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"Persone dentro e volontari fuori"
Don Luigi Ciotti (Presidente del "Gruppo Abele")
Vi ringrazio proprio e faccio fatica a prendere la parola, in tutti i sensi. L’emozione, credetemi, è sincera ed è dovuta al rispetto per chi lavora in queste strutture e per chi, suo malgrado, deve vivere in queste strutture carcerarie. Ma credo non bisogni lasciare che le emozioni soffochino la ragione. Voglio fare una premessa, che vi prego di prendere come un piccolo contributo. Io credo che sia un dato educativo, e c’è bisogno tutti, ma proprio tutti, di educarci sempre e di educare a cogliere il positivo che c’è. È paradossale quello che sto dicendo ma credo sia giusto che non ci dimentichiamo, pur nelle fatiche, pur nei limiti, del positivo che c’è. Fuori e dentro. Mai semplificare, mai generalizzare, ma voi mi insegnate che non si può costruire giustizia senza ricerca della verità e che molte verità sono anche un po’ scomode, un po’ difficili, ma sempre non dimenticando le cose positive che sono state fatte, che si fanno dentro e fuori. E allora, per rispondere al tema di questa giornata, devo andare a quel rapporto tra carcere e territorio che ha avuto la grande svolta, in Italia, nel 1975, ai tempi della riforma penitenziaria che, come molti di voi ricordano, ha dato vita in modo organico al concetto rieducativo della pena, in rispetto all’articolo 27 della Costituzione. Dal 1975, soprattutto, l’istituzione penitenziaria ha cominciato a diventare rispondente a quel che deve essere il carcere in un paese civile, dove dovrebbe essere la soluzione estrema, una dolorosa necessità per chi sbaglia e di questo sbaglio deve rispondere. E allora vorrei, in questo percorso iniziato nel 1975, non dimenticare il lavoro della Commissione Grosso, del professor Grosso, che a parole tutti hanno condiviso, quello di cercare una riforma del Codice penale, di trovare percorsi alternativi, piani alternative alla misura detentiva, ma anche una pena certa, minima, più veloce. Questo cammino della Commissione Grosso, quella riforma del ‘75, hanno bisogno di avere gambe e gambe concrete, hanno bisogno soprattutto di scommettere sull’uomo sempre, ma proprio sempre. Ecco, questo percorso partito nel ‘75 ha sottolineato con forza l’attenzione al rapporto tra il carcere e il territorio, tra l’istituzione penitenziaria e la comunità esterna. E mi sembra corretto non dimenticare il positivo di quei passaggi che abbiamo visto per l’Italia: quando si è voluto, è stato possibile realizzare questo, anche per dire che una società socialmente più equa è una società più sicura. Puntare sul reinserimento e rendere concreti dei percorsi, non a parole ma nei fatti, non è buonismo (come qualcuno appiccica molte volte al volontariato, o a chi parla di questo), ma è un investimento, come qui stamattina è stato fortemente detto, che riduce il crimine, che previene la recidiva (come ce lo ricordava Livio poco fa), che tutela maggiormente i cittadini dalla commissione di nuovi reati. E tutti noi, qui presenti, siamo stati testimoni, nell’arco di questi anni, che, quando si sono create le condizioni per fare ponte tra dentro e fuori, per migliorare le condizioni dentro, per offrire delle opportunità dentro per chi deve starci, ma anche quando si sono create delle opportunità all’esterno, abbiamo toccato con mano come è stato possibile voltare pagina, da parte di molti amici. Ma non possono essere solo delle esperienze recintate, non possono essere solo delle sperimentazioni. Quei progetti-pilota importanti devono essere non l’eccezionalità ma la quotidianità. Le esperienze che hanno dimostrato come quelle riforme e quelle intuizioni siano possibili, devono realizzarsi. Prevenzione e inserimento sono la via maestra per ridurre l’incidenza della recidiva, per rendere la società più giusta e, guarda caso, nel momento in cui c’è questo grande dibattito strumentale, la città è anche più sicura. Perché noi non abbiamo bisogno di città più sicure, ma abbiamo bisogno di città vivibili, e le città sono visibili non solo per l’aria pulita, per il traffico, per il verde (giustamente deve essere anche quello tutelato), ma dalla capacità delle nostre città di creare relazioni umane e relazioni sociali diverse. Se sono vivibili, sono anche città sicure, e la vivibilità delle città è fatta proprio nella misura in cui si creano le condizioni per cui tutti siano cittadini e, buona parte delle possibilità di integrazione sta nella disponibilità dell’accoglienza, nel prendersi cura delle persone, nell’opportunità di lavoro, nel reinserimento vero. Su questi ambiti è importante che agisca il territorio e la comunità esterna, con quel ponte, con quella sintonia con chi è dentro, con chi dentro ci lavora. Sia nei confronti di chi è fuori, sia verso chi sta in carcere, è importante questa coerenza, questa collaborazione, questo lavorare insieme. L’integrazione, dunque, ha bisogno che il territorio cresca, assuma questa sua responsabilità, prenda coscienza che l’obiettivo è la città vivibile e non tanto la città sicura, che è solo un grande slogan. È necessario anche il ruolo dell’informazione, perché le etichette, i pregiudizi, le ansie, le paure non si possono cancellare con un colpo di spugna, ma hanno bisogno veramente di una informazione attenta, puntuale, che avvicini. Un’informazione in tre direzioni: per chi è dentro, perché abbia maggiori strumenti per i propri diritti, per la propria salute, per le proprie vicende giudiziarie; per chi è all’esterno, per chi è uscito e deve avere quelle opportunità e quelle informazioni all’esterno; ma anche un’informazione verso i cittadini. Giustamente, questa giornata vuole mettere in evidenza un’attenzione a chi è escluso, a chi è ai margini, ma con la stessa forza, con la stessa dignità, serve anche un’attenzione a chi è incluso, perché sennò sarà muro contro muro. Dobbiamo mettere in grado gli altri di poter capire, comprendere, conoscere, non semplificare, non generalizzare e soprattutto dobbiamo mettere in grado chi è all’esterno di non recintare una persona per sempre nell’errore, ma scommettere sulla persona perché, guardacaso, quando è stato possibile realizzare dei percorsi con dei bravi magistrati, una brava direzione, un volontariato attento sul territorio, che si è reso disponibile ad offrire delle opportunità, tutti siamo stati testimoni che è stato possibile voltare pagina. Allora, il ruolo dell’informazione: gli strumenti che voi avete realizzato (è simpatico vedere il "TG 2 Due Palazzi", questa sigla che colpisce) sono segno di un fermento, di una capacità di comunicare. Come pure quei giornali che sono nati all’interno delle carceri, con quel bisogno forse di progettare forte, ma anche la stessa rivista del Ministero, nata per creare una conoscenza. C’è bisogno di tutto questo. Io dissi, due anni fa, all’allora direttore del D.A.P., che il Ministero della Giustizia dovrebbe essere in grado di fare, come fanno gli altri Ministeri con la Pubblicità Progresso, degli spot pubblicitari costruiti dai detenuti, da chi è dentro… Quegli spot, che noi vediamo, sulla sicurezza, sulla strada, sul problema qui, sul problema là, alcuni possono anche fare a meno di farli, altri sono veramente di grande utilità alle persone. Che il Ministero della Giustizia sappia investire anche su questi strumenti, perché veramente c’è bisogno di dare una mano alle persone a cancellare i pregiudizi e le facili etichette. Questo non toglie che non è tutto semplice, non è tutto facile, che delle zone d’ombra ci sono e non siamo qui per semplificare, ma per dare il giusto ruolo all’informazione dentro e fuori, verso chi è escluso ma anche verso chi è incluso, e prendere coscienza che un "muro contro muro" non ci permetterà di creare delle condizioni diverse dentro i nostri territori. Il nuovo Ministro ha detto che intende sbloccare 830 miliardi per l’edilizia penitenziaria: ben venga se serve a migliorare alcune strutture, che sono una vergogna. E credo che voi, per primi, che avete questo compito difficile nell’amministrazione, sentite la fatica di alcune strutture che veramente non possono permettere una condizione umana e civile di cambiamento delle persone, perché anche la struttura crea una serie di opportunità... Non intendo entrare nel merito degli 830 miliardi che vanno in quella direzione, ma credo che bisogna veramente crederci, non voi, non voi qui, ma tanti altri: bisogna che credano nelle politiche sociali, nella prevenzione, nell’educazione, nella formazione, nell’informazione. Bene, aiutare a conoscere è una sfida importante, dentro e fuori, anche per garantire chi lavora qui dentro, per il rispetto e la dignità di tutti: dalla polizia penitenziaria, alle direzioni, al volontariato, ma anche per il beneficio di chi è ristretto in questa condizione. Migliorare il carcere, riducendone gli aspetti di contenitore della miseria e delle tensioni sociali, è necessario, perché, voi me lo insegnate, che nelle carceri italiane solo il 15% è detenuto per reati gravi. La stragrande maggioranza certamente ha sbagliato e nessuno vuole semplificare, ma quali altri percorsi si potrebbero prendere con la collaborazione di una società che si organizza all’esterno, che non lascia soli, che si motiva, che si mette in grado di offrire dei percorsi di accoglienza e di lavoro! E in queste giornate, in cui tutti si autoassolvono, sulle rogatorie, sul falso in bilancio, sul denaro illecito all’estero che rientra, chiedo un atto di equità: quel grido del Papa, di due anni fa, per un atto di clemenza… almeno questo, paradossalmente, venga fatto rispetto ai tanti poveri cristi che non hanno gli strumenti come altri. E guardate che non è retorica, non è demagogia, questa, non è appiccicare etichette a Tizio o Caio, ciò non mi appartiene: questa è giustizia. Non si può costruire giustizia senza ricerca della verità e queste verità sono davanti agli occhi di tutti. Nessuno può giustificarle, dopodiché, in questo paradosso, ci sia almeno la coscienza di mettere le teste dentro le carceri italiane, di ascoltare chi ci lavora, di ascoltare quel grido che arriva dai detenuti, di fare in modo che le riforme possano tradursi e realizzarsi, di trovare i canali per una informazione all’esterno che non faccia barriere e che non semplifichi. Bisogna prendere coscienza che chi sbaglia deve rispondere, ma ci sono tante modalità e tanti percorsi possibili, anche per chi dentro deve starci. La risposta è che un detenuto è sempre una persona e che il carcere deve essere sempre umano e civile. Allora, l’informazione gioca un ruolo molto importante, quello di aiutare a conoscere, ma soprattutto il volontariato non può diventare un tappabuchi: non voglio generalizzare, non voglio semplificare, abbiamo delle esperienze, dentro e fuori, eccezionali, ma dobbiamo anche dire che molte volte accade anche che il volontariato faccia da tappabuchi. Il volontariato non deve prestarsi a fare questo, non può perdere per strada la sua coscienza critica, non possiamo fermarci alla solidarietà verso gli altri, ma la solidarietà deve essere sempre il proseguimento di quell’impegno di giustizia. Vorrei terminare, allora, dicendo che questi anni, dentro e fuori, ci hanno insegnato che dobbiamo rispondere non tanto ai problemi delle persone (certo, se uno ha sbagliato bisogna tener conto anche di quel problema), ma dobbiamo rispondere soprattutto ai bisogni delle persone, che vengono prima dei problemi. Se non si fa questo, quell’articolo 27 della Costituzione cancelliamolo, perché non viene tradotto, non viene eseguito. I bisogni delle persone, innanzitutto, che poi sono i loro diritti, che devono poi trovare una risposta nei servizi, dentro e fuori. E uno di questi servizi è proprio quello di mettere in grado le persone, con l’informazione, di avere più strumenti. Perché noi non dobbiamo partire dalla povertà delle persone, dalle loro condizioni di povertà, ma dalla loro libertà, perché le persone devono essere messe in grado di essere libere da ogni forma di dipendenza, cioè di avere gli strumenti, anche di informazione, per poter scegliere e per poter orientarsi. E la seconda cosa che abbiamo imparato, a volte sbagliando, è che bisogna lavorare sulle "E" e non sulle "O": sono troppi quelli che lavorano sulle "O". Lavorare sulle "E" vuol dire la prevenzione e l’educazione, l’istituzione e il volontariato. La solidarietà fatta di reciprocità e la giustizia, lavorare dentro e fuori. Ma devo anche dire, e lo dico a me stesso, che dopo 35 anni di presenza, di problemi, di fatiche, etc., in questi contesti e con questi volti, io credo (e credo anche voi) abbiamo la sensazione che dobbiamo prendere coscienza che siamo tutti analfabeti. Siamo tutti analfabeti perché la rapidità delle trasformazioni, dei cambiamenti, ci prende alla sprovvista, sempre e tutti. Chi avrebbe detto, anni fa, che la popolazione carceraria sarebbe così profondamente cambiata e con questa velocità impressionante, il che richiede formazione a chi ci lavora, il che richiede nuovi strumenti, nuove conoscenze, il che ci fa sentire sempre piccoli piccoli. Siamo tutti analfabeti in questo senso, per dire che tutti, nessuno escluso, abbiamo bisogno di trovare quegli strumenti per conoscere, per approfondire, per formarci, che mi sembrano importanti. Ecco, sono queste alcune considerazioni, un grido di speranza nel paradosso di illegalità che ho visto in questi giorni. C’è stata quella furbizia di non rispondere al Papa, allora, perché c’erano altri giochi, altri interessi, e oggi rimane solo un grido di speranza.
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