recidivo, il che sta a significare che un tempo limitato di carcerazione non fa acquisire quella “identità deviante” che serpeggia come un virus in carcere: dunque “non troppo carcere”, insieme alla “non disgregazione” dei legami famigliari rappresentano due fattori importantissimi per un ritorno “normale” in società. Se poi ci fosse anche un vero “accompagnamento” interno durante la detenzione, finalizzato all’applicazione in modo sistematico delle misure alternative a chi ne può usufruire, questo aggiungerebbe quantità e qualità di sicurezza per la società… invece, grazie pure alla falsa notizia del “disastro indulto”, hanno deciso di costruire più carceri… e qui si torna, con ancora più forza, a domandarsi perché si sia voluto andare in questa direzione. Dalla ricerca emerge che esistono punti dolenti nella popolazione detenuta… i punti più problematici risiedono, a mio avviso (i dati della ricerca ne sono una conferma) nel livello di istruzione bassissimo e nella precarietà della situazione lavorativa di chi finisce in carcere. Certo non è solo colpa della società se un individuo si trova in situazione di “indigenza” culturale e occupazionale… le persone a volte decidono di intraprendere strade devianti ma, se si vuole portare più sicurezza, bisogna dare la possibilità di uscirne. Altrimenti non solo la recidiva diventa strutturale ma si alza pure il livello di pericolosità sociale ed è inutile nascondersi dietro un dito… il ricorso continuativo ed univoco al carcere porta a questo (basta osservare i dati di rientro tra i plurirecidivi)… procrastina il problema della sicurezza esterna rendendolo inevitabilmente più grande nel futuro. Il fatto che una maggiore e spiccata tendenza all’illegalità riscontrabile in carcere sia direttamente correlata ad un basso (in diversi casi nullo) livello di istruzione può e deve portare a progettualità costruttive in tal senso (si pensi che solo il 5,16 per cento degli indultati risultava avere un diploma di scuola media superiore o una laurea!). Ma a questa considerazione si lega anche il problema sociale della fase storica in cui ci troviamo, che sta evidenziando con tutta la sua forza che il cambiamento per molti (non solo ex detenuti) sarà vissuto con enorme difficoltà: si tratta infatti del passaggio da una società di forza lavoro “fisica” e “fisica-mentale” ad una società tecnologica e post-tecnologica dove il concetto di lavoro fisico tenderà a scomparire, per far spazio ad un sempre più completo lavoro “mentale”, con un conseguente squilibrio generazionale che verrà rimarcato sempre più nei prossimi anni. E questo ci costringe a riflettere su quanto sia fondamentale “scolarizzare” il più possibile la popolazione carceraria, anche in funzione di una maggior sicurezza collettiva futura.
Lo spostamento dell’utilizzo del carcere dal cittadino italiano a quello straniero
Un ulteriore aspetto che emerge da questa ricerca è la tendenza ad uno spostamento dell’utilizzo del carcere in forma sistematica dal cittadino italiano a quello straniero (qui esistono testi e ricerche di Marzio Barbagli che sul tema immigrazione e sicurezza è considerato uno dei massimi esperti). Infatti, se da un lato il carcere per gli italiani pare avere col tempo (almeno sino ad ora visto l’attuale andazzo…), soprattutto a seguito della introduzione delle normative che offrono la possibilità di accedere a misure alternative, assunto una “quasi reale” dimensione di extrema ratio, riservata a soggetti estremamente problematici, dall’altro lato, la progressiva carcerazione di persone straniere pare aver assunto dimensioni strutturali… questo è un aspetto altrettanto fondamentale che abbraccia i temi della clandestinità, di politiche di accoglienza e inserimento che sta pesando sempre più sul sistema carcere e che dimostra la necessità di soluzioni ben diverse dalle attuali… Alla fine di questa ricerca risulta innanzitutto che il processo sociale attraverso cui l’indulto è diventato nel sentire comune un fallimento, nonché la causa del (presunto) aumento della criminalità merita uno studio e un dibattito specifico. Si può dire, da una prima analisi, che questo processo può essere interpretato come risultato di una strategia che ha teso, sin dall’approvazione della legge, alla delegittimazione della stessa attraverso il risultato offerto dai “dati” negativi che essa avrebbe prodotto. Viene da dire però che la profusione di cifre talmente lontane dalla realtà dei fatti non sarebbe stata possibile all’interno di un sistema dotato di una cultura attenta alla verifica delle procedure (qui si può puntare il dito contro i mezzi di informazione, che o sono di parte o non professionalmente preparati in questa direzione…). In assenza di una tale cultura tutto diventa possibile, anche manipolare le cifre in relazione agli obbiettivi che si pone chi le utilizza. Vista la situazione e il periodo storico in cui ci troviamo, sarebbe opportuno provare ad impostare progetti propositivi su esperimenti di scolarizzazione globale (almeno in alcune carceri), formazione di professionalità culturalmente preparate alla nuova richiesta del mercato e laboratori di lavoro di specializzazione in accordo con istituti scolastici, aziende, province e regioni con il coinvolgimento del D.A.P. (a questo dovrebbero servire i fondi della Cassa delle Ammende). Ed infine sarebbe il caso, o meglio il sogno, che i mezzi di informazione dedicassero un po’ più di tempo ad analisi serie dei dati e dei fatti, cercando di capire e conoscere il perché e il come stanno le cose, senza trincerarsi dietro uno sterile diritto alla cronaca… pensate se si comportasse allo stesso modo chi progetta abitazioni, infrastrutture, veicoli, farmaci e quant’altro… la società andrebbe incontro solo a catastrofi da inettitudine… il caso del “risultato indulto” ne è una perfetta rappresentazione a livello mediatico. Quando lo Stato prende la cattiva abitudine di riempire le carceri Immigrati con meno diritti in una società con meno libertà
La galera è sempre brutta, ma per gli immigrati lo è doppiamente: anni senza vedere i propri famigliari, qualche volta anche senza telefonare, visto che si può chiamare solo ai telefoni fissi, che in molti Paesi quasi non esistono più, e poi ancora difficoltà ad accedere alle misure alternative, assenza di un futuro perché l’Italia alla fine della pena non li vuole più, e a casa loro spesso sono degli estranei. Ma oggi gli immigrati in carcere sono angosciati anche da quel che succede fuori, perché vedono i segnali di un inasprimento delle condizioni di vita dei loro connazionali, che si tradurrà, alla fine, in più gente che entrerà in carcere, senza per questo che la società fuori sia davvero più sicura.
Il ricongiungimento famigliare toglierebbe tanti reati di torno
di Elton Kalica
Il pacchetto sicurezza dell’anno scorso aveva introdotto delle forti restrizioni nell’ambito del ricongiungimento famigliare per gli immigrati, motivando questa scelta con la necessità di combattere la clandestinità. Ricongiungersi con un famigliare implica il permesso dello Stato italiano per farlo, quindi non c’è nulla di clandestino in questa modalità per coltivare gli affetti, tutt’altro: uno straniero si poteva presentare al Consolato italiano e fare domanda per venire in Italia a vivere con il proprio fratello o sorella, padre o madre immigrato, e il Consolato, dopo aver accertato l’affidabilità dello straniero già residente in Italia, autorizzava o meno il famigliare a riunirsi al proprio caro. Ricongiungersi significa quindi avere una persona, una casa e un reddito che garantisce la sussistenza all’immigrato che, arrivando per vie legali, può iniziare il proprio progetto di vita in un ambiente sano e controllato. Non a caso molti immigrati finiti in carcere raccontano proprio di non aver avuto un punto di riferimento “regolare” che gli garantisse un aiuto nella ricerca di un lavoro, e spesso è stata questa condizione a spingerli verso la vita da “delinquenti”. Inoltre, un immigrato che ha la possibilità di venire in Italia grazie all’ospitalità di un famigliare, si sente prima di tutto obbligato nei suoi confronti, e per questa ragione sarà più motivato a fare una scelta di vita simile a quella di chi lo ospita: cercare un lavoro onesto piuttosto che tradire la sua fiducia dedicandosi allo spaccio o ai furti. Noi immigrati sappiamo che i nostri famigliari vivono in condizioni economiche disastrose e per questo cerchiamo di mandar loro parte dei nostri salari, anche quando lavoriamo in carcere e guadagniamo poco. Chi di noi fuori lavorava, ricorda che per risparmiare su tutto si viveva insieme ad altri, spesso degli estranei incontrati alla stazione o in altri punti di ritrovo di immigrati. Ma chi era in regola con i documenti prendeva una casa per conto proprio e spesso faceva venire un fratello, una sorella o un figlio perché questo significava non solo provvedere meglio a loro, ma anche avere una persona che aiutava con il proprio lavoro. Adesso molti si domandano il perché dell’aumento dei clandestini. Ma se hanno fatto una legge che rende più complicato far venire un famigliare in Italia, questo non fa altro che aumentare la clandestinità, poiché chi ha un fratello che fa il muratore o una madre che fa la badante in Italia, si indebiterà fino al collo per pagare gli scafisti e raggiungere il suo caro in Italia, a costo di vivere da clandestino, e a questo punto mi domando: simili misure di lotta alla clandestinità non istigano invece all’immigrazione clandestina?
Fateli restare poveri, lavoreranno di più
di Gentian Germani
Il nuovo pacchetto sicurezza introduce diverse misure che riguardano le condizioni economiche degli immigrati, stabilendo che da ora in poi, quando si chiederà o si rinnoverà il permesso di soggiorno, si pagherà un contributo, il cui importo è fissato fra un minimo di 80 e un massimo di 200 euro con decreto del Ministro dell’Economia e delle Finanze, di concerto con il Ministro dell’Interno. Inizialmente mi era sembrata una tassa simile alle tante che pagano gli italiani, e allora sono andato a vedere cosa pagava prima chi richiedeva il permesso di soggiorno. Ho scoperto che lo straniero di età superiore ai quattordici anni che si presenta a fare richiesta di permesso paga alle Poste italiane un contributo di trenta euro. Altri ventisette euro e cinquanta vanno alla tipografia che stampa il documento, mentre ulteriori quattordici euro e sessantadue centesimi vengono pagati per la marca da bollo. E siccome la legge Bossi-Fini obbliga le questure a rilasciare permessi di soggiorno della durata di un anno e solo in alcuni casi di due, la maggior parte degli immigrati si ritrova a fare annualmente questa trafila. La cosa che più preoccupa l’immigrato è la situazione economica della propria famiglia nel Paese d’origine, e qualsiasi cosa è sacrificabile di fronte al timore che i genitori o i figli rimasti a casa rimangano senza denaro: uno è disposto a saltare un pasto o a rinunciare a comprarsi le scarpe, ma appena prende in mano la busta paga deve correre a spedire il vaglia a casa. Certo non è per tutti così, e non mi nascondo che c’è gente che viene qui e pensa solo a commettere reati, ma per molti davvero quello è il pensiero principale. Svuotare ulteriormente le tasche degli immigrati significa semplicemente rinforzare quei meccanismi che si mettono in moto quando una persona già povera si impoverisce ulteriormente, vale a dire lavorare di più a qualsiasi condizione. Si dice che questa nuova tassa viene introdotta perché c’è la crisi, ma si dimentica che già con il lavoro che fanno, gli immigrati pagano le tasse nella stessa misura dei lavoratori italiani, ed è vero che usufruiscono di servizi pubblici come scuole e ospedali, ma è altrettanto vero che contribuiscono a pagare questi servizi forse più di quello che poi ricevono, visto che spesso sono troppo grandi per andare a scuola e troppo giovani per andare in ospedale. Noi poi, che siamo detenuti, non possiamo ignorare il fatto che la crisi porterà in carcere molte persone e le nostre condizioni di vita, già disastrate, finiranno per diventare inaccettabili. La nostra esperienza ci insegna infatti che più c’è povertà e più crescono i reati, la Storia insegna invece che più lo Stato prende la cattiva abitudine di riempire le carceri, più si cade nel baratro dell’autoritarismo e della perdita generale della libertà.
Oggi eviterei gli ospedali, a costo di morire
di Kamel Said
Un giorno stavo uscendo da un bar quando mi è venuto un forte mal di stomaco, non riuscivo a camminare e mi piegavo in due dal dolore. Allora il proprietario ha chiamato l’ambulanza, che è arrivata velocemente e mi ha portato in ospedale. Al pronto soccorso mi hanno chiesto i documenti e io ho risposto che non li avevo perché ero entrato in Italia da clandestino. Allora mi hanno chiesto le generalità. All’inizio sospettavo che volessero darle alla polizia, e ho risposto che non volevo più essere visitato, ma il medico mi ha spiegato che i dati gli servivano solo per il loro registro. Così gli ho detto la mia identità e mi hanno portato subito a fare una radiografia, e appena il medico ha visto le lastre ha ordinato agli infermieri di preparare con urgenza la sala operatoria perché ero messo molto male. Così mi hanno operato. Mi sono svegliato dopo qualche ora e una infermiera mi ha informato che dovevo stare in ospedale per 15 giorni perché avevo bisogno di accertamenti e di cure. Dopo due settimane mi hanno dimesso, ma ho dovuto ritornare dopo un mese per fare un’altra visita. Alla fine la mia esperienza di malattia si è conclusa bene. Se fossi fuori di qui ora e mi dovesse succedere la stessa cosa, forse eviterei di farmi portare in ospedale e mi terrei il dolore, oppure chiamerei qualche paesano che si intende di medicina popolare e metterei la mia vita nelle sue mani. Ma non rischierei di essere preso dalla polizia e mandato in un Centro di identificazione e di espulsione. Anche a costo di rischiare di morire. Il Disegno di Legge sulle misure di sicurezza che è appena passato al Senato consente che i medici denuncino i clandestini alle forze dell’ordine, mentre fino ad oggi era stato vietato. Noi stranieri che per arrivare in Italia abbiamo attraversato mari e monti nascosti negli angoli più sporchi delle navi, dei camion e dei treni, lottando con le zecche e con la scabbia, eravamo sollevati nello scoprire che, in questa spietata caccia che lo Stato dà ai clandestini, le cure mediche rappresentavano una specie di zona franca. Scopriamo invece oggi che in questo Paese non si concede più tregua nemmeno a chi sta male. In galera ho sentito tante storie di gente arrestata all’ospedale, perché se uno straniero delinquente finisce al pronto soccorso con una ferita da taglio o da arma da fuoco, il medico è già obbligato a denunciare il fatto alle forze dell’ordine. Noi sappiamo bene che i delinquenti che hanno i soldi non rischiavano prima e non rischieranno mai di mettersi in fila con la gente comune, ma cercano posti riservati, dove i soldi offrono protezione. Viene il dubbio allora se questa misura sia stata fatta davvero per non dare tregua ai clandestini, oppure perché non si sopportava la vista di tanti immigrati nelle corsie degli ospedali.
|