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Il problema è trovare una modalità d’intervento che soddisfi bisogni collettivi, a prescindere dalle singole domande dei singoli detenuti
Un’intervista a Luigi Manconi, Garante dei diritti delle persone private della libertà personale per il Comune di Roma
A cura di Ornella Favero e Francesco Morelli
Luigi Manconi lo abbiamo incontrato a Roma, in occasione della presentazione del dossier "Morire di carcere" nella Sala Stampa della Camera dei Deputati. Con lui, che da anni si occupa di carcere e ora ha l’occasione di farlo sperimentando il suo nuovo ruolo di Garante, abbiamo parlato delle competenze, dei limiti, delle prospettive di una figura, nella quale i detenuti ripongono molte delle loro speranze di vedersi riconosciuti quei diritti, che per ora restano solo sulla carta.
Lei è stato nominato Garante dei diritti delle persone private della libertà personale per il Comune di Roma. Quali sono le competenze del Garante e quali ostacoli ci sono nell’attuazione del compito cui è chiamato? La risposta richiede una brevissima storia di come si è giunti a questo incarico. Nella precedente legislatura ho presentato, con altri, un disegno di legge sull’istituzione della figura del Garante dei detenuti a livello nazionale. In questa legislatura è stato ripresentato il medesimo disegno di legge e, su questo tema, abbiamo fatto un’iniziativa, un anno e mezzo fa, alla Camera dei Deputati, sotto il patrocinio del presidente, Pier Ferdinando Casini. In quella occasione, siamo riusciti a raggiungere una buona intesa tra forze di centrodestra e di centrosinistra, e come "A buon diritto. Associazione per le libertà" e "Antigone", abbiamo presentato un testo sul quale le forze politiche dei due schieramenti concordavano in larghissima misura. I punti di divergenza erano assai ridotti. È partito, quindi, l’iter parlamentare di questa legge, che non è bloccato: procede lentamente, ma procede. È stato già discusso in commissione affari costituzionali della Camera dei Deputati e questo produrrà un nuovo testo comune. Sapendo che, comunque, sarebbe stato un cammino non eccessivamente rapido, si è pensato di fare una sorta di anticipazione-sperimentazione a livello locale. Così nasce l’idea del Garante dei detenuti di nomina dell’amministrazione comunale. Ricordo che, nel luglio 2002, chiamai il sindaco di Roma e gli proposi la cosa. Lui mi disse immediatamente di sì e ci sono voluti 13 mesi – che sono tanti, ma per i tempi delle amministrazioni pubbliche sono pochissimi – e il Comune di Roma ha istituito questa figura. Ma, proprio perché crediamo nell’utilità di un percorso di anticipazione–sperimentazione, la mia associazione si è mossa con grande lena e, così, è stata approvata la stessa figura a Firenze. E si arriverà, in tempi non lunghi, all’istituzione del Garante delle persone private della libertà personale a Torino, Genova, Bologna, Milano e Cosenza. O, almeno, è altamente probabile che accada. La mia ambizione è di poter contare, diciamo entro un anno, su 8, 10 garanti di città medio-grandi, perché questo avrà un peso assai significativo nel portare ad approvazione la legge nazionale. Perché è cruciale questo fatto? Beh, per una ragione elementare: perché la base giuridica del Garante a livello comunale – lo dico in maniera brutale – è fragile. Ricordo che la regione Lazio ha, a sua volta, istituito un Garante regionale. Stiamo operando perché lo istituisca anche la regione Lombardia e anche altre regioni: e già un Garante regionale avrebbe una base giuridica più solida, ma resta il fatto che, in un caso come nell’altro, i poteri di cui dispone questa nuova figura sono molto deboli. Per capirci: io, Garante dei detenuti di Roma, e il direttore dell’Ufficio non possiamo accedere alle carceri, non abbiamo alcun potere giuridico, cioè non abbiamo alcuna facoltà da rivendicare per quanto riguarda quella condizione prioritaria e ineludibile, che è la possibilità di accesso al carcere. Racconto un episodio: pochi giorni fa ho reso noto un suicidio avvenuto nel carcere minorile di Casal del Marmo: e sono potuto entrare in quell’istituto il pomeriggio del giorno immediatamente successivo al suicidio, diciamo 18 ore dopo il fatto, ma solo ed esclusivamente perché la direttrice mi ha consentito di entrare. Ci sono entrato assieme a un assessore della Giunta comunale di Roma, ma anche quell’assessore ha potuto entrare perché la direttrice glielo ha consentito. Com’è noto, se il sindaco di Roma vuole entrare in un carcere, non ha alcun diritto di farlo. Il Garante dei detenuti potrà funzionare solo se, grazie a un patto tra l’amministrazione comunale e l’amministrazione penitenziaria, verranno accordate all’ufficio del Garante dei detenuti perlomeno le stesse facoltà di cui dispongono i parlamentari nazionali e i parlamentari regionali. Tutt’altro discorso, ovviamente, è quello del Garante nazionale perché, se riusciremo a far approvare una legge che preveda quella figura, i poteri di cui potrebbe avvalersi sarebbero effettivi, penetranti, anche ispettivi. E sono questi che possono trasformare una carica in qualcosa di efficace.
Come pensate di fare in modo che i detenuti sappiano di potersi rivolgere al Garante? Perché è fondamentale che i detenuti abbiano la consapevolezza di disporre di questo nuovo strumento… Il discorso è delicatissimo, anche se la domanda è ovviamente la più naturale. Non voglio dare una risposta di comodo, ma una risposta seria, soprattutto perché rivolta a persone che conoscono il problema perlomeno quanto me, in genere più di me. Attivare le domande dei detenuti è la cosa più facile del mondo, perché quelle domande sono già attive e, sanamente e giustamente, molto esigenti. Il problema, qui, è di trovare una modalità d’intervento che soddisfi bisogni collettivi, a prescindere dalle singole richieste dei singoli detenuti. Le singole richieste dei singoli detenuti sono sacrosante nove volte su dieci. Noi dobbiamo trovare un metodo, che ancora non abbiamo elaborato, per non lasciare senza risposta alcuna lettera, alcun messaggio, alcuna denuncia, alcuna protesta venga a noi indirizzata. Dobbiamo trovare un metodo perché esigenze e proteste saranno tantissime. Già ora sono molte, perché, per il solo fatto che io mi interesso di quest’argomento da anni, ne ricevo quotidianamente. E per una ragione elementare: il primo problema del detenuto - un problema materiale, non psicologico, come potrebbe valutare uno sguardo superficiale - è quello della comunicazione con l’esterno. Allora, come dicevo, noi non dobbiamo lasciare senza risposta alcuna domanda che viene posta, ma penso che dobbiamo individuare i principali bisogni collettivi. Io, su questo, ho già un’idea e una gerarchia di priorità: penso che la questione fondamentale, a cui dedicare le nostre energie, è quella della salute in carcere. Io voglio operare affinché in tempi brevi – che significa sei mesi, non di meno – un’attendibile ricerca sulle carceri romane ci dica quali sono i tempi d’attesa delle visite specialistiche e dei ricoveri all’esterno. Immediatamente dopo aver fatto questa ricerca e aver quindi una mappa puntuale dei tempi relativi a queste due esigenze, il nostro obiettivo sarà quello di ottenere una riduzione di questi tempi e se possibile, il dimezzamento. Perché la lentezza della risposta alla richiesta della visita specialistica o di ricovero all’esterno costituisce una delle principali ragioni di sofferenza della popolazione detenuta. Noi sappiamo che questo problema riguarda tutti i cittadini delle nostre città, riguarda qualsiasi utente del servizio sanitario anche non recluso: ma all’interno delle carceri non ci sono alternative, all’interno delle carceri quei tempi si traducono immediatamente in un dolore che si somma ad altro dolore. La seconda questione riguarda l’eterno problema del lavoro. Nelle carceri romane la percentuale dei detenuti che svolgono un’attività è bassissima, tra il 10 e il 20%, ma nel 99% dei casi è un’attività tutta legata all’amministrazione del carcere stesso. Si sono fatti addirittura passi indietro, su questo piano: siamo tornati ad una condizione precedente, nel senso che non ci sono più nemmeno quelle opportunità lavorative minori, o artigianali, o quei corsi di formazione che in qualche misura aprivano alcune possibilità di occupazione successiva. Io credo che, per quanto riguarda questo secondo, gigantesco problema, c’è una sola via, quella di arrivare a convenzioni, accordi, patti con le imprese della città. Io ritengo che possa esserci un interesse economico, da parte delle imprese e delle loro associazioni, a investire su questo settore. Quindi, grazie al fatto che l’Assessorato alle periferie, presso il quale c’è il nostro ufficio, su questo ha iniziato a operare, e bene, e già da tempo, vogliamo continuare perché è la sola risorsa di cui disponiamo. Dopodiché, non ho altro da aggiungere: i problemi sono così giganteschi che tutte le buone intenzioni rischiano di risultare velleitarie, non dico alla verifica dei fatti, ma già quando vengono enunciate.
Qualche giorno fa abbiamo fatto una discussione nella nostra redazione sull’assenza totale di prospettive per i detenuti stranieri. Ma c’è di più: mentre a Padova e Venezia c’è un numero consistente di stranieri che lavorano in semilibertà, in altre situazioni le misure alternative proprio non vengono concesse, anzi si dice che non possono essere concesse. Pensa che sia possibile un intervento del Garante anche relativamente ai problemi dei detenuti stranieri? L’intervento del Garante può essere efficace se l’Ufficio di quel Garante è in grado di esercitare qualche autorità politico-morale. Al momento, per esempio, il Garante non ha alcun ruolo istituzionale nei confronti della Magistratura di Sorveglianza. Se il Garante saprà conquistarsi uno spazio politico-morale, allora la Magistratura di Sorveglianza lo considererà un interlocutore e lo vorrà ascoltare in virtù di fatti, esperienze, ricerche, capacità di esprimere domande collettive. Attualmente il rischio è quello che il Garante sia, semplicemente, un megafono. Il mio, il nostro problema non è la visibilità, intesa come capacità di rendere visibili i problemi del carcere, perché una relativa attenzione c’è già: quello che non c’è è la continuità e la capacità di tradurre l’attenzione in provvedimenti, capaci di riformare anche una piccola parte di quel sistema. Noi dovremmo molto di più concentrare energie sulla riforma anche solo di un piccolo segmento del sistema penitenziario, perché le condizioni di quel sistema, anche se in maniera del tutto generica e superficiale, sono sufficientemente note: ma da questa conoscenza noi, in questi anni, non siamo riusciti a ricavare nemmeno una piccola riforma, che modificasse le condizioni materiali della popolazione detenuta. Un intervento consistente, per cercare di modificare queste condizioni, è stato fatto con il D.P.R. 230 del 2000: il nuovo Regolamento penitenziario. Il problema è di tradurre in concretezza quello che viene fatto a livello normativo. Nasce da qui, infatti, l’idea del Garante. Oggi, un detenuto dispone, sulla carta, di un pacchetto di diritti che possiamo serenamente considerare soddisfacente. L’esigibilità di questi diritti, garanzie e prerogative è affidata, nella gran parte dei casi, alla discrezione di chi detiene il potere. Tra custodi e custoditi non c’è una figura terza. Bisogna inventare tale figura, e abbiamo creduto di individuarla nel Garante. Ma, perché il Garante possa esercitare questo ruolo, serve appunto una legge nazionale. Io sono moderatamente ottimista, perché ritengo che questa legge nazionale, infine, verrà approvata. Però, da adesso a quando quella legge verrà approvata davvero, passeranno sicuramente anni: in questo periodo noi dobbiamo svolgere opera di vigilanza, sorveglianza, controllo affinché quei diritti di cui pure il detenuto dispone non risultino unicamente affidati alla carta, cioè al Regolamento. Sappiamo bene che questo è il problema.
Rispetto alla figura del Garante, con l’Amministrazione penitenziaria e la Magistratura di Sorveglianza potrebbero nascere situazioni di conflitto? Anche perché attualmente il ruolo di controllo spetterebbe, appunto, al Magistrato di Sorveglianza… Io ritengo che problemi ce ne saranno. Ma penso anche che tutte le perplessità, che vengono dall’uno e dall’altro soggetto, siano immotivate, totalmente immotivate. La Magistratura di Sorveglianza non può svolgere quel ruolo di Garante per una ragione elementare: non solo per l’attuale sovraccarico di lavoro, ma per il fatto che la Magistratura di Sorveglianza oggi ha un potere diretto, sul corpo del detenuto e sulla sua vita, così forte che non può svolgere una funzione terza. Oggi la Magistratura di Sorveglianza decide sui permessi e sulle misure alternative: ha, cioè, una serie di prerogative che rendono il detenuto dipendente dalle sue decisioni. Se io dipendo dalle decisioni di un soggetto per quanto riguarda il mio destino, la mia libertà, le mie opportunità, non mi rivolgerò mai a lui per ottenere il riconoscimento dei miei diritti. Questa è la ragione per cui la Magistratura di Sorveglianza, a prescindere da quella che fu la ragione della sua istituzione, oggi, questo ruolo, terzo, non lo può svolgere. Io credo che la parte più sensibile vedrà, quindi, la figura del Garante come quella di un soggetto con il quale collaborare, se non altro perché oggi la Magistratura di Sorveglianza è talmente oberata di lavoro che sicuramente non pretenderà di averne altro. L’amministrazione penitenziaria potrebbe, analogamente, trovare nel Garante una opportunità: il Garante può essere, cioè, il tramite tra l’amministrazione penitenziaria e l’amministrazione comunale. L’amministrazione penitenziaria si pone il problema, spesso, di come entrare in rapporto con l’autorità pubblica per tutte quelle competenze di cui l’autorità pubblica è titolare. Se il Garante riesce a svolgere questo ruolo, anche di mediazione tra l’amministrazione penitenziaria e l’amministrazione comunale, ritengo che questo potrebbe indebolire una parte delle resistenze che l’amministrazione penitenziaria sicuramente nutre nei confronti di qualunque soggetto, di qualunque figura, di qualunque istituzione che metta in discussione il carattere autoreferenziale ed autosufficiente del carcere.
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