Dentro e fuori

 

Considerazioni di una volontaria in redazione

 

Abituata a coordinare i lavori della redazione di un giornale scolastico, dove devi continuamente pregare i ragazzi di farsi venire delle idee sugli argomenti da trattare e poi di sforzarsi di scrivere, in carcere dopo la prima riunione, e la prima timida sollecitazione a portarmi "qualcosa di scritto", mi sono trovata rapidamente sommersa da valanghe di racconti, poesie, articoli, inchieste, e da qui sono nate le prime riflessioni:

bisognava proibire in modo quasi assoluto di usare uno stile retorico, esagerato, pieno di belle parole (Nicola l’ha ben definito "pomposo"), che agli inizi andava per la maggiore, quasi come se ognuno avesse la sensazione che le parole belle, altisonanti, le frasi ad effetto rendessero meno deprimente la realtà del carcere. Oggi mi sembra che tutti si siano convinti che uno stile asciutto, essenziale è più efficace di tanti fronzoli;

i primi articoli erano tutti scritti con grandi generalizzazioni, in modo impersonale, come se gli autori fossero degli osservatori esterni appena arrivati a dare una sbirciatina al carcere: se si voleva ottenere l’effetto di un giornale freddo e distaccato, o di un giornale che, come si dice di solito, "affrontasse i problemi del carcere", questo era perfetto, ma noi volevamo un giornale che raccontasse il carcere, che facesse pensare, che smuovesse all’esterno qualche pregiudizio.

e così la regola è diventata una sola: avere il coraggio di partire dalle proprie storie e la consapevolezza che quello che mette più in crisi le certezze e le rigidità di chi sta fuori è sentire che dall’altra parte ci sono delle persone che non si nascondono. Dopo le riunioni, seduta nell’autobus che mi portava a casa, mi mettevo a leggere tutto quello che mi era arrivato dalla redazione, e la cosa più inaspettata sono state le risate che mi sono fatta.

abituata a un ambiente spesso lamentoso come è quello della scuola e di chi ci lavora, ho scoperto che il carcere non distrugge l’ironia, il senso dell’umorismo, la capacità di ridere anche di se stessi. Anzi, direi che la vena ironica è per fortuna forte e viva, e ne è un esempio Francesco, autore del nostro esilarante glossario carcerario, che prima scriveva solo pezzi seri e fin troppo profondi.

Il male è che adesso comincio ad avere il vizio di andare a scuola e attirarmi le ire di tutti con affermazioni di questo genere: "Dio mio, ma in carcere, e magari con addosso dieci o anche venti anni di quella vita, c’è gente che riesce a essere più ironica di certi insegnanti e certi studenti, che spesso sembrano quasi distrutti dalla noia.

Mi sono accorta, parlando di carcere con chi sta dentro e poi con chi sta fuori, che tanti "liberi cittadini" hanno una strana convinzione: pensano che il nostro sia un paese "lassista", che le pene siano leggere, che gli extracomunitari entrino e poi escano quasi subito dal carcere, che i tossicodipendenti in carcere ci stiano poco e quasi per sbaglio. Senza entrare nel merito di una questione così complessa come quella della pena, ora passo però molto tempo a spiegare che non è così, che il nostro non è affatto un sistema "tenero"; non credo di essere mai stata razzista, ma il lavoro in redazione mi ha fatto considerare gli extracomunitari in modo diverso, e prima di tutto mi ha fatto desiderare di abolire Questa parola idiota, "extracomunitario", che appiattisce e ignora culture diversissime tra loro. Nabil e Imed hanno riscritto due e anche tre volte il loro articolo, ma ora mi sembra che i risultati siano Quelli giusti: erano partiti parlando in astratto del loro paese, sono arrivati a raccontare cosa succede realmente lì da loro, perché gli è nata la voglia di andarsene, le fatiche e le delusioni che hanno vissuto nella loro vita da emigrati, e forse questo è davvero l’unico modo perché i lettori diano un volto e un nome alla categoria degli "immigrati".

 

Ornella Favero 

 

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