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Lavoro intramurario
Ci siamo spesso chiesti: "Come mai le aziende private, che per moltissimi anni hanno svolto parte della loro attività in laboratori all’interno di molti carceri italiani, nel giro di un decennio, tra il 1980 e il ‘90, sono quasi completamente sparite?". Frugando tra i miei ricordi mi sovviene la Ticino a Saluzzo, e poi la Girardengo ad Alessandria, e qui a Padova la Rizzato: ma perché, a un certo punto, non è stato ritenuto più redditizio mantenere in vita, da parte di imprenditori privati, quelle lavorazioni? Ed ancora: cosa ha fatto l’Amministrazione centrale (D.A.P.?) per rendere "appetibile" per un libero imprenditore l’installazione di laboratori all’interno degli istituti? E, partendo dalla realtà attuale, cosa si può fare perché ciò avvenga? È arduo il compito di cercare le risposte: ma il legislatore "attento" ai reali problemi carcerari sa che il lavoro è di primaria importanza per molteplici fattori, trattamentali e non solo.
Un breve "viaggio nel tempo" tra carcere e lavoro
Facciamo un rapido "viaggio nel tempo": a partire dal 1889, il lavoro carcerario era prerogativa del Codice penale e la concezione del lavoro penitenziario era intesa come parte integrante della pena. Non cambiò molto neanche con il regolamento penitenziario del 1931, il lavoro mantenne la sua funzione strettamente punitiva. Si deve arrivare sino alla grande riforma del ‘75 (legge 26.7.1975 n° 354) perché il lavoro carcerario termini di essere "parte integrante della pena, strumento di ordine e disciplina" ed ai detenuti lavoratori vengano riconosciuti (in parte) alcuni diritti basilari: una paga che non sia "un umiliante sussidio", il riposo obbligatorio e teoricamente... la possibilità di manifestare le proprie capacità ed attitudini lavorative ed essere ammessi di conseguenza a quelle mansioni più consone alle proprie esperienze. In realtà in giro per l’Italia si trova spesso il muratore che fa... il barbiere ed il cuoco che fa il muratore... con buona pace del risultato finale... e delle norme sull’assegnazione al lavoro, nonostante sia la riforma del ‘75 che la legge Gozzini del 1986 (legge 10.10.1986 n° 633) stabiliscano e riconoscano: "nel lavoro una forte funzione socializzante e fondamentale nell’intervento rieducativo del detenuto". L’articolo 20 comma 2 O.P. precisa: "Il lavoro penitenziario non ha carattere afflittivo, ed è remunerato". Concludo il "viaggio nel tempo" del lavoro carcerario dal punto di vista delle principali leggi citando la poco applicata, per varie ragioni (a seconda del territorio in cui si trova il carcere) legge del 28.2.1987 n° 56, sulla possibilità di iscrizione nelle liste di collocamento della locale camera del lavoro in cui è situato il carcere, in pratica il periodo di carcerazione conta come disoccupazione e dà diritto a salire in graduatoria per le assegnazioni dei posti lavorativi, una volta liberi. I problemi che sono sorti sono legati alla territorialità e alla residenza: in realtà, regolamenti delle camere del lavoro elegge sono in contrasto. In Emilia Romagna si è tentato "timidamente" di affrontare il problema, non senza trovare ostacoli e critiche: infatti, purtroppo spesso l’ingresso del detenuto nel mondo del lavoro si scontra con un diffuso rifiuto culturale.
Spesini, barbieri, muratori e poco altro
In questo momento appare utopistico perseguire una equiparazione del lavoro del detenuto con quello di qualsiasi soggetto detentore di diritto, anche se, naturalmente, lo si chiederebbe nei limiti imposti dal regime penitenziario. Attualmente il lavoro in carcere si riduce a semplici mansioni "domestiche", cucina, pulizia corridoi e inoltre spesini, barbieri e qualche muratore. I posti sono pochi, tanto che in posti tipo porta vitti lavorano in un anno 6 persone a rotazione, quindi quando gli va bene lavorano in tutto due mesi all’anno. Ma questa è la situazione e Padova è nella "norma". Grande aspettativa suscita la spesso ventilata apertura del capannone lavorazione, qui all’interno del carcere Due Palazzi. Anche in questo settore esiste una normativa ben precisa, l’articolo 15 del Regolamento esecuzione disciplina analiticamente i rapporti tra D.A.P., ispettori distrettuali, direzioni degli istituti, prevedendo contatti con uffici pubblici, uffici locali del lavoro, dell’industria, dell’artigianato, del commercio, e contiene disposizioni sull’organizzazione del lavoro con commesse sia da enti pubblici che da privati, inoltre dà la possibilità di occuparsi (previa indagine di mercato) della gestione delle lavorazioni con prodotti da poter poi porre in pubblica vendita. Inoltre la legge 8.11.1991 n° 381 sulle cooperative sociali fornisce un’ulteriore possibilità organizzativa, dando la facoltà e la normativa a chi è detenuto o ex di organizzarsi in cooperativa sociale. Certo noi non abbiamo la presunzione di avere delle ricette pronte per curare la "malattia" dell’assenza di lavoro in carcere, ma vorremmo stimolare la discussione intorno a questi temi, raccontando esperienze, successi e anche cose che non hanno funzionato ... e chissà che la soluzione sia lì che ci attende. Per questo sollecitiamo sia gli amici detenuti, sia gli addetti ai lavori, le associazioni di volontari, le cooperative ad intervenire su queste pagine, in una rubrica fissa che sarà dedicata al tema del lavoro, dentro il carcere, fuori per chi gode della semilibertà o fuori del tutto, per chi deve affrontare le difficoltà di trovare lavoro dopo il carcere.
Nicola Sansonna |